altL’establishing shot è lo skyline di Shanghai (ma si può davvero mai darsi, in Lynch, un “establishing” che non rimandi al più volubile e mutante dei contesti, scheggia di mondo impazzita e completamente instabile, vista attraverso quella tutta sua vocazione all’ebrietà insicura degli spazi esterni, imbibiti secondo lo spettro delle tonalità lisergiche degli acrilici): lo sfondo è una notte azzurrata perché illuminata artificialmente, notte da megalopoli asiatica eternamente ricoperta dal baluginio ipnotico dei neon e delle mille luci notturne (come anche in Hou Hsiao-hsien).


Dopo essere entrata nel Grand Hotel che la ospita e aver attraversato un corridoio lunghissimo, che l’obbiettivo della camera slabbra sui bordi rendendolo insicuro e pericolante come la prospettiva scoscesa di un pittore medioevale, una donna (Marion Cotillard) raggiunge la porta della sua stanza. Si rende conto che una musica proviene dall’interno. Una volta dentro, sul pavimento del salottino d’ingresso, rialzata da un piccolo podio come cosa preziosa, vede una borsa Dior ricoperta di paillettes. Spaventata chiama la sicurezza, convinta che nell’appartamento sia entrato qualcuno.

Sopraggiungono due poliziotti dell’hotel, che, rigidi e inappuntabili, assomigliano alle figure laterali dei trittici di Bacon o ai donatori e ai santi delle sacre conversazioni del Rinascimento: formano una scolta, un “picchetto d’onore” attorno alla figura principale. Il primo le sta vicino cercando di rassicurarla, il secondo controlla il bagno e la stanza da letto: non trova nessuno. Le fanno domande, le chiedono da quanto è in città, se ha conosciuto qualcuno. Lei dice che è a Shanghai da ieri sera: racconta di un pranzo di lavoro. Poi, all’improvviso, le sovviene qualcosa: è una rêverie, la “sequenza” di un pericoloso incontro notturno con un amante asiatico. È quest’uomo misterioso ad averle regalato la borsa? E cosa contiene al suo interno?

Sono numerose le note a margine che si possono sviluppare a partire da immagini di così ostinata evidenza.
In primo luogo, lo spazio. Lynch divarica lo spazio-quadro trasformandolo in una specie di ottagono (o comunque in qualsiasi figura che nella geometria piana sia suscettibile di suggerire il maggior numero di angoli possibile rispetto al semplice quadrato) collegato ad altri ottagoni sia sopra sia su ognuno dei suoi lati (e su ogni lato c’è una superficie riflettente che rimanda a sua volta all’infinito questa moltiplicazione). Ognuna di queste chambre ottagonali possiede due livelli (come quei dipinti di Rothko che mostrano due campiture di diverso colore divise da un sottile spazio baluginante), collegati da un “pozzo” (spazio mediano di comunicazione completamente affettivo-mentale1): quello del “quotidiano” e, appunto, quello della “rêverie”.

Il primo è lo spazio della fissità ieratica e degli oggetti-nature morte spettrali che possiedono quella profondità cava e risonante di prove delittuose o di immagine fotografica banale capace però di fare punctum e provocare qualcosa di analogo al satori delle epifanie joyciane.
Il secondo è lo spazio della distorsione della percezione consueta e dell’introduzione del mondo pericoloso e pericolante della prospettiva ermeneutica, dove ogni oggetto è scollegato dai rapporti di causa ed effetto secondo la legge della pluralità dei livelli e dei piani di universo omologhi fra loro.

altLa borsa, oggetto fantasmale e mercificato copre la bocca aperta del pozzo, lo spazio di comunicazione fra uno e due con il suo volume ottuso e grazie al piccolo podio sul quale è adagiata. Che oggetto è mai questo? Lynch sa bene che è anch’esso un oggetto duplice, da un lato parte del violento bombardamento delle immagini pubblicitarie della società dei consumi, dall’altro elemento inscritto all’interno della diegesi del film come evento scioccante e lacerante: si tratta insomma, per dirla con Nancy, di una «violenza dell’immagine» e di una «immagine violenta» (Immagine e Violenza in Nancy 2007, p. 9).

Nella società dei consumi la realtà è diventata favola e, gli oggetti del desiderio, beni di consumo: questi ultimi da un lato (attraverso un processo che la semiotica chiama di attanzializzazione) sono investiti di valore e dotati di una forma di vita; dall’altro possiedono uno sguardo meduseo capace di trasformare in cosa ciò che toccano, cioè il soggetto, la cui attività fondamentale di pensiero era stata quella di porre le cose come altre-da-sé, come oggetti-sempre-distinti-da-sè. L’immagine pubblicitaria possiede, infatti, quella particolare capacità di trasferire sulla cosa tutta una serie di proprietà che sono dell’attante e quindi dotare l’oggetto di un corpo (come spiega Fontanille a proposito del getto d’acqua di Hubert Robert descritto in una pagina della Recherche proustiana).

Fra le operazioni più lucide compiute su materiale di questo tipo, quella della Pop Art si segnala per la capacità di sottolineare questa cosalizzazione attraverso un prelievo che impone una modifica e attua un congelamento come in vitro di queste possibilità attanziali-intenzionali, che, una volta esposte e modificate attraverso una serie di “operazioni”, rivelano il sottofondo mortifero della società dei consumi e inibiscono rifrangendolo lo sguardo meduseo dell’oggetto secondo il credo che recita «tutto quello che appartiene al mondo appartiene anche all’arte».

In un breve elenco di “operazioni” è possibile enumerare:
- la patina: è la superficie disforica della ruggine sulla latta di Campbell Soup di Warhol; è il rivestimento di bronzo delle lattine di birra di Johns, poste su un piedistallo;
- l’alterazione delle dimensioni: sono i dettagli di Warhol per il quale le labbra restituiscono la Marilyn intera, gli oggetti ingranditi di Oldenburg, la pagina di fumetto di Lichtenstein;
- l’eccesso di lunghezza: la durata infinita dei film-proiezioni warholiane; le scritte di Johns;
- sfocatura: tutto il New American Cinema (che con la Pop Art, i Beat e le avanguardie storiche, intratteneva una serie di relazioni), adoperava il fuori fuoco come una perdita di discernimento e di costante mancanza di qualsiasi presa possibile sull’oggetto, ma sfocature sono anche in Warhol, nelle figure sfatte di Kitaj e in My Marilyn di Hamilton;
- l’isolamento: la singola pagina di comics di Lichtenstein; l’objet trouvé di Rauschenberg;
- la trasposizione pittorica: le bandiere di Johns, i richiami agli oggetti della realtà di Rauschenberg e Peter Blake ma anche dell’ultimo Warhol;
la ripetizione all’infinito: le banconote e le labbra di Marilyn di Warhol.

È quindi possibile una deviazione-transustanziazione del bene di consumo: il risultato è un mondo parallelo e contiguo a quello dei consumi dove l’artista impone alla merce le sue regole (si pensi alla Factory warholiana, a metà fra bottega rinascimentale e catena di montaggio fordiana)2.

Come opera Lynch sulla borsa Dior? Egli “trasforma mantenendo”. Da un lato l’oggetto-borsa possiede tutta la forza di attanzializzazione dell’immagine pubblicitaria (lo short-movie è, infatti, non dimentichiamolo, una pubblicità commerciale) e, nello stesso tempo, diventa, come vedremo, qualcosa di completamente diverso.

altLa borsa Dior possiede (come si è accennato in precedenza), una struttura dinamica capace di auto-organizzarsi (la borsa ricoperta dalla serie modale e rilucente delle paillettes è materia animata e totalità vibrante); è dotata di un involucro e di “carne” (contiene al suo interno “qualcosa”); acquista un ruolo attanziale (cioè quanto meno un “poter fare”) e, infine, una identità modale e tematica in grado di garantire un ruolo al caso (l’apparizione della borsa è esposta alla serie degli accidenti magici: si veda il fumo che all’improvviso sembra propagare dal suo interno e la misteriosa partenogenesi dell’oggetto). Nello stesso tempo però Lynch sembra rivestirla di tutta una serie di proprietà collaterali che eccedono il suo statuto e la trasformano in qualcosa di differente e assai più complesso.

Ritorniamo, per fare luce su questo aspetto, allo spazio e alla sua divaricazione essenziale.
Il primo spazio, lo si è detto, è il quotidiano che in Lynch è sempre il luogo della ritualità di superficie e del decoro rallentato, sospetto e ottuso, che proprio attraverso questo tergiversare delle cose si apre alla possibilità, come una tela di Fontana, della crepa che permette la manifestazione dell’Altro (luoghi lynchiani per eccellenza sono la sterminata provincia USA, le anse della metropoli o i set cinematografici, tutti spazi dove si manifesta una certa qualità di tempo perduto e la più grande quantità di desiderio represso). Si tratta di una qualitá di spazio anonimo (e diviso in sezioni come un’arena), quadro che può restringersi in sottoquadri, balaustra di contenimento che restringe i limiti compromettendo la figura all’isolamento: è la funzione assolta dal paravento, che impedisce, come i tendaggi adoperati da Francis Bacon3, la dispersione o la fuga della figura. Siamo dinanzi proprio a quel baconiano «scenario senza risalto» (Leiris) degli sfondi optic, che sono trappola e spazio avvolgente (le dilatazioni operate dal grandangolo in Lynch, l’analogo uso che il cineasta fa delle pareti che si serrano a nastro sulla figura).

Il secondo spazio è quello della rêverie, che all’inizio si pone come alone e interferenza di un quotidiano di cui sarebbe l’inaudito corollario permettendo, alla fine, la manifestazione di qualcosa di irrefutabile, l’apparizione di una presenza. Si tratta di un “faccia a faccia” il cui fine è il contatto, la presa di qualcosa che possiede la più grande densità di esistenza.

La donna si inoltra con il suo amante notturno nella città desolata per sfuggire a qualcuno che li sta inseguendo (come nel più classico dei sogni di persecuzione): l’immagine è instabile, ed entrambi lasciano una scia dietro di sé che è il correlativo digitale di quella rilasciata, bianca scia inorganica, dalle figure di Bacon. La fuga dei due amanti, con la cortina diafana delle sovraimpressioni e l’estrazione di una qualità essenziale di movimento ricorda Aurora di Murnau (Marion Cotillard ultima City Girl del cinema!). I due riescono a guadagnare la sommità di un grattacielo. Sulla superficie del palazzo di fronte a loro, ravenant, la pubblicità della borsa Dior (in una di quelle proliferazioni infinite e tentacolari del materiale pubblicitario: scopro per caso, proprio mentre sto scrivendo queste pagine, dentro un libro di riproduzioni di Velazquez, la foto della pubblicità di una borsa Dior con Marion Cotillard in una posa ripresa della Venere allo specchio dello stesso Velazquez4 alla National Gallery – opera che tra l’altro fu vandalizzata con una serie di tagli longitudinali, tutti sulla “carne”). A un tratto, dopo il bacio e le carezze (Hiroshima mon amour, nel dettaglio delle mani di lei che sfiorano la nuca di lui!), l’uomo tende alla donna un fiore azzurro mentre è allontanato e come risucchiato o dominato da un imperativo feroce che lo fa muovere all’indietro (come in quelle ritorsioni che Epstein operava sullo scorrimento dell’immagine); lei ripete «I love you, I love you, I love you» in una di quelle solipsistiche ripetizioni della parola che appartengono al sogno come all’ostinazione circolare nella quale si perdono gli amanti che intravedono così, sebbene in maniera confusa, la grammatica tutta internale del Ritorno.

altDove si era perduta o smarrita, allora, Marion? Forse in quello che Corbin chiama mondo intermedio o mundus imaginalis, il mondo in cui «lo spazio è la dimensione qualitativa di uno stato interiore e le cui forme sostanziali sono Forme di luce» (Corbin 2010, p. 67) che possiedono un volto e uno sguardo. Mondi spirituali dove esistono spazi simili a quelli di qui che però non possono essere misurati come nel mondo e dipendono dagli internali:

spazi misurati da stati interiori che presuppongono uno spazio qualitativo, discontinuo, contrapposto allo spazio quantitativo, continuo, omogeneo misurabile secondo parametri costanti. Spazio esistenziale, il cui rapporto con lo spazio fisico-matematico è analogo al rapporto tra il tempo esistenziale e il tempo storico della cronologia. Così, ci sarebbe molto da imparare nei mutamenti della rappresentazione dello spazio nelle arti figurative. (ivi, p. 66)

Passaggio dalla prospettiva ripida e scalena del quotidiano a quella della rêverie, in una scienza delle corrispondenze che lascia intuire piani di universo comunicanti fra loro. La rêverie apre alla città spirituale del ritorno di contro alla “Caverna del rifugio” dell’hotel, alla quale sta di fronte intravista grazie al ruolo seduttore ed esegetico dell’amante orientale-animus-angelo, archetipo che si manifesta in forme personali.

Ritorniamo così all’hotel. Marion si avvicina alla borsa e, fra mille precauzioni, la apre. Dentro c’è il fiore blu che l’amante le tendeva nel sogno. Lo avvicina al viso. Lo odora (oggetti simili hanno forse un odore? Se sì, è un odore che è anche sapore, che è anche suono, che è anche colore, come nel sonetto di Rimbaud). Fiore azzurro dalla forma di calice come quello di Novalis, che nasce dalla notte e che riconduce la tenebra abissale alla sua radice azzurrata e al brivido delle lontananze e il quotidiano alla dimensione irrappresentabile e totalmente spirituale della poesia! Poi Marion abbraccia la borsa come se fosse la pars più eletta dell’amante perduto secondo il pensiero, arcaico e moderno insieme, delle appartenenze.

Che razza di oggetto allora è mai questo? Lynch trasforma la borsa Dior in un’opera al neon di Dan Flavin, nell’enigma del Monumento per Cleopatra (grande cilindro orizzontale in marmo bianco rivestito di foglie d’oro e imprigionato in una teca a sua volta deposta in una stanza dalle pareti d’oro) di James Lee Byars. Essa copre, come si è detto, il pozzo-spazio di comunicazione che funziona come una di quelle soglie abissali che nello stesso tempo sembrano una superficie piana di Anish Kapoor. La borsa Dior di Lynch è insieme parafuoco e catalizzatore: oggetto che scherma la profondità abissale del pozzo che comunica con l’immaginale (la borsa è una borsa è una borsa, come dice Gertrude Stein a proposito della rosa), ma anche apparizione sconcertante che sottomette la realtà al suo dettato ibrido e immaginale, concrezione onirica che proviene dai momenti decisivi del pericolo, dell’eccesso erotico e dell’avventura, dove il quotidiano si fa particella ardente di universo e a regnare sono effervescenza e incertezza.

È soltanto una cosa tra le cose
Ma è anche un’arma. Essa fu forgiata
In Inghilterra, nel 1604,
E le affidarono un sogno. Rinserra
Clamore e furia e notte e rossosangue.
La mano la soppesa. Chi direbbe
Che contiene l’inferno: le barbute
Streghe che sono le parche, i pugnali
Che eseguono le leggi della notte,
La brezza delicata sul castello
Che ti vedrà morir, la delicata
Mano che può insanguinare i mari,
La spada e il clamore della battaglia.
Quel tumulto silenzioso dorme
Nel perimetro di uno di quei libri
Del tranquillo scaffale. Dorme e aspetta.
(Un Libro, Borges 2005, p. 1067)

Lynch mette così a nudo delle forze e trasforma la borsa Dior in un oggetto inesplicabile, superficie piatta e rilucente e palinsesto a mille piani, ottuso oggetto minimal che si rifrange all’infinito su se stesso e che manifesta solo la sua paradossale mancanza di contenuto, e porta che dà sull’altrove.

Lynch traduce la “violenza violenta” dell’immagine pubblicitaria, ostinatamente capace solo di toccare il suo proprio fondo che è assolutamente superficiale e che si crede capace di rivelare assolutamente, in quella che Nancy chiama «violenza senza violenza» del regime dell’arte, imminenza di una rivelazione che non si produce (Borges), «rivelazione che non ha luogo, che dimostra che non c’è nulla da rivelare, senza fondo che non è il baratro di una conflagrazione ma l’imminenza infinitamente sospesa su di sé» (Immagine e Violenza in Nancy 2007, p. 28.).

L’auspicio «Free (free) please don’t come back» del suo pezzo rock noisy, So Glad, che fa parte dell’album Crazy Clown Time, non è stato rispettato. Tutto quello che si trova nel cono d’ombra del mondo immaginale, a volte, fa capolino e, ravenant, fa ritorno: basta dare un’occhiata dentro la redrum. «Please Pinky watch the room; Pinky what do you see?»5.

http://www.youtube.com/watch?v=oepfkpkxjmA


Note

1 È, più o meno, questo lo schema semplificato e rivisto di quella grande costruzione immaginale che è la Biblioteca di Babele di Borges, composta da un numero infinito di gallerie esagonali in successione e sovrapposizione interminabile. Ma è anche la struttura, se vogliamo, delle carceri di Piranesi e del nastro di Moebius. Tutte rimandano all’idea di un tempo che si fa spazio interminabilmente consecutivo e sovrapposto in fasci di durata. Ma il pozzo è naturalmente anche quello del Tempio Sabeo di cui Corbin ci fornisce la mappa fantasmatica: tempio di luce nascosto dietro quello materiale.

2 In un passo delle note a margine della Mostra delle Atrocità Ballard scrive:

Elizabeth Taylor, l’ultima delle attrici di Hollywood vecchia maniera, ha conservato in pieno la sua presa sull’immaginazione popolare […] È una caratteristica che condivide con quasi tutti i personaggi pubblici di questo libro: Marilyn Monroe, Reagan, Jackie Kennedy, per esempio. Gli anni sessanta videro una commistione irripetibile di fantasie pubbliche e private […] Per la prima volta il sogno collettivo di Hollywood si mescolava all’immaginazione privata dello spettatore iperstimolato degli anni Sessanta […] Adesso la nostra percezione della fama è cambiata. Non posso immaginare di scrivere qualcosa su Maryl Streep e sulla principessa Diana, e anche l’indubbio mistero di una figura come Margaret Thatcher, sembra riflettere più che altro dei difetti di progettazione nella sua personalità così eminentemente auto costruita […] Al contrario della Taylor, esse non irradiano alcuna luce. Si è verificata una sorta di banalizzazione della celebrità: oggi la fama che ci viene offerta è istantanea, pronta per l’uso, e ha il potere nutritivo di una zuppa in scatola. Le serigrafie di Warhol mostrano questo processo in atto. I suoi ritratti di Marilyn Monroe e di Jackie Kennedy sottraggono alla vita di queste donne disperate la loro tragedia, e la sua tavolozza lucida e brillante le restituisce al mondo innocente dei libri colorati per bambini. (Ballard 1990, p. 31)

Marion Cotillard sembra l’attrice di oggi (a più di quaranta anni da La mostra delle atrocità – il libro è del 1970) che meglio riesce a manifestare quel suo essere “vecchia maniera”. È forse per questa ragione che è stata scelta da Zemeckis per un film come Allied, che riflette sulle potenze del falso e il potere animista degli oggetti?

3 Lynch pittore prima che cineasta alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia è, come si sa, un grande ammiratore di Bacon (Lynch e la rappresentazione del grido, secondo una diagonale che va dal “grido nero delle madri” della strage degli innocenti medioevali a Ejzenštejn fino a Bacon): Leiris parla, a proposito della pittura di Bacon – ma sono termini che andrebbero bene anche per Lynch – di Presenza vivente, Aggressione e Vita intensa. Lynch ama anche il flusso di materia vischiosa, magmatica e organica di Pollock e le diagonali nere di Franz Kline, traccianti geometrie inesorabili che sondano lo spazio (vere e proprie indicazioni di disposizioni del materiale in una profondità ribattuta in avanti).

4 In effetti, è una specie di “montaggio” di immagini dello stesso tipo che mostrano la bellezza muliebre allo specchio: è seduta come quella di Tiziano (1555, Washington); è di spalle come quella di Rubens (1613, Vaduz); mostra la mano, come quella di Veronese (1585, Nebraska).

5 È un verso della prima canzone dello stesso album, Pinky’s Dream.


Bibliografia

Ballard J. G. (1990): La mostra delle Atrocità, Rizzoli, Milano.

Borges J. L. (2005): Storia della Notte, in Tutte le opere, Porzio D. – Lyria H. (a cura di), Mondadori, Milano.

Corbin H. (2010): L’immagine del Tempio, SE, Milano.

Nancy J.-L. (2007): Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli.


Filmografia

Allied (Robert Zemeckis 2016)

Aurora (Sunrise: A Song of Two Humans) (Friedrich Wilhelm Murnau 1927)

Hiroshima mon amour (Alain Resnais 1959)

Lady Blue Shanghai (David Lynch 2010)