Nel calvario, stillicidio di icone, incarnazioni rudi, ma anche, allo stesso tempo, sotteso, meccanico dispositivo di godimento, di sfogo a occhi spalancati, svuotati, che è il cinema di Schrader, First Reformed appare, anche nella sua nettezza, trasparenza dell'assunto, uno dei punti più alti raggiunti dal cinema contemporaneo, nella misura in cui a un'estetica della scarnificazione, del rigore, della sottrazione di materiale cinematografico si affianca un discorso lucido e disperato sullo stare al mondo in epoca di dissipazione delle concrete possibilità d'esserci.


Che sono poi le possibilità di fare cinema, giustapporre ancora le immagini: la fede incrollabile malickiana ora al cospetto del processo stesso del crollo, della caduta (smottamento fino ai miasmi, agli scoli putridi, le discariche), per verificarne l'eventualità, la sopravvivenza di una qualche particella di luce.


È il calvario delle forme, tra l'altro tutte chiuse nella loro rigorosa, ieratica essenzialità; il tentativo di forzarle, spezzarle (come nel finale interrotto, che però continua nelle spire del fuoricampo, del fuori-fuoco, dell'altro dal film, nella continuità ininterrotta di un campo trascendentale, confermato proprio da quell'interruzione propriamente, straordinariamente cinematofrafica), provarne la resistenza, dissolverle per un istinto iconoclasta e per un senso di colpa che forse vengono dal retaggio calvinista e che però sono consustanziali alla spinta del desiderio (anche, anzi sopratutto corporale, e tanto maggiore in quanto proibito, punito) e a un'esigenza inveterata di evocazione, di sacra edificazione.

Perciò si tratta di immagini che portano inscritte in se stesse, nella loro carne, il sacrificio veemente, scandaloso, il martirio autoinflitto, nel corpo di Toller, il filo spinato che lacera la carne (im)passibile del film, lo fa implodere in un dolore sottaciuto, in graffio urticante, rivolo di sangue che penetra il tessuto poroso, bianco, ieratico della tonaca, così come impregna il nevaio su cui resta un corpo senza cervella; salvo distendersi finalmente, necessariamente in un abbraccio, che poi è rutilante (in disperate e folli spirali della macchina da presa), in una sovrapposizione di forme (di corpi), e nell'apertura vertiginosa di un volo interstellare.

È in questa ulteriore declinazione delle ossessioni schraderiane (del contatto, del sesso, dell'amore: e, ancora, ossessione della loro figurazione in quanto benedizione e scandalo allo stesso tempo), in queste irrisolte, necessitate contraddizioni interne, fomentate proprio dalla loro coesistenza, che il film prende carne dentro gli argini di una liricità essenziale, scarna, struggente, fatta delle solitudini di cani randagi brancolanti nel bianco vuoto ecclesiale, invernale, sommesso, che si cercano con gli occhi tremuli, grondanti di baratro, nel momento esatto in cui vi rinunciano eppure già protendendosi verso l'altro al di là della luce smorta.

Una lirica pragmatica, il cui meccanismo funziona a inquietudine costante, scandita dalla distanza e poi dal toccarsi, compenetrarsi delle antitesi: è l'appartenenza a una religiosità secolare e l'insinuarsi di una secolarizzazione dell'”intervento”, fino all'attivismo ambientalista e al terrorismo del curato di campagna; il martirio della carne per via della colpa, coestensiva, della stessa sostanza dell'estasi e della tentazione più violenta e scabrosa; la pulizia, l'asetticità dell'astinenza, della rinuncia, e l'irrompere o-sceno e attraente dello sporco, dello svilimento corporale con le sue inferenze di essudazioni, laceramenti, polluzioni.

Un'immagine contrastata allora, che vibra sullo schermo nel momento in cui i contrari si toccano e si identificano, e si mostrano in quanto monstra e oltranza, ridefinizione e(ste)tica perentoria, corrispondenza di un corpo stanco di prete, lacerato da una cintura di spine e sopra, una tonaca macchiata di sangue; e di un giubbino esplosivo con paramenti curiali propri della celebrazione di una messa che sarebbe deflagrata se non fosse stato per lei che irrompe ancora in modulazione di luce fredda. Lei, elemento sgomento e fragrante di una polarità (all'insegna della smania e della paura del contatto) che tiene tutto il film avvinghiato allo spazio, il germinare dell'inverno silennzioso, che la divide da Toller, che è tempo vibrante d'attesa, erotismo, lirismo disadorno.

Il frusciare dei capelli flagrante, caduti all'impovviso ed esatti, flessuosi su di lui in piena voragine, quasi scocca nel silenzio disumano dell'inverno: ed è un sipario aperto al volo che si inoltra dentro il suono delle costellazioni, per arrivare all'abbraccio vorticoso, il bacio come violento, l'interruzione improvvisa, brutale, dello sguardo.