Un uomo anziano, un po’ curvo, esce dalla casa dove vive, un piccolo alloggio prefabbricato di una periferia americana qualsiasi: lo vediamo in abiti da città, con cappello e cappotto, e immaginiamo stia uscendo per sbrigare qualche faccenda (e, dato il sole, che sia “freddoloso”). L’uomo cammina lentamente, sembra scosso, e fa qualcosa che non ci aspettavamo: si blocca all’improvviso (e la macchina da presa, in maniera involontariamente poetica, indugia un istante prima di mostrarci il motivo della sosta). L’anziano si è fermato ad osservare il cespuglio di rose nel portico e si china per coglierne e odorarne una, avvicinandola al volto, mentre la voce over racconta che i fiori furono piantati dall’amata moglie morta.

L’odore della rosa suscita il ricordo straziante della scomparsa («una rosa è una rosa è una rosa» non vale nel linguaggio cifrato degli amanti: la rosa è sempre la donna perduta), e l’uomo la lascia cadere al suolo. Il regalo della natura è una condanna, la piccola epifania della memoria una ferita. L’uomo si dirige allora fuori campo e, come vedremo, fuori dalla vita, «abbandonando casa sua per non ritornare più», per lanciarsi alla ricerca dell’amata morta e della morte dell’amata. L’uomo del cespuglio di rose è Bela Lugosi, nell’ultima scena che ha interpretato prima di morire (il film è Plan 9 from outer space di Ed Wood) (1): colui che aveva interpretato Dracula, il non-morto, si preparava a uscire di scena, Orfeo invecchiato e fantasma per sempre.

Questa sequenza mi ha sempre fatto pensare a Macedonio Fernández, il grande scrittore argentino che amò per tutta la vita la sua compagna, Elena, morta precocemente, e si era impegnato a negare l’io affinché non ci fosse un “io” che muore. Anche Macedonio era freddoloso. Anche Macedonio, come Bela quando annusa il fiore, è «colui che conosce le delizie della perdita». Anche Macedonio, dopo la morte di Elena, abbandonò casa sua «per non ritornare più». Anche Macedonio uscì dalla vita, perché, con la morte di Elena «fu necessario che lasciasse la vita anche lui, che abbandonasse la vita, come lei l’aveva abbandonata, come se lui fosse uscito a cercarla e lei si trovasse sulla riva opposta» (2).

Anche Macedonio, infine, scrive a proposito di un Cuidador de una plantita, del custode di una pianta: il breve racconto parla di una coppia che crede che una pianta sia connessa alla loro alla vita sentimentale e comincia a temere che, morta la pianta, muoia anche il loro amore (nel film con Lugosi accade il contrario: l’amore termina tragicamente, ma la piantina continua a vivere). Leggendo questo paragrafo, anni dopo, l’associazione fra Macedonio e la sequenza del film ne è uscita rafforzata:

Accesi lo schermo che si trovava alla parete. All’inizio c’erano dei numeri che si proiettavano in mezzo a righe e, dopo, iniziava un film in Super-8 con la figura di un anziano, capelli bianchi e giacca che usciva da una casetta di legno e si sedeva in una sedia di vimini. Quest’uomo era un poeta, un filosofo e un inventore. Seduto sulla sedia di vimini, Macedonio guardò verso la macchina da presa e si abbottonò la giacca, come se si volesse coprire, prima di salutare con un lieve inchino (3).

In questo miracoloso film familiare filmato da un amateur (un parente? un amico?) il grande scrittore argentino saluta i suoi lettori che si rivelano essere non suoi contemporanei ma postumi: è per questi “lettori di domani” che Macedonio scrive e che interpella senza sosta perché sempre stava compilando storie di un altro o dell’altro spacciandole per proprie. La descrizione del filmato in super-8 è tratta da la Ciudad Ausente di Ricardo Piglia. Nel romanzo Macedonio è l’ideatore di una «macchina per costruire storie» che serve per riportare in vita la moglie scomparsa, annullando la morte grazie alla costruzione di un mondo virtuale: Elena diventa essa stessa la macchina che produce storie senza fine, «racconti convertiti in ricordi invisibili che tutti pensano siano propri, e invece sono repliche» (4) mescolando i ricordi personali con la storia collettiva.

Macedonio Fernández fu bricoleur, romanziere, poeta, filosofo metafisico, candidato alla Presidenza dell’Argentina, avvocato, polemista, conversatore, utopista anarchico e guitarrero (5). In Continuacion de la nada scrive: «Universo o Realtà ed io nascemmo il 1 giugno 1874. Il non nascere è non avere mondo. Autobiografia come

genere adulterato. Solo la storia lo è di più. Seconda nascita: essere un autore convinto che non riuscirà mai a scrivere» (6). Con Macedonio i dubbi, gli errori, gli atti mancati, ma anche la riflessione e il processo della scrittura entrano nella creazione letteraria divenuta gioco del mondo, anni prima di Cortázar, il suo migliore allievo proprio perché “postumo”. Scriveva in foglietti che poi conservava piegati dentro i barattoli della credenza e si racconta che conservò un poema dedicato ad Elena nella scatola di biscotti in casa di un amico che lo stava ospitando. Questi ritrovò il prezioso autografo venti anni dopo... Dopo la morte della moglie Macedonio abbandonò la casa e i figli e iniziò a vivere in camerette d’hotel economici:

Quando sua moglie morì fu necessario che lasciasse la vita anche lui, che anche lui abbandonasse la vita, come se fosse uscita a cercarla e lei si trovasse sulla riva opposta, quella che Macedonio chiamava l’altra riva. Si convertì in un naufrago che custodiva in una cassa quello che era riuscito a salvare dalle acque. Visse in un’isola immaginaria anni e anni di solitudine, come Robinson Crusoe (…) Morta Elena, lui non poteva più vivere e nello stesso tempo rimaneva in vita (io non morì e non rimasi vivo, così piangeva Dante) (7).

Descrive una di queste “isole” in uno di quei magnifici momenti autobiografici che costellano i suoi scritti:

Senza niente che mi chiami o accompagni in questa stanza che non mi dice nulla, solo in queste ore prima dell’alba dove tutto parla di stanchezza, di vita nella morte, dello stanco desiderio di non tornare alla vita, di aver concluso, avendo paura di sapere che possiedo un nome, che sono umano, che esisto. Che solitudine terribile! Che stai facendo di me, Vita, che tanto ti ho seguito e ti comprendo? (8)

Ed è con una allusione ad una stanza di hotel che inizia Macedonio Fernández (1995), il film che Andrés Di Tella, accompagnato da Ricardo Piglia come mentore e detective, dedica alla figura dello scrittore argentino, dividendolo in rubriche (“Appunti per una biografia”; “La isola”; “Procuratore”; “Il romanzo nella città”; “Elena Bellamuerta”; “Museo”) e utilizzando materiale di archivio e immagini del presente che servono per illuminare il passato secondo un movimento tipicamente macedoniano. In Macedonio, se ci pensiamo bene, ci si muove non dal presente verso il futuro ma dal futuro verso il passato e, da lì, verso l’eternità: il presente diventa allora il fotogramma fisso di uno scrittore che, recluso in una stanza d’albergo, scrive una storia che le contiene tutte.

Piglia nel film afferma che «la letteratura argentina devi cercarla in alcuni luoghi, per esempio, in una stanza di pensione di piazza Once, dove uno scrittore passa il tempo a scrivere un romanzo che dura tutta la vita». Piglia: altro abitatore (e scrittore) di stanze di albergo (che in un hotel di La Plata e un altro di Buenos Aires aveva trovato la corrispondenza segreta di due amanti) racconta come vicino all’hotel Almagro incontrò una donna che vendeva fiori (Di Tella incorpora vecchie immagini di incontri di boxe alle foto del luogo) con appuntata, sul vestito, una foto di Macedonio (9).

La donna (Piglia ne rivela il nome: Rosa Malabia) e lo scrittore diventarono amici: lei gli raccontò che era «assolutamente macedoniana» (lo aveva conosciuto da bambina, era un amico del padre). La donna portava sempre con sé un registratore, che ascoltava quando stava sola. Diceva che era morta, e che il corpo aveva un buco. La donna dei fiori finirà ricoverata in un ospizio. Allo scrittore venne poi spedito da qualcuno (i parenti?) il registratore. Nel film ascoltiamo l’ultimo nastro di questa “Krapp argentina”: c’è registrata la una voce di uomo. È, forse, quella di Macedonio? Lo scrittore per alcuni era infatti, anzitutto, una voce: è il grande equivoco di Borges, che segnò per molto tempo gli studi su colui che considerava suo maestro: «più che leggerlo è necessario conoscerlo» (10), diceva l’autore di Finzioni, che fu lo stesso Macedonio a trasformare in personaggio letterario (11).

Una delle sue attività preferite era quella di conversare nei bar di Buenos Aires (come Gombrovich, uno scrittore che andrebbe letto “accanto” a Macedonio), ma nella recollection in tranquility della sua stanza in affitto, l’eroe dei suoi libri era il Pensiero (scrisse un tango che si chiamava, e non poteva essere diversamente, Tango del pensar, con musica di Abel Rufino: Macedonio raccontò una volta a del Mazo che «è assai interessante cercare di trovare nella musica gli accordi fondamentali dai quali, forse, deriverebbe l’intero universo»).

In Diario escrito en la Estancia, scritto nel 1938, annota: «Io sono colui che meglio ha sentito il sorprendente sconforto del suo linguaggio in relazione al pensare. In verità mi perdo nel mio pensare come chi sogna, come chi entra immediatamente nel suo pensiero. Io sono colui che conosce le delizie della perdita» (12). Dire e Pensare. German García si rivela esegeta più acuto di Borges quando scrive: «dato che non c’è niente da dire, tutto ritorna a pensarsi. Il dire, per Macedonio, suppone la sanzione dell’altro, mentre il pensare introduce l’enigma incosciente che fa che certe idee ritornino inaspettatamente, si impongano in qualunque momento, senza che le si chiami, senza che le si aspetti» (13).

Ma Macedonio non fu solo oratore e scrittore. Fu procuratore nell’alto Paraná (Di Tella, nel suo film, inserisce qualche immagine d’epoca di quei territori definiti inferno verde, terra di maledizione e castigo, «salario della paura» del cono sur) e sembra sia riuscito a non far condannare mai nessuno (nemmeno un uomo che assassinò le proprie figlie!). Si candidò alla presidenza, tentativo di “azione politica marginale” dove il progetto era più importante dell’azione e fu un utopista anarchico che cercò di fondare la sua “città ideale” in un’isola alla frontiera del Paraguay. Piglia, che sostiene che l’opera di Macedonio Fernández è l’archivio di questa società perduta e futura, situa la macchina macedoniana de la Ciudad Ausente a Tigres, il sud-est asiatico a lato di Buenos Aires, che Borges “utilizzava” per immaginarsi lo sfondo dei romanzi di Conrad.

Macedonio e la selva: lo scrittore era attratto dalle zone tropicali, ossia incandescenti, del pensiero e, attraverso l’episodicità del suo stile frammentario e sospeso, creava una specie di cliffhangher folletinesco del pensiero la cui continuità, apparentemente frustrata, è deviata continuamente deviata (anche nella stessa pagina). Al centro della sua ricerca impossibile stava il lettore, spronato ad essere originale, “salteado” (ossia capace di saltare da una parte all’altra di testo divenuto frammentario e fatto di brani inconclusi, in un gran montaggio degli eterogenei) e a diventare co-autore. Sarà proprio il lettore, continuamente implicato in una scrittura che non smette di rifarsi e ricominciare daccapo senza produrre altro che lo scacco trionfale del ricominciamento e dell’erranza (fino allo sforzo massimo di produrre se stessa in maniera celibe – come una macchina appunto –), che spingerà Macedonio al genere autobiografico: «devo al lettore», scrive, «come arrivai al genere autobiografia scritta per un altro». 

Come comincia Una novela que comienza? Parlando di una precisa classe di lettori e scrittori, i consumatori e produttori di “inizi”: «Ho qui un prologo la cui continuazione dipende dal lettore. Glielo abbandono»; oppure: «tu che mi hai letto prima che scrivessi» (14). L’inizio non è una continuazione che non si produce, ma la produzione di tutte le continuazioni possibili in stato sospeso e latente. Immaginiamo allora un libro composto da soli libri potenziali, che si interrompono dopo una pagina: Macedonio si rivela essere soprattutto una macchina di scrittura che genera letteratura: un libro che genera libri (15). Questa idea di scrittura “potenziale” apre ad esempio una serie di sviluppi ulteriori.

Si potrebbe, ad esempio, a partire da questa novela que comienza eternamente senza continuare, dove la continuazione sono, appunto, i multipli inizi che la compongono, provare a scrivere un libro fatto di libri, dove ogni capitolo è, per esempio, un romanzo abortito: leggeremmo così il romanzo noir, quello rosa, il realista del secolo XIX, quello enciclopedico del secolo XVIII, il romanzo gotico e il poema cavalleresco. È, questo, il lato del pastiche, amato dai modernisti come Marechal. Il libro che inizia può anche mostrare storie differenti che si scoprono essere, se ordinate nella sequenza corretta, porzioni di capitoli di una storia unica. È questo, il lato del paradigma indiziario utilizzato nei romanzi di ficción-especulativa, (come, ad esempio, in Borges). Oppure, semplicemente, quelle del libro potrebbero essere tutte storie che cominciano per terminare all’improvviso, mentre la vita dei personaggi continua: questa tecnica dell’interruzione è propria del racconto breve tipica della tradizione realista americana della prima metà del XX secolo che, in Argentina, è ripresa e modificata dai suoi migliori narratori.

Macedonio come figura alla base dell’intera letteratura argentina? Lui che non è l’autore di nessuna delle opere di “fondazione” della letteratura nazionale (il Facundo in prosa, il Martin Fierro in versi) e nemmeno il primo autore di un genere determinato (ad esempio, Una excursion a los indios ranqueles per lo studio etnologico), ma rimane il compilatore di numerosissimi scritti dispersi, quasi mai terminati e pubblicati postumi dal figlio, Adolfo de Obieta.

Macedonio prevedeva una «novela que no sigue», un romanzo che non prosegue; poi, un romanzo impedito; quindi descrive un romanzo dalla copertina, anticipando le moderne tecniche pubblicitarie. Cominciò a scrivere il suo capolavoro, El museo de la novela de la eterna, nel 1904, e vi lavorò per quasi cinquant’anni, senza mai terminarlo. È il progetto di un romanzo che non ha fine, che dura il tempo di una vita e nel quale lo scrittore decide di non scegliere una possibilità eliminando tutte le altre, ma di inserirle tutte (viene in mente una frase di Freud quando dice, ne Il disagio della civiltà – cito a memoria – «basterebbe che l’osservatore cambiasse la direzione del suo sguardo o il punto di osservazione per far sorgere una o l’altra di queste visioni»).

Il risultato è un libro che dura per sempre, che esiste per raccontare tutte le variabili, affinché ognuna delle possibilità non venga esclusa ma sviluppata (Macedonio che dice a Marechal: «un romanzo è la storia di un destino completo») e che Piglia definisce, nel film di Di Tella, «romanzo, trattato, piano di vita e esperienza dell’irreale», per poi aggiungere: «scrisse l’opera dell’avvenire. I suoi libri si svolgono nel futuro». Nello stesso tempo, è il libro destinato a rendere di nuovo presente Elena Bellamuerta: «Lei era l’Eterna, il fiume del racconto, la voce interminabile che manteneva vivo il ricordo» (16). Tutti i capolavori dei discepoli di Macedonio (Borges, Marechal, Cortázar) non parlano forse di una donna perduta e della necessità di trasformarla in una specie di visore orfico attraverso il quale osservare (produrre) di nuovo la realtà?

German García (che Di Tella filma nel suo studio) scrive che nel romanzo «la perdita dell’amore converte l’amore in una allegoria dell’assente» (17). Nel capitolo X del romanzo Macedonio annota: «Ciò che ho creato desiderava la sua realtà e anche il suo autore, rendendo così l’autore stesso impossibile; quanto facilmente dimentica, confonde, si arrovella e il sentimento si perde in relazione al suo scopo e al luogo di realtà o fantasia in cui si trova» (18). Macedonio inseguiva un libro che fosse la compilazione infinita di tutte le virtualità future: «fuggire verso gli spazi indefiniti delle forme future. Il possibile è ciò che tende all’esistenza. Ciò che si può immaginare accade ed entra a far parte della realtà» (19); il possibile è l’essenza del mondo. Non si scrive forse per rispondere alla domanda «che cosa avrei fatto se fossi stato al posto di un altro?»  E il posto dell’altro non è il luogo di ogni biografia?

Macedonio si interrogò costantemente sul significato del racconto (auto)biografico:

Per Macedonio la bio- e la -grafia si escludono: la grafia è l’impronta dell’assenza, la vita una serie causale di sostituzioni illusorie, di ricorrenze misteriose. Si vive per automatismo, si scrive per passione. Esistono biografie. Le orme che qualcuno lascia iscritte nella memoria degli altri, in lettere e azioni registrate, sono come il materiale del testo (20).

Nei folgoranti frammenti che compongono Continuación de la nada leggiamo di una “autobiografia di non si sa chi, di M.F.”: l’autore accenna a voler scrivere di un se stesso che non sa chi sia, oppure alla possibilità di un’“autobiografia di uno sconosciuto fino al punto di non sapere se è lui”. Quando si cerca di osservare l’oggetto della ricerca si scopre che non basta, semplicemente, andare a rebours utilizzando l’archivio, la memoria e la sua scrittura: Macedonio ci parla di un continuo mal di archivio, di una impossibilità di ritenere la vita dell’altro (o quell’altro che siamo noi stessi) perché questi si sottrae, scivola via come sabbia tra le dita (chissà perché mi viene in mente il gesto di Borges nel Sahara: prende un po’ di sabbia, la fa scorrere fra le dite e dice che ha modificato il deserto. Però, mentre lo modificava, già gli è sfuggito).

È questa l’idea di autobiografia che vuole suggerire Macedonio? La biografia di un’alterità divenuta deserto? Il deserto è il luogo dei miraggi: l’autobiografia e la biografia sono i migliori luoghi per occultarsi, come una “fedele fotografia”, (aggiunge). Ma una fotografia di chi, o di che cosa? Non si danno, allora, che biografie di un Desconocido, di uno Sconosciuto sul quale si accumulano notizie e indizi solo per mettere a nudo la sua inconoscibilità, contro ogni ostentazione di completezza (che dovrebbe essere alla base dell’operazione biografica): «ne approfittò per occultarsi, come farò io adesso in questa autobiografia dove mi sono rifugiato per rimanere incognito». Alla fine il biografo ci indica lo schema di una biografia ridotta all’osso: «si stancò di stare in piedi; si stancò di rimanere seduto; si stancò di rimanere sdraiato. E decretò finito il vivere». L’ autobiografia, infine, diventa una macchina produttrice di vite parallele: «tutto quello che afferma di sé l’autobiografato è quello che non è e che avrebbe voluto essere» (21).

Macedonio aveva pensato ad un romanzo dove si racconta di alcune persone che si riuniscono ogni giorno per leggere insieme un romanzo (Henry James avrebbe detto: per ascoltare una storia). Si sarebbero create così due peripezie: quelle del romanzo letto e quella della vita del gruppo che si riunisce per leggerlo insieme. Poi (è inevitabile) ognuno di loro comincia a scrivere il proprio romanzo: alla fine è del tutto ipotizzabile che uno di questi testi abbia per argomento la storia di un gruppo di lettori che si riunisce a leggere un romanzo identico a quello che si sta scrivendo, all’infinito. La letteratura e vita si confondono riflettendosi mutuamente in un gioco di specchi infiniti: siamo davvero vicini a Continuidad de los Parques di Cortázar, il racconto di un uomo che, seduto a leggere un libro, si rende conto di star leggendo la cronaca della sua stessa morte.

Macedonio gioca sempre con la possibilità di venire scambiato per qualcun altro e, quindi, di scomparire come “io”. Sognava di scrivere un libro per pubblicarlo sotto pseudonimo trenta anni dopo, convertendosi in inedito; poi gli viene in mente che sarebbe stato meglio firmarlo con il nome di un collega famoso, il che avrebbe reso il romanzo scritto da lui sotto falso nome l’inedito di un altro.

Nel suo libro Papeles de un recienvenido dedica una dei suoi Brindisi (gustosi esercizi dove, dietro l’improvvisazione forbita si nasconde – come nelle pitture d’illusione barocche – la nada) a Norah Lange, che sarà la Beatriz Viterbo di Borges e la Solveig Amudsen di Marechal (a proposito di Bellasmuertas). Fedele al topos del brindisi Macedonio rievoca la prima volta che vide la ragazza, evento che si affermò a posteriori come continuazione della nada di un incontro mai consumato: Norah infatti gli dice di «ritornare quando avrà vent’anni di meno». È il 1929. Norah Lange ha 24 anni (il padre è agrimensore, come il protagonista del Castello di Kafka) e ha già collaborato con le più importanti riviste argentine, Martin Fierro, Proa e Revista Oral.

Quando incontra Macedonio aveva finito di scrivere il suo terzo libro di poesie, El rumbo de la rosa, ed era appena tornata da un periodo in Norvegia e Inghilterra (aveva affrontato il viaggio di andata – unica donna – su una nave mercantile). Macedonio nel libro successivo uscito quindici anni dopo, Continuación de la nada, suggerisce una continuazione apocrifa e mascherata all’invito di Norah. All’inizio del libro lo scrittore parla di una foto che ha originato una somiglianza errata. L’autore pensa infatti che quella apparsa sulla quarta di copertina del suo libro precedente (e che descrive come «decisa»; «in rilievo»; «assai allegra») possa venire confusa con quella del vincitore della lotteria e quindi scrive una lettera ad un giornale per chiarire la cosa.

Poi aggiunge (non semplicemente, per negare quanto appena detto, ma per contraddirlo, inserendo l’accaduto in una zona di indefinibilità: sono due gli scrittori che mi vengono in mente capaci di maneggiare questa “favola della contraddizione”: Beckett, con cui Macedonio possiede diversi punti di contatto e, in maniera sublime, Franz Kafka): «dopo di questo ritratto vincente ho lavorato quindici anni per assomigliargli». È, quello sulla quarta di copertina del libro, il volto di Macedonio visto da Norah quindici anni prima. I tentativi con il fotografo diventavano un anno dopo l’altro più difficili quando l’effigiato, che cercava nella foto la riprova della sua impossibile permanenza, si ostinava a chiedergli ogni volta una foto identica a quella passata: «invece di servirmi a qualcosa l’esperienza, risulta che ogni anno mi sorprende più maldestra la somiglianza» (22).

Mancano cinque anni al compimento della promessa fatta a Nora: riuscirà Macedonio, l’eterno recienvenido, a rispondere a quel cortese invito presentandosi identico a venti anni prima e, quindi, di venti anni più giovane? Intanto la poetessa scrive discorsi contro la guerra, sposa il poeta Oliviero Girondo e scrive Antes que mueran, un’autobiografia. Come farà Macedonio a mantenere la promessa? Immaginando un piano definitivo: rinchiudersi affinché l’immagine passata rimanga vigente. Più avanti si riferisce di nuovo a questo tipo di autoritratto quando scrive «alla fine, molti libri appaiono con il ritratto sulla copertina. Questo significa che sono i libri che hanno un autore?», per poi concludere con una delle frasi più felici sullo scrivere «dalla parte dell’altro»: «A quella fotografia e questa biografia si deve il mio costante essere a domicilio (...) E le fotografie fedeli al volto dell’altro non rendono infedeli a se stesse il nostro». La biografia sempre ne genera un’altra. Ogni biografia è un magnete.

La tecnica narrativa di Macedonio è implacabile. Un esempio, preso da Una novela que comienza mostra il narratore che, al principio, osserva da lontano una coppia, con sguardo, nello stesso tempo, «invidioso e addolorato», per quello “spettacolo” di affetto «che a me mancava da tanto tempo». È lo sguardo del vedovo, lo sguardo di Lugosi che annusa la rosa. Macedonio però non sceglie di buttarsi nel fuori campo orfico e assoluto, ma si lancia in quello, relativo, della ricerca: è il gioco della congettura che è tipica dell’investigatore (o dell’etnologo della città urbana): «potrebbero essere fratelli. Credo non siano vicini di Buenos Aires» e dopo aggiunge frettoloso, con un taglio metanarrativo alla Sterne «non vale la pena dettagliare i motivi di quest’ipotesi».

Poi lo sguardo, durante una riflessione che è anche tallonamento, si avvicina e si imbatte finalmente nell’immagine frontale, che può assimilare nel dettaglio: «attraversai la strada di fronte alla loro all’angolo di Corrientes e guardai più da vicino, in dettaglio, i tratti della ragazza». Macedonio è il vampiro dello sguardo e l’uomo camera. Si nutre non del sangue, ma dello sguardo delle sue vittime. E, come una macchina da presa, passa dal totale al dettaglio, senza smettere di muoversi. La bella sconosciuta ha «occhi chiari, con quello sguardo che sembra sbattere fra entrambe le palpebre e essere lanciato in scintille polverizzate, assai bianca, arrossata». A partire dai tratti del volto, dove lo stereotipo si apre all’improvviso a qualcosa come una presenza aliena, eccedente, ricomincia con le speculazioni, stavolta approfittando della posizione ravvicinata e del fatto di aver fatto presa sull’oggetto: «sembrava esposta a una complessione che tendeva a ingrassare. La preoccupava anche la sua piccola taglia» (23). Macedonio non sta semplicemente osservando. Sta creando un personaggio. Dietro ogni osservatore si nasconde un creatore.

Propizia alla creazione non è il movimento, ma la siesta, il movimento senza movimento, attività trasformatrice che trasforma gli oggetti che ci circondano in fantasmi, ossia esseri «senza figura e trasparenti, dove solo è forte nella sua debolezza l’ombra» (24): siamo vicini ad un altro grande evocatore di fantasmi, Raúl Ruiz che ne El espiritu de la escalera scrive la sua autobiografia fittizia: «All’inizio sembrava facile. “Ci inventerai una vita”, tutta una vita. Nel fondo, mi chiedevano che mi inventassi. Una nuova vita. Avevo di che scegliere. Potevo raccontare la vita di un imperatore cinese, di un legionario romano, che ne so! Alla fine, ebbi fortuna: reinventai la mia propria vita con un leggero sfasamento. Non potevo sapere che questa vita avrei dovuto viverla» (25).

Viverla sotto la forma di uno spirito, di una “apparizione”. Di un essere a un passo dalla nada e, nello stesso tempo vivissimo. L’autobiografia di Ruiz diventa l’autobiografia di un aparecido, di un essere che sta venendo di continuo. Un essere “vivo”, diciamo, che non smette di apparire. Apparire: ruizianamente, rivivere in forma diversa quello che si è già vissuto (ritorna l’idea della «doble novela» rizomatica e infinita di M.F). Macedonio si credeva vivo nella morte in un’assenza di tempo che dura, proprio dell’Eternità. Volevo terminare lo scritto con una foto di Macedonio (dopo quella “tagliata” prelevata dal film di Di Tella). Poi avevo pensato di sostituirla con quella di un personaggio cinematografico a lui ispirato, il Don Porfirio de La Invasión, il film scritto da Borges e Bioy Cesares; alla fine, ho pensato che l’unica foto possibile di M.F. fosse questa.

È la foto di una porzione delle Salinas grandes, un deserto bianco di 320 km che si trova nelle province di Jujuy e Salta, nel nord dell’Argentina. Le montagne all’orizzonte, una striscia di colore più scuro, una sagoma troppo lontana per distinguersi, quindi il mare di sale e un piccolo buco sono, insieme, un ritratto e un esergo davanti a qualsiasi tentativo di operazione (auto)biografica. Questo pezzo di terra desolata, purgatorio dove non si trova la vita, ma la sua rappresentazione spettrale, «detenzione del tempo o meglio del non-tempo in un caso individuale» (26) potrebbe essere la novela que comienza o l’inizio di qualsiasi (auto)biografia (o di una biografia qualsiasi).

L’autobiografia come continuazione della nada che questa immagine registra e mette a nudo, la nada, il nulla, che è l’oggetto principale delle riflessioni di Macedonio Fernández, la nada che scappa da tutte le parti ed è il territorio che fuoriesce dal buco del reale (quel piccolo foro che si trova sul margine in basso della foto, proprio vicino alla frontiera estetica, e che sembra fatto dal bastone appuntito di un ombrellone piantato da bagnanti annoiate su qualche spiaggia terminale del futuro/passato): da lì, pare, il deserto ha avuto inizio (ma è, naturalmente, tutta una finzione). «Tutto su e inclusa la nada. Solo la nada, però non tutta. Della nada ce n’è ancora.

Alcuni dei suoi dintorni, che sono tanti»; «La nada è continuabile. La nada come imperativo»; «Chi ci lavora si imbatte in numerosi momenti durante i quali non solo non sa se sta scrivendo la seconda o la prima parte, ma anche se ha raggiunto la nada e se è certo che è di lei che sta discutendo»; «Un presentimento di questa nobile arte della nada per la parola esiste in tutte le opere inconcluse. Lettere senza risposta, discorsi, sinfonie, statue tronche»; «La nada, voluminosa nelle pagine dei discorsi o dei diari»; «Devo chiarire, autobiograficamente, in queste note perseguitando la nada, che la mia fissazione al pieno dei vuoti mi si manifestò per intero fin da giovane» (27).

La Salina potrebbe anche essere la foto, in quarta di copertina, dell’autore dell’autobiografia che non appartiene a colui che la scrive: l’autobiografia come vita, scritta di nuovo, di nessuno. Però, chi è questo Nessuno? Raúl Ruiz, ricordandosi di Borges, scrisse che esistono comete erranti che sono questi nessuno o Ulisse. Ma la Salina è anche un territorio dell’assenza che lotta per definirsi e si sovrappone così, a Buenos Aires (la città dove Macedonio aveva ambientato la sua Novela de la Eterna) e, nello stesso tempo, agli effetti della Novela sulla Città. La prima svuota di eventi la seconda perché assimila in scrittura tutto il possibile (la “colpa” è di un uomo chiuso in una stanzetta di hotel che non smette di scrivere, o della sua Macchina che, in un laboratorio di Tigres, non smette di produrre storie).

Il deserto bianco è quindi la figurativizzazione dell’assenza che svuota il mondo ma è anche l’immagine del romanzo, a sua volta convertito nella città della non-esistenza, che si affanna a diventare reale, non ci riesce del tutto e finisce per diventare non la città ma il suo contrario: pampa salina e margine di terra svuotata spopolata da tutte le storie che, nello stesso tempo, in potenza, le contiene tutte.

Ma questo non la rende, forse, una pagina bianca e dispersa, e una regione centrale che nasconde una promessa postuma di felicità? La pagina bianca, che introduce, prima che venga immaginata, la possibilità della città, dell’opera, e quindi, dell’esistenza, perché, come scrive Macedonio, il non-essere definisce l’universo allo stesso modo dell’essere. La regione centrale e luminosa, grande immagine dell’Eternità, è invece quel luogo dove le ombre degli amanti perduti, dannate alla peregrinazione, possono finalmente ricongiungersi. Era alla sposa defunta, Elena, la bellamuerta, che Macedonio pensava quando scrisse:

Non sarò mai un’immagine nella tua retina né un pensiero nella tua anima. Ti ho conosciuto in un istante di una forma così piena come se fossi un’opera del mio desiderio; io che non credo nella morte di quelli che amano, né nella vita di quelli che non amano […] Senza dubbio ci incontreremo non qui, nella fantasmagoria terrena, ma invece nell’eternità dell’io indistruttibile, continuo e cosciente della sua eterna continuità passata e già trascorsa, dove ci siamo conosciuti e amati, quante volte! (28)

 

NOTE


(1) La voce over recita: «il dolore per la morte della sposa era un’agonia sempre maggiore; la casa dove avevano vissuto insieme si era convertita nella tomba dei dolci ricordi di una vita felice. Il cielo che prima ammirava era diventato una lapide per il suo cadavere. I fiori preziosi che lei aveva piantato si convertirono nelle rose perdute delle sue guance. Scosso dalla perdita, l’anziano abbandonò casa sua, per non tornare più». La sequenza di un b-movie e il suo testo, banale, colmo di figure retoriche riutilizzate in senso ironico, deve la sua forza alle immagini. La sequenza, un found-footage completamente avulso dal film e riutilizzato dal regista per avere Lugosi nei credits, pur nella finzione esibita, mostra qualcosa di inedito, di grande forza espressiva e mi fa pensare a quelle foto di lamentatrici a cui De Martino chiedeva, nelle sue spedizioni nel Mezzogiorno, di ripetere il cerimoniale funebre, in assenza del morto (e che sono state filmate da Mingozzi e fotografate da Pinna). Quello che si riproduceva era, quindi, una ripetizione stereotipa, una finzione ad uso dell’operatore. Con il film accade qualcosa di simile e di completamente diverso. Vediamo da un lato come tutto, nelle due scene di lutto, quella “meridionale” e quella “hollywoodiana”, suggerisca, imponga, un universo “altro”, che è della rappresentazione: i gesti di Lugosi sono stereotipe notazioni di dolore, almeno quanto quelle delle lamentatrici; entrambi si rifanno a dei codici: le lamentatrici a quelle del pianto rituale, l’attore a quello della recitazione caricata del teatro e dei vecchi film della Universal. Le differenze sono però assai più sostanziali delle affinità. Da un lato abbiamo una lamentatrice che simula un atto parossistico, dall’altro un borghese che si sforza di trattenere il pianto (l’idea del pianto silenzioso, introiettato, tipico della modernità); alla fine però le lamentatrici, attraverso il gesto codificato e rituale, riescono (in uno spazio ristretto, ridotto alla microcomunità della famiglia e del villaggio) ad attraversare il momento irrelato della crisi, superare l’orizzonte della perdita e guadagnare un’esistenza rinnovata. L’uomo anziano, invece, non è riuscito, solo, nel deserto del reale di una grande metropoli, a scongiurare il ritorno irrelato del morto: la presenza contagiosa del cadavere e l’assenza di un sistema di valori che gli permetta di trascendere la nullificazione del lutto, lo porterà al suicidio. E Macedonio? Macedonio supererà la crisi con l’unica arma che conosce: la creazione letteraria. Un’altro appunto meriterebbe il secondo d’indugio della macchina da presa quando mostra il profilo di Lugosi che si arresta senza motivo apparente. Con quanto amore deve aver girato la scena Ed Wood? L’amore, che trasforma la trasandatezza, le prove evidenti della presenza di qualcuno che sta dicendo all’attore, dietro alla macchina, cosa fare (sembra uno di quei video - nient’altro che prove d’abito o di obbiettivo - di Marlene davanti a Von Sternberg e che in realtà mettono a nudo quello che c’è dietro la mascherata, ossia il nulla), in una delicata epifania dove il mondo si ferma. I multipli “inizi” di Macedonio non servivano anche a creare queste sospensioni continue?

(2) R. Piglia, La ciudad Ausente, Anagrama, Barcelona 2003. [Tutti i testi in spagnolo sono tradotti da chi scrive].

(3) Ibid.

(4) Ibid.

(5) La frase è di Emilio Renzi-Piglia che scrive, dopo aver paragonato Macedonio a Gadda, «la oratoria criolla come pastiche. La payada filosofica. Un guitarrero. Era un guitarrero. Per questo si faceva fotografare tutto il tempo con la chitarra, non perché la sapesse suonare, ma per affermare, in modo discreto, che solo gli interessava essere un chitarrista argentino». R. Piglia, Notas sobre Macedonio en un Diario, in “Formas Breves”, Anagrama, Barcelona 2000.

(6) M. Fernández, Papeles de recienvenido y Continuación de la nada, Corregidor ed., Buenos Aires 2014.

(7) R. Piglia, La Ciudad Ausente, op. cit.

(8) M. Fernández, Papeles del recienvenido, op. cit.

(9) La vicenda della corrispondenza degli amanti e quella della donna con il registratore si chiamano Hotel Almagro e la Mujer grabada (in Formas breves, op. cit.) Il libro di Piglia è a sua volta una specie di diario o autobiografia mascherata: come spiega lo stesso autore nell’introduzione, i testi «possono venire letti come pagine perdute nel diario di uno scrittore e anche come i primi abbozzi e tentativi di una una autobiografia futura».

(10) Piglia corregge il tiro quando scrive: «In Macedonio la oralità non è mai lessicale, gioca con la sintassi e il ritmo della frase. Macedonio è lo scrittore che meglio scrive la parlata, dai tempi di José Hernandez». In Formas breves, op. cit.

(11) Macedonio scrive in El capitulo siguiente «Al señor director de Proa. ¿Ha acertado con el señor Borges?» Il nome del protagonista de L’Aleph appare per la prima volta in un romanzo (?) o meglio, nelle pagine di un libro. Nel 1929 Borges ha scritto tre raccolte di poesia e cinque libri di saggi (fra cui El idioma de los argentinos). La sua prima opera narrativa, Historia natural de la infamia è del 1935. La citazione si trova in Papeles del recienvenido, op. cit.

(12) M. Fernandez, Diario de la estancia, in Piglia, Formas breves, cit.

(13) G. Garcia, Macedonio Fernández. La escritura en objeto, Adriana Hidalgo ed., Buenos Aires 2000.

(14) M. Fernández, Una novela que comienza, Dracena ed., Madrid 2021.

(15) Questo fa venire in mente Mario Levrero, la cui Novela Luminosa, preceduta dal Diario de la beca sarebbe interessante accostare ad alcune cose di Macedonio. Lo scrittore spende il tempo che gli è stato “elargito” da una borsa di studio americana per terminare un romanzo, in una serie di occupazioni anodine e triviali, che racconta dettagliatamente nel diario. Quando riesce a comprare la statua di un’amica scultrice che raffigura un libro (in realtà è un’opera astratta), dice che si tratta del romanzo luminoso che non comporrà mai. Per Levrero, bloccato nella stesura di un romanzo che lascerà inconcluso (chiarissimo segno, per Macedonio, della nada; nel diario, invece, avrebbe visto all’opera l’otium “cattivo”), scambia l’opera con una statua che è la concrezione e la tomba del romanzo assente. Anche Macedonio fece precedere il Museo de la Novela de la Eterna (Eterna. Un altro modo di dire Luminosa?) non esattamente da un diario, ma da una serie di prefazioni, e anche Macedonio, alla fine, non termina il suo romanzo. In effetti questo lungo diario del tentativo frustrato di continuare a scrivere un romanzo abbandonato non è anch’esso, se non la continuación de la nada, la sua “introduzione”? Ma a differenza di Levrero, che richiude il romanzo su se stesso abbandonandolo, Macedonio apre l’opera al gioco dei tempi molteplici e simultanei. Levrero si blocca nel passato, Macedonio lancia un colpo di dadi verso l’avvenire. In un altro diario, Macedonio scrive a proposito di «un libro che avrebbe la peculiarità di essere interminabile» Si veda: M. Levrero, La novela luminosa, Literatura Random House, Buenos Aires 2016 e M. Fernández, Diario de vida e ideas, in “Teorias”, Corregidor ed. Buenos Aires 1974.

(16) R. Piglia, La ciudad ausente,op. cit.

(17) G. Garcia, Macedonio Fernández, op. cit.

(18) M. Fernández, El museo de la novela de la Eterna, Centro ed. de América Latina, Buenos Aires, 1967.

(19) Citazione di Macedonio Fernández da R. Piglia, La ciudad ausente, op. cit.

(20) G. Garcia, Macedonio Fernández, op. cit.

(21) M. Fernández, Continuación de la nada, op. cit.

(22) M. Fernández, Papeles de recienvenido, op. cit.

(23) M. Fernández, Una novela que comienza, op. cit.

(24) Ibid.

(25) R Ruiz, El espiritu de la escalera, Diego Portales ed., Santiago 2016.

(26) M. Fernandez, Teorias, op. cit.

(27) M. Fernández, Continuación de la nada, op. cit.

(28) M. Fernández, Papeles de recienvenido, op. cit

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