Luigi Abiusi

altNel crocevia, grumo di contraddizioni, tra civismo e recrudescenza dei nazismi, che è l’Europa oggi, fanno la loro comparsa opere documentarie che spesso trascendono il documentario, aumentando proprio in virtù di questo falso scavalcamento, il portato di “verità” del filmato. È inutile richiamare ancora Rosi o Minervini, per restare all’Italia. Ora, uno dei documentaristi più rigorosi che si esprimono in questo ambito è sicuramente Marco Santarelli, che in Dustur affronta la questione dei diritti umani, tra identità religiosa e giurismo, discussa proprio da chi lo ha violato “il diritto”, e di chi lo fa (o lo farebbe) in nome di dettami religiosi (spesso fraintesi). La voce è quella di musulmani in carcere, in quello Dozza di Bologna, in contrappunto al ragionamento dossettiano, cristiano di Ignazio, fino a che non vi converge anche il sofferto dettato di Samad, rientrato alla Dozza da uomo libero.
Qui una conversazione con Marco Santarelli e, in epilogo, Roberto Silvestri, in occasione della proiezione barese di Dustur per “Registi fuori degli sche(r)mi”.


Allora, un po’ di retorica: come sei arrivato a questo soggetto?

Dustur
, che in arabo significa “costituzione”, arriva da lontano, perché in realtà io avevo già girato nel carcere bolognese della Dozza, nel 2011, un altro documentario e in quella occasione, durante le riprese di Milleunanotte, ho conosciuto i protagonisti di Dustur, queste due anime del film che sono da una parte il volontario religioso, il monaco, e dall’altra il ragazzo musulmano che all’epoca era dentro per scontare una pena di 5 anni per traffico internazionale di stupefacenti. Io li ho conosciuti in quell’occasione e con loro sono rimasto in contatto. Con loro in questi anni si è creato un rapporto di amicizia e io ero alla ricerca di un’idea forte per coinvolgerli e poi è arrivata l’idea di Dustur, del corso sulla Costituzione in carcere.

Chi te l’ha proposta?

È venuta da me. In realtà il monaco l’aveva già messa in programma, perché lui da anni collabora con il carcere e lavora con dei detenuti musulmani, parla arabo e ha una storia bellissima e complessa. Lui due anni fa mi parlò di questo corso e io trovai l’idea molto bella. Quindi iniziai a ragionare su come costruire un film su questo corso. A quel punto ho pensato di coinvolgere Samad con cui da tempo volevo fare qualcosa e l’ho coinvolto facendolo rientrare in carcere alla fine del corso per partecipare alla scrittura di una carta dei diritti e doveri, una carta dei sogni che era la mission del corso. Non mi interessava fare un altro documentario sul carcere perché l’avevo già fatto. Volevo osare qualcosa di più e spingermi un po’ oltre la biblioteca.

C’era un’idea più politica al fondo di questo documentario rispetto a quello che avevi fatto prima? Avevi delle esigenze più politiche nel senso a tutto tondo del termine? La Costituzione è garanzia politica? Avevi quest’idea che poi è di sinistra (perché questo traspare dal film) o è un epifenomeno?

Io in realtà avevo un’urgenza forte che era quella di raccontare le storie di Samad e Ignazio. Sono partito di lì. Poi tutto il resto è venuto in corso d’opera. Trovavo forte l’idea di avere dei ragazzi musulmani a confronto con quelle che sono le nostre regole. Io mi muovo sempre in questo modo: creo un contenitore, metto dentro questo contenitore dei personaggi, dei pesciolini, e poi vedo cosa accade. Individuo i personaggi, individuo lo spazio e poi li faccio interagire.

Quindi per induzione...

Sì.

Cosa pensi, invece, di gran parte dei documentaristi contemporanei che invece partono da un’idea formale soprattutto, cioè mettere in immagini la propria poetica e poi il soggetto è relativo? Che idea ti sei fatto tu e del panorama italiano del documentario e di quello anche straniero, penso per esempio ad Oppenheimer che ha un approccio molto politico, Rosi ecc.?

Io penso che siano tutte strade che poi portano al cinema, quindi mi risulta molto difficile prendere una posizione a riguardo. Sono tutte vie legittime e vere. Non è una cosa su cui ho mai riflettuto né tanto meno mi ha mai appassionato riflettere.

A proposito di Rosi, tu che sei uno che fa documentari in una maniera un po’ diversa rispetto a lui, come ti sei posto rispetto al suo ultimo film, e anche, magari alle polemiche che ha suscitato?

Non mi ha appassionato come polemica. Adesso c’è questa ossessione per il “cinema del reale”. Però se tu vai ad asciugare la definizione, semanticamente non significa nulla. Sono cose che interessano fino ad un certo punto. Poi entrare nel film di Rosi, Fuocoammare… posso dirti che ci sono state cose che mi sono piaciute tantissimo, altre che mi sono piaciute di meno, che ho amato di più Sacro GRA, però poi alla fine sono andato a vederlo quattro volte Fuocoammare. I film c’è chi li vede con i titoli di testa e coda e chi li vede anche a pezzi: ci sono delle scene del film che sarei disposto a rivedere anche altre 10, 15, 20 volte a prescindere se il film è bello o brutto, insomma senza dare un giudizio al film.

altA questo punto mi chiedo perché il documentario; perché hai iniziato con il documentario, perché dopo qualche anno che tu fai cinema non hai mai pensato alla finzione. O ci hai pensato?

Non ho mai trovato un buon motivo per pensare al concetto di finzione, mai un motivo per costruire in maniera diversa una storia. Però non lo vedo come il Male.

Ci sono delle scene del tuo film che mi sembrano particolarmente pregnanti, proprio topiche. Insisti (insisti tu o insiste il film per sé?) sulla questione della scrittura. Ad un certo punto il protagonista del film, quando arriva nella biblioteca insieme agli altri finalmente, dice che il Corano inizia con: “Leggi”. Volevo sapere il rapporto che tu hai con il leggere, l’intelligere, con i segni, con la scrittura. Quanto conta nel tuo cinema la scrittura?

Beh, mi viene da dire: poco. Conta molto di più la parola. L’altro giorno riflettevo sul fatto che è il secondo documentario che tratta di parole – e se vuoi anche di scrittura. Io sento molto legato Dustur al mio precedente lavoro che è Lettera al presidente, in cui ho lavorato tantissimo su un archivio alla Presidenza della Repubblica, sulle lettere che gli italiani hanno scritto ai presidenti dal dopoguerra fino al 1969. È stato un lavoro pazzesco. Quindi tantissime parole, tantissima scrittura. E poi ritrovarmi a fare Dustur e quindi a filmare dei detenuti che tentano di scrivere o che affidano alla parola il loro pensiero, il loro credo, l’ho trovata una cosa forte. È una cosa che mi piace: un bel cortocircuito, no? Raccontare l’Italia del dopoguerra attraverso le lettere che gli italiani hanno scritto al presidente della Repubblica e poi ritrovarmi in una biblioteca con dei detenuti musulmani che raccontano, sognano, immaginano qualcosa di diverso, una storia diversa.

Come hai gestito i sottotesti presenti nel film? C’è questo confronto tra il cattolicesimo e la religione musulmana. Secondo me, c’è anche la questione (anche se sottesa, in filigrana) della ridistribuzione delle ricchezze. È stato tutto voluto? Come hai gestito questi temi, questi sottotesti, rispetto ad un film che si faceva lì, in quel momento?

Al montaggio, che per me è il momento chiave di scrittura. Come dicevo a me piace costruire, delimitare dei confini dentro cui far muovere gli attori, i personaggi, le storie che scelgo. Questo significa dare libertà dentro questo spazio ai personaggi e alle storie. Tutto poi si risolve al montaggio: il mio è un atto di credo nei confronti dello spazio, delle storie, dei personaggi e poi al montaggio verifico questo credo.

Quindi sei un godardiano?

Godardiano mi mancava. (ride)

Beh, sai che per lui il montaggio è sovrano e l’ha dimostrato anche nelle Histoire(s) du cinéma, in cui riesce a creare cortocircuiti straordinari. Io credo che tu lavori con l’immanenza, ma riesci a creare anche tu delle divagazioni semiotiche.

Quello è il mio divertimento, il mio spazio di libertà, il motore che mi porta a prendere una camera e raccontare le storie, a girare per ore. C’è anche del masochismo in questo, ma è proprio da lì che nasce il piacere della visione. Erano 3-4 anni che non filmavo, quindi è stata anche una prova importante, fisica e anche mentale.

C’è una scena nel film che fa molto riflettere sulla questione del prendere la camera in mano e seguire i protagonisti, che è quando tu vai a casa di Samad, entra Ignazio e poi lui sta per chiudere la porta e si rende conto che devi entrare anche tu e in qualche modo ti aspetta. Come ti poni rispetto alla diegesi del film? Tu sei in qualche modo estraneo, ma interno allo stesso tempo?

Mi pongo liberamente. La mia presenza è sempre funzionale alla visione, al risultato. Non c’è mai un atto ideologico. Quell’azione a me piace tantissimo, è molto divertente. E poi soprattutto scopre una presenza, è un punto di ricchezza del film.

Quindi tu non vuoi dissimulare la tua presenza?

Dove mi pesa o mi dà fastidio la dissimulo, dove invece mi piace la tengo. Lì la tengo.

Come reagivano i soggetti che tu dovevi riprendere? Come si sono rapportati alla macchina da presa?

Si sono rapportati con molta meraviglia, curiosità. Perché poi il mio non è stato un approccio classico: pilotavo le cose che mi interessavano, quelle che volevo in un determinato modo. Questo è un lavoro che ho fatto soprattutto con Samad, non in biblioteca. Loro si ponevano sempre con curiosità perché spiegavo fino ad un certo punto ciò che volevo fare e poi (il resto, ndr) nasce tutto da un loro atto di fiducia nei miei confronti. La libertà che ho con loro è una libertà che mi sono conquistato prima di girare. Per me è un punto chiave, non è una cosa che ho improvvisato. Loro erano in qualche modo in trance. Erano liberi di muoversi in uno spazio che poi alla fine non era il loro, che non conoscevano, ma che in qualche modo sentivano.

Gran parte del film è girato in prigione, il che propone un palinsesto di immagini abbastanza claustrofobico, eppure – vorrei capire se tu sei d’accordo con questo - c’è l’idea di una sortita, di un’uscita dai muri, da questa claustrofobia che spesso è anche soffocante lì nella biblioteca. Credo che l’idea di fondo del film sia appunto quella dell’uscita, dell’apertura al fuori. È così o è un’idea tendenziosa la mia?

Quello l’ho cercato in una scena, quella finale del cimitero. Dall’inizio volevo aprire lì, cioè volevo chiudere al cimitero e però allo stesso tempo aprirmi, fare il punto sulla nostra Storia… insomma, è un punto contraddittorio quello, perché si apre però allo stesso tempo chiudo. Però sì, il campo largo l’ho cercato lì, l’ho voluto lì dall’inizio.

Quindi Marzabotto come celebrazione del passato?

Come una liberazione dell’occhio: lì vai oltre la parola, oltre i soggetti, oltre tutte quelle facce, tutti quei dettagli che hai visto e ti confronti con altro.

Lì hai rischiato molto, secondo me. Nel senso che a livello oggettivo anche etico si poteva cadere nel retorico. La mia idea, invece, è che riesci a mantenere l’equilibrio che hai mantenuto per tutto il film, non cadi nello stucchevole.

Quella è l’ultima scena che ho girato: è un punto d’arrivo anche a livello produttivo. L’ultima settimana ho girato quella cosa.

Come hai concepito quella sequenza straordinaria? Io credo che il film senza l’epilogo a Marzabotto avrebbe perso gran parte della sua poesia, perché poi lì riesci a ricondurre tutto alla Storia. Come sei arrivato a quella scena?

La comunità della Piccola Famiglia dell’Annunziata ha il suo monastero a 500 metri dal cimitero di Marzabotto e mi sembrava una cosa forte e interessante quella di iniziare con il carcere e chiudere con il cimitero.

altMi parli un po’ del monaco, del suo ordine, di quello che lui fa?

A fondare l’ordine è stato Dossetti, uno dei padri della Costituzione italiana. Ignazio nasce come giornalista, è nato a Torino, poi negli anni Novanta entra nella Piccola Famiglia dell’Annunziata e inizia a studiare l’arabo. Vive tantissimi anni in Medioriente, dove loro hanno altri monasteri, in Giordania, Egitto, Al Cairo e poi torna e inizia quest’avventura in carcere alla fine degli anni Novanta. (chiede aiuto a Silvestri) Come possiamo classificare i dossettiani?

Ti ricordi La Pira? L'esponente della Democrazia Cristiana che, per un certo periodo, è stato un punto di riferimento di una sinistra molto intransigente, più a sinistra del Partito stesso (il PCI, ndr) rispetto, per esempio, alla guerra del Vietnam. Rappresentava una parte della Democrazia Cristiana dal forte impatto etico. Dossetti è stato un padre della Costituzione, però la forza politica di questa fazione è stata negli anni Sessanta, durante la guerra in Vietnam quando La Pira, sindaco di Firenze, democristiano di sinistra, è stato uno dei grandi combattenti per la fine dell’aggressione americana in Vietnam. Dossetti è stato un’anomalia della storia della Democrazia Cristiana; poi ad un certo punto si è ritirato dalla politica e ha fondato quest’ordine monastico. È ritornato alla politica nel momento in cui Berlusconi stava toccando la Costituzione. È ritornato, poco prima di morire, in scena e ha avvertito tutti di stare attenti al presidenzialismo e a tutta una serie di altre questioni. Questo monaco (Ignazio, ndr) è un seguace di Dossetti e dell’ala migliore del cristianesimo italiano.

Con Ignazio che tipo di rapporto si è instaurato?

Un rapporto innanzitutto di amicizia. È dal lontano 2011 che sognavo di filmarlo!

Ha un’attrattiva iconografica straordinaria, secondo me.

È un po’ un John Wayne monastico, con questa camminata… un cowboy vestito da monaco. Abbiamo negoziato molto per trovare questo accordo. Io sono arrivato a filmarlo quando lui ha scelto di farsi filmare. È una cosa molto bella questa: abbiamo raggiunto un accordo e poi da lì è nato tutto. Poi io lo conosco da 4 anni, mi capita di prendere le mie cose e andarlo a trovare ogni tanto.

Per chiudere: come è nato il tuo amore per l’immagine, per il riprendere? Come sei arrivato all’immagine? Se c’è questa attrazione bambinesca che tutti abbiamo per l’immagine, noi ne fruiamo in quanto critici, tu invece hai deciso di metterti dietro la macchina da presa. Quando e perché è successo questo? C’è stato qualcosa che ha scatenato questa tua esigenza?

Beh, sicuramente gli home movies e i Super8 son stati una causa. Io vengo dal montaggio, nasco come montatore, ma anche come collezionista di filmini amatoriali. Soprattutto per un periodo ho giocato molto con questi materiali, con dei lavori. Quindi sostanzialmente questa cosa viene da lì, da una memoria privata, da una memoria familiare. Sicuramente un punto di partenza sono i filmini che mio nonno (perché mio padre non l’ha mai avuta una Super8) girava con il Super8, con l’8 mm. È da quel patrimonio di immagini familiari che nasce la passione per il cinema, per l’immagine.

Sei un nostalgico della pellicola?

No, affatto. Ho girato anche in Super8 ed è una cosa che mi piace tantissimo. Ad un certo punto è accaduto che vedendo tantissimi filmini ho sentito anch’io l’urgenza di girare in pellicola e per un po’ è stata un’ossessione quella della pellicola. Ossessione che mantengo in un cassettino che decido io quando tirare fuori e quando richiudere.

Riprendi in Super8 e lo tieni per te il materiale?

Sì, ma l’ho usato per un sacco di cose. All’inizio era proprio la soddisfazione del fruire delle immagini Super8 in pellicola che mi dava piacere, quella tipologia di materiale, di grana, di pasta. Poi c’era anche il fatto che ho sempre amato molto i movimenti delle macchinine dei Super8, questi movimenti così incerti, così indecisi, sfocati.

(Interviene Silvestri) Infatti la tua società si chiama Ottofilmaker

Ah, è vero: l’otto. Eh, ma l’otto è un numero magico...

Felliniana questa cosa.

Mi piace perché mi ricorda le piste delle automobiline…

A proposito di velocità massima, tu hai visto quel film magnifico di Jack Hill? Si intitola Pit Stop. Era un film di automobilismo che si basava sul fatto che i piloti corrono su una pista a 8. Sai che vuol dire? Che si scontrano continuamente…


Filmografia

Dustur (Marco Santarelli 2015)

Fuocoammare (Gianfranco Rosi 2016)

Histoire(s) du cinéma (Jean-Luc Godard 1989-1998)

Lettera al presidente (Marco Santarelli 2013)

Milleunanotte (Marco Santarelli 2012)

Pit Stop (Jack Hill 1969)

Sacro GRA (Gianfranco Rosi 2013)