Alessandro Cappabianca

altC’è una forma di maestà, nel paesaggio, che attiene al sublime e ammutolisce perfino i cinque amici de Il cacciatore, che pure non hanno mai sentito parlare di Kant o di Burke e non smettono di fare scherzi perfino davanti a certi fenomeni solari (qualcuno potrebbe chiamarli presagi), perfino lungo la marcia d’avvicinamento, in macchina, alle vette incontaminate dove si caccia il cervo.


Tra tutti, il più intelligente è Mike (De Niro) – non abbastanza, tuttavia, per riconoscere l’ennesima trasformazione del Vecchio Marinaio di Coleridge, nel silenzioso reduce dal Vietnam che, in divisa, interviene inopinatamente al matrimonio del loro amico Steven. Mentre tutti bevono, ballano, s’ingozzano, urlano, litigano, si commuovono, si ubriacano, a una festa di nozze di immigrati ucraini che ricorda quella degli immigrati tedeschi di Stroheim in Greed, tra ragazze scatenate, giovanotti vogliosi, matrone commosse, anziani in vena di nostalgie, il reduce in divisa stranamente tace, e non raccoglie nemmeno le provocazioni degli ubriachi. Se ne sta solo al banco del bar, sorseggia la sua bevanda, tace o risponde a monosillabi – proprio come uno appena tornato da un altro mondo.
Neppure Mike, s’è detto, il più intelligente dei cinque, riconosce in lui quella che potremmo chiamare senza enfasi una figura della Morte (o della Guerra, o degli orrori che incombono). Neppure Mike è capace di guardarsi intorno, di vedere lo squallore che li circonda, tra insegne al neon e fumi di un sobborgo industriale, vecchie cupole a forma di cipolla, ciminiere e alberi rinsecchiti. Lo stesso rito del matrimonio, celebrato secondo le forme tradizionali del passato, ha ormai perduto ogni traccia di sacralità, anche se, anche qui, non mancano segni nefasti.
Dov’è la sacralità, allora, nella vita dei cinque amici? Mike è cacciatore, ma un cacciatore di tipo particolare. Si arrampica silenzioso su per quelle rocce dall’aspetto minaccioso, solo, o accompagnato unicamente da Nick (C. Walken), e va a caccia di cervi – ma nel fucile ha un solo proiettile, in modo che il cervo, se non viene ucciso al primo colpo, abbia la possibilità di salvarsi.
Un cervo viene ucciso, ma sarà l’ultimo. Un solo proiettile nel fucile. Un solo proiettile nella pistola, per la roulette russa, la prova cui sono sadicamente costretti i prigionieri americani dai carcerieri viet-cong. Un proiettile per il cervo, un proiettile per un uomo. Si può morire o essere (almeno temporaneamente) salvi – ma si possono adottare altre soluzioni: sparare verso il soffitto, per paura – oppure tentare la carta della disperazione, giocandosi la vita con tre proiettili al posto di uno.
Allora, tornato a casa, sarà Mike ad assumere il ruolo di Spettro silenzioso, e sarà sempre lui a “sbagliare il colpo”, indirizzando verso il cielo il proiettile destinato al cervo, ma questo non salverà Nick, ormai irretito dal fascino del gioco mortale, non restituirà a Steven l’uso delle gambe, né renderà tutti più intelligenti – solo più tristi, più malinconici.

altDopo l’esordio nella regia, auspice Clint Eastwood, con Thunderbolt and Lifgtfood, dopo il trionfo de Il cacciatore, il fallimento di Heaven’s Gate. Fallimento? Altro trionfo, piuttosto: trionfo definitivo dal quale non esiste ritorno. Fallisce la United Artists, ma l’America si trova di fronte allo specchio di se stessa, e rifiuta di guardarsi: paese in cui è pericoloso essere poveri – anche se, dice James (K. Kristofferson), essere poveri (e migranti) è pericoloso ovunque. Cimino, finché ha potuto, non ha mai voluto saperne del levare, del taglio, del risparmio. Ha sempre cercato di complicarsi la vita, ballando sui pattini e suonando contemporaneamente il violino.
Il mondo, per lui, porta i segni dello sfruttamento effettuato dall’uomo sulla Natura. L’umanità lo ha reso inabitabile e squallido, distruggendone l’antica sacralità, della cui eventuale sopravvivenza, però, alcuni non vogliono smettere di cercare ancora le tracce (il navajo di Sunchaser, per esempio).
Si tratta di andare verso il sole, di non lasciare che i cancelli del cielo racchiudano solo una pista di pattinaggio: tentativi di ripristinare le coordinate d’un Cimino quale sarebbe potuto essere, già stroncati al tempo di Stroheim o di Orson Welles. È possibile, anche se molto arduo, fare cinema con pochi soldi, ma è impossibile farlo perdendo tanti soldi, senza garantirsi un adeguato ritorno, fosse pure soltanto sotto forma di una tranquillizzante (per i produttori, il pubblico, la critica) idea di classicità. Cimino è stato spesso paragonato ai cosiddetti classici (Griffith, Ford, Hawks, lo stesso Clint Eastwood...), ma non è un classico (come non lo era Stroheim): troppo dure le sue storie, troppo sgradevoli, troppo smisurate. Una sparatoria si tramuta in un lungo massacro – perfino una festa di nozze, perfino una festa di laurea, possono diventare ossessivamente interminabili. Si tratta di sequenze sempre molto elaborate nel montaggio (in modo magistrale), ma che evocano al tempo stesso la durata di virtuali piani-sequenza, come se Cimino mirasse all’estenuazione degli stessi attori, oltre che del pubblico. E allora il prezzo inevitabile da pagare è l’emarginazione, l’inattività, il ritorno al destino di eterno migrante del Cinema.
Che questo non sia accaduto dopo Il cacciatore è comprensibile: i discendenti degli immigrati ucraini si ammantano di patriottismo, non pensano di bruciare le cartoline-precetto, lisciano il pelo all’America – si troveranno in mezzo all’orrore, senza saperlo, ne usciranno scossi (quelli che ne usciranno), ma non distrutti (almeno, non tutti). L’inaccettabile sopravviene con Heaven’s Gate, quando Cimino mette l’America di fronte allo specchio scuro della sua nascita, delle sue colpe originarie, dei suoi massacri fondativi (si potrebbe dire): non è tollerabile che un regista mostri così sfacciatamente come i cancelli del cielo abbiano costituito per molti, per troppi, le porte d’ingresso dell’Inferno.

altParecchi anni dopo il disastro (possiamo definire così sia il fallimento americano in Vietnam, sia quello economico dei Cancelli del cielo), il reduce taciturno dal Vietnam alla festa di nozze de Il cacciatore – un reduce senza nome – o lo stesso Mike, diventano lo Stanley White de L’anno del dragone, che ha un nome, ma non è il suo (il suo vero nome ha un suono polacco). La Chinatown losangelina di Polanski si è tramutata nella Chinatown di New York, non meno corrotta, non meno caotica, non meno (letteralmente) incomprensibile. Lotta senza quartiere tra bande della Mafia cinese, con la Mafia italiana che per una volta rimane sullo sfondo (tornerà protagonista ne Il siciliano). Sempre di Mafia si tratta, in un intreccio ancora più inestricabile perché esotico – ma c’è qui una sorta di nemesi, se è vero che nessuno più si ricorda delle migliaia di operai cinesi morti durante la costruzione della grande ferrovia Transcontinentale. Lo scontro, allora, è tra l’outsider Stanley, poliziotto ribelle e indisciplinato, e l’outsider Joey Tai, il mafioso cinese insofferente delle regole della vecchia Triade. Non è Stanley l’outsider, diceva Cimino: lui è un insider, quello che tutti dovrebbero essere – ma questo vale paradossalmente anche per Tai. E, infatti, ne celebra il funerale, con le stesse lacrime sincere, lo stesso sgomento luttuoso, col quale s’erano celebrati, in precedenza, il funerale del vecchio boss della Triade e quello di Connie, la moglie di Stanley: come se un’identità non potesse costruirsi altro che sulla ripetizione del Lutto.

Personalmente ritengo che Cimino, dopo Heaven’s Gate, abbia dovuto girare film pieni di cose anche notevoli, ma al di fuori della sua ispirazione più genuina – fino a Sunchaser, che invece è un viaggio alla ricerca della sacralità perduta, sotto forma di road movie. Questa sacralità assume, per il navajo Blue, caratteri geografici precisi. Sono i monti della luce, dove solo gli iniziati possono arrivare e tutti i prodigi sono possibili (perfino guarire da un male incurabile) – land extra-territoriale, dove le regole sono sospese, e regna la magia. La scrittura dei luoghi si integra a quella dei corpi, dove il viaggio iniziatico verso l’Arizona, verso la terra dei Navajos, è al tempo stesso ricerca d’una montagna sacra e d’un lago le cui acque sono capaci di guarire i tumori: il paesaggio è cornice, motore e meta dell’azione, luogo magico, reale e sognato, prodotto di concrezioni millenarie, davanti al quale deve deporre le armi lo scetticismo più radicato. La terapia è la Luce.


Filmografia

Chinatown (Roman Polanski 1974)

I cancelli del cielo (Heaven’s Gate) (Michael Cimino 1980)

Il cacciatore (The Deer Hunter) (Michael Cimino 1978)

Il siciliano (The Sicilian) (Michael Cimino 1987)

L’anno del dragone (Year of the Dragon) (Michael Cimino 1985)

Rapacità (Greed) (Eric von Stroheim 1924)

Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot) (Michael Cimino 1974)

Verso il sole (The Sunchaser) (Michael Cimino 1996)