Ricordate l’incipit dello Squalo II (J. Szwarc, 1978)?1Non si nasconde forse nelle pieghe della logica completamente consumista del sequel, meglio quando del tutto apocrifo (e anche “mancato”, addirittura mal riuscito), la possibilitá sempre virtuale di un reframing, di re-inquadrare la realtà che si credeva fissa e stabile dell’episodio I in modo trasversale e inaspettato per far sorgere così nuovi significanti? Nel fondo dell’oceano, una fotocamera subacquea cade dal braccio mozzato del sommozzatore; l’urto con il fondale sabbioso (dopo una serie di rimbalzi che possiedono la sospensione incredula dell’oggetto a gravità zero cameroniano- kubrickiano e la malinconia invincibile del primo passo sulla luna) fa scattare, accidentalmente, una foto. Ma l’obbiettivo, dov’era puntato? Verso chi o verso Cosa lancia o genera il suo fascio automatico di luce biancastra? Verso lo sterminato fuori campo che si prolunga più in là del margine destro del quadro?

Non esattamente. La camera, adoperando la sua proverbiale “intelligenza di una macchina”, registra qualcosa delle potenze del fuori, che contengono dentro di sé non la Cosa, ma l’orizzonte di possibilità infinite della sua incarnazione e manifestazione. Il cinema di S. Craig Zahler (che con il terzo film sembra aver già generato un discorso filmico coeso, compatto come il cemento) si incontra, forse, tutto dentro questo scatto che “blocca” un fotogramma abissale, tutto dentro questo sguardo che, essendo meccanico, può fissare il fuori senza trasalire e registrarlo ottusamente in una specie di trance ipnagogica del dispositivo abbandonato abissalmente a se stesso, di detour che, a furia di “mirare” con ostinata intensità l’occhio spiraliforme della cosa, trasferisce dentro di esso il suo vertiginoso punto di presa. 

Il cinema di Zahler è fatto di piani che si sfiniscono nella loro stessa estenuazione, un angolo di spazio urbano o una città del selvaggio West non importa, sono tutti scivolamenti contropelo sulla superficie delle cose che si sposta continuamente verso il fuori e che, proprio grazie a questa lunga impassibilità insistita, riesce a riacciuffare una capacità di scrutinio che si credeva perduta attraverso una esibizione di violenza brutale (il cortile dove Bradley Thomas - Vince Vaughn si accanisce facendo a pezzi la sua automobile a mani nude in Brawl in Cell Block 99 o il brano di deserto dove la tribù di trogloditi cannibali squarta in due il nemico in Bone Tomahawk come in una pintura negra di Goya), realismo che è forse sempre un errore perché solo la violenza, appunto, contiene dentro di sé lo splendore del vero e permette di accedere batailleanamente alla verità.

Gli spazi di Zahler rivelano sempre il loro fondo di assediata e arida città assente, dove si riscopre tutta la genealogia di sangue rovesciata Carpenter - Siegel - Hawks: siti svuotati che implicano una specie di vertiginoso viaggio penitenziale, senza nessuna redenzione o scoperta. 

Al centro di questi spazi incapsulati ci sono dei corpi eccessivi e vintage (usurati, verrebbe da dire, dal cinema stesso e dai nostri sguardi bulimici e avidi in un processo di suzione oculare lunga tre decenni) che provengono prima che dal passato, dalla storia del cinema made in USA. Corpi – ravenant del passato ritornato, certo, ma in senso assolutamente anticitazionista e antitarantiniano, perchè il riferimento è sempre, in Zahler, non maniacalmente e amorosamente diretto e manipolato attraverso 100000 e più ore di visione ludica in VHS nell’eterno True Romance perduto di qualche store di Knoxville, Tennesse, ma messo per così dire sottocoperta, in sordina, usando il genere e le sue risorse stereotipe come cortina o mood dove si nasconde il desiderio, perché per citazione si intende proprio quella volontà golosa di divorare, e niente affatto di far rivivere, il passato, di possederlo come si fa con un corpo desiderato troppo.

 Passato che è quello, così vicino ma anche così sterminatamente lontano, del cinema anni ’80 (Zahler è nato nel 1973), inteso come radice amara di un certo tipo di realismo incorruttibile hollywoodiano (ma al quale bisogna aggiungere, per Bone Tomahawk, certe cupe ascendenze crepuscolari dell’Aldrich di Ulzana's Raid). E così appaiono, again, Kurt Russell alle prese con un’altra cosa da un altro mondo in Bone Tomahawk, Don Johnson sadico metteur en scène carcerario in Cell Block 99, Mel Gibson poliziotto razzista in Dragged Across Concrete, Udo Kier sicario sadico, e su tutti, Vince Vaughn-Bradley Thomas ex sfasciacarrozze e spacciatore di droga sempre in Cell Block 99. Quest’ultimo, appesantito dalla vita di cui sembra già sterminatamente stanco e dalla quale è già stato tradito una infinità di volte, con una croce celtica tatuata sul cranio rapato e una riserva, impossibile da dosificare, di violenza animale che esplode in raptus senza compiacimento né controllo che sembrano obbedire più che altro alle leggi di quella specie di fatalità sinistra che si accanisce sempre sugli ultimi, sui marginali, sugli outsiders, e contro cui o si abbassa la testa o si decide di lottare fino a versare l’ultima goccia di sangue, Bradley contrappone al caos e al timore che porta con sé un senso dell’onore personale, invitto e marchiato come un tatuaggio.

La Morale di Bradley (che durante un conflitto a fuoco decide di aiutare i poliziotti americani che “fanno solo il loro mestiere”, contro i suoi complici messicani e che però, una volta in carcere, si rifiuta di tradire) non differisce molto da quella dello sceriffo Hunt (Kurt Russell, appunto), che in Bone Tomahawk non può non andare alla caccia dei trogloditi per salvare la giovane prigioniera (Jennifer Carpenter) perché questo è il suo lavoro, che circostanze impossibili e atroci (la tribù vive in una zona al di fuori di qualsiasi mappatura) trasformano in una specie di missione.
Alla scelta (meglio, all’accettazione del destino) segue per entrambi una specie di transito penitenziale, attraverso lo spazio dell’alterità e del buio assoluto che si conclude con la morte violenta. In Bone Tomahawk si tratta del deserto e della minaccia fantasma che circonda la sporca compagine guidata dallo sceriffo (unta di sangue rappreso, polvere, sudiciume), idea di un nemico invisibile che appartiene allo stesso paesaggio ostile e arido, che sembra sorto da quella stessa concrezione dura di natura oscena, intatta e selvaggia, come solo in Southern Comfort (1981) di Walter Hill, altro regista che ci sembra di dover assolutamente aggiungere a quella lista di somiglianze di famiglie attivamente operanti nel cinema di Zahler.

Nemico che si trincera dietro una fortezza elevata che trasforma immediatamente il selvaggio West dell’assunto in ancestrale valle africana fatta di ossa triturate, spazio tempo sinistro che obbedisce a leggi opposte e assai più antiche, quelle dell’Ordalia, con tutto il peso della rivelazione del nero assoluto della morte e della grandiosa reiterazione del tempo arcaico degli incubi e del sangue, ma che alla fine permetterà alla coppia archetipica, al marito e alla moglie che si credeva perduta, di riabbracciarsi.

In Cell Bock 99 l’espressione di questo transito implacabile è data dalla sequenza di livelli di clausura successivi dentro le prigioni, dove il soggetto è impegnato in un continuo pericolosissimo walking through: la cella il cui puzzo non permette di respirare e costringe a dormire con la canottiera avvolta su bocca e naso, l’altra con il pavimento coperto di vetri fino alla segreta che nasconde una stanza delle torture, rerum deviata e gore di un romanzo gotico di appendice, in una logica che sembra di nuovo quella delle limitazioni, delle proibizioni rituali in voga nelle società arcaiche (non mangiare, non camminare, non vedere rinunciando a uno dei cinque sensi) con i loro compiti ardui affibbiati all’iniziato. 

È impossibile non scorgere allora un fondo sanguinosamente sacrificale, deposito carsico dove si abbevera la radice “realista” del cinema di Zahler, sacrificio spostato e completamente svuotato fino al senso ottuso e nero del supplizio che non conosce né redenzione né metamorfosi né ascesi, ma solo l’orrore del corpo squartato, decapitato o impalato. Bradley alla fine ha ormai capito che non uscirà mai vivo da quel “pozzo” vertiginosamente poesco (dove può solo uccidere il narco messicano che per vendetta tiene prigioniera la moglie incinta) e che ogni reclusione successiva, ogni sadica punizione è solo il prezzo da pagare per avvicinarsi alla vittima, attraverso una serie di reti di arresto, barriere, margini elettrificati che conducono fino al campo innominabile del desiderio radicale, nell’ora dove a dominare è la pulsione di sangue oltraggiosa, onnivora e cieca, che permette di staccare a calci la testa dal collo del nemico ormai inerme e accettare il proiettile che squassa la faccia con il sorriso sardonico del “tutto è compiuto”.

Traiettorie, queste, tradotte attraverso la trasparenza di uno schematismo che chiarisce le geometrie del desiderio con la chiarezza di un meccanismo ad orologeria: è la lezione che il regista ha forse meglio compreso da John Carpenter, di come cioè il corpo a corpo con uno spazio è sempre soprattutto una lotta contro il tempo e le sue faglie ritmiche di contrazione-dilatazione. Zahler che come Carpenter è musicista (la sua discografia, imperdibile, è tutta su You Tube) ha composto le colonne sonore dei suoi film (quella di Bone Tomahawk con Jeff Herriot dietro il nome Binary Reptile) ed è anche autore di due album doom metal come leader dei Realmbuilder, la cui copertina del primo e del secondo album (Summon in the stone throwers con il pellegrino davanti alla rocca fortificata che sembra uno sperone roccioso e Fortificacion of the Pale Architect con l’ombra incappucciata che osserva i lavori del suo palazzo grigio, stratificato e inespugnabile) sembrano un commento onirico e fantasy alle vicende dei suoi primi due film. Ma la sua prima, violentissima band, appartiene al genere più blasfemo e violento del panorama heavy: con i Charnel Valley, Zahler trentaduenne (che si faceva chiamare Czar), vomitava nei pub underground di NYC sonore atrocità Black Metal.

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