attesadiunestateEssere dentro una stagione che attende la prossima. Così le immagini si susseguono, il prima e il dopo, il presente con il passato tra le ombre di un interno, le ombre come un grumo di silenzio e d’attesa, come l’arrivo dell’onda e la schiuma, il lampo e la bava del ricordo. Santini strappa pezzi di casa, di strada, di schermi e campi per ricomporre un quadro che non finisce mai, perché gli stessi frammenti torneranno ancora con altra gradazione d’intensità come un tempo sempre al presente: e allora si guarderà la strada da percorrere e quella che ci si è lasciati alle spalle, e ogni frammento avrà l’aria di essere sempre sospirato: così Attesa di un’estate (frammenti di vita trascorsa) (2013) diventa il temporale che apre il varco e che cerca una nuova forma, come la macchia di pioggia sul vetro, come le luci dilatate della festa, un passo alla volta verso la nuova stagione, un passo attutito dalla neve che lascia una lesione, un poro dilatato, il tempo.


Attesa di un’estate è l’involucro che nasconde il seme: l’estate resta nel grembo, tutto quello che si può sapere e vedere è il corso della sua formazione, la gemmazione, l’attesa ancora di una venuta o di una veduta. L’estate viva è quella che si intravede, quella che deve ancora arrivare perché nel momento in cui arriva è già passato; e così, l’immagine, per Santini, non assorbe mai i propri contorni, è sempre in continuo processo di maturazione, e, come il frutto, è sempre dentro un tentativo di caduta; ma l’immagine tentenna, vibra come la foglia, non muore, resta così, in attesa. Arriverà poi la prima schiarita, il primo bagno di colore, dei campi, delle spine di grano. L’inverno sarà trascorso e non si vedrà ancora «il mare vero, solo un mare di grano giovane, un mare di solchi anziché di onde» (Van Gogh 2013, p. 237).

Quello di Santini è un cinema che penetra i corpi separandoli, sdoppiandoli, oppure andandogli sempre più vicino per evidenziare sulla tela forme di colore (Da qui, sopra al mare, 2003) ed è proprio in questi pezzi, in queste figure amorfe ‒ che Van Gogh definiva «chiazze» senza disegno ‒, che si rivela un modo di vedere «attraverso le ciglia, di modo che i contorni vengono schematizzati a macchie di colore» (ivi, p. 225). È qui che vengono incisi residui di un ricordo d’infanzia, volti lontani, presenze-assenze che si posano sempre al presente, e, posandosi, si espandono come il liquido riverso o come l’ombra sulle pareti, camminano, rivivono. Ecco il film, la proiezione delle immagini, delle ombre delle immagini che fanno il fantasma (del cinema), l’immagine allo specchio.

C’è il mare, poi, che slava e lava e ricompone una vecchia fotografia (Flor da Baixa, 2006) e si muove immobile, si muove nel suono delle correnti, mentre una nuova dimensione si apre piano, come una finestra, un piano-sequenza che mostra la sua (im)mobilità. Non c’è un dileguamento delle immagini ma una concatenazione, una comparsa che segna la scomparsa (ecco, allora, che il corpo-montaggio inspira ed espira, apre e chiude l’occhio affinché ci sia una pausa, un intermezzo, il nero: «se la regia è uno sguardo, il montaggio è un battito di ciglia», Godard in Buccheri 2003, p. 215): è un continuo prendere forma dei nuovi elementi come quando si mette costantemente a fuoco l’immagine, ed ecco, allora, che l’immagine prende a cercare una nuova direzione (Il fiume, a ritroso, 2012): spiare più a fondo il corpo vivido della materia, la corazza nuda della roccia, il frastuono del fiume, le radici dell’albero, le rughe del legno che arde. Tutto questo è un silenzio che si muove, un silenzioso incedere dell’uomo e della natura, un silenzioso essere al mondo e nel mondo, l’animale che resta fedele all’animale e vaga, l’occhio vaga da un corpo all’altro, dal bulbo oculare di una donna al foro centrale del tronco, agli occhi notturni di una volpe in un paesaggio simile a quello mostrato da Grandrieux in Un Lac (2008) (cfr. Un Lac): anche qui «uno stato dell’anima, un bosco-casa dal tetto frantumabile, con pareti dalle rocce terribili eppure soggette all’erosione del tempo». Ecco, il tempo: qualcosa di socchiuso, una scatola semiaperta, un diario da sfogliare, un quadro, una foto che ingialla, un fiume che scorre e si muove e, nel tempo, c’è l’amore per le cose vissute e per quelle che verranno, un alto grado d’amore che si vede nella profonda lacerazione lasciata dalle impronte sulla terra, perché il cinema in Santini è sempre una ricerca di fondi, e cioè di quello che la natura lascia per essere rievocato dall’uomo e di quello che l’uomo, poi, rilascia sotto forma di memoria. Santini diventa testimone di una reattività degli elementi e dell’uomo, della vita elementare.

Nel suo cinema, ogni singolo frame, come tutto il corpo e i titoli dei suoi film, rappresenta frammenti, scaglie, piccole ferite, segni dove il segno significa un solco che (di)segna un viaggio che si divincola, poi, dal binario della narrazione (se c’è una narrazione) per raggiungere il campo di grano, l’amaca sospesa, la strada: sembra quasi dirigerci in quel confine sempre aperto e spalancato ad ogni possibilità di approdo che è il sogno, è cinema.


Bibliografia

Van Gogh V. (2013), Lettere a Theo, a cura di Mauro Cescon, Guanda, Parma.

Buccheri V. (2003), Il film. Dalla sceneggiatura alla distribuzione, Carocci editore, Roma.


Filmografia

Attesa di un’estate (frammenti di vita trascorsa) (Mauro Santini 2013)

Da qui, sopra al mare (Mauro Santini 2003)

Flor da Baixa (Mauro Santini 2006)

Il fiume, a ritroso (Mauro Santini 2012)

Un Lac (Philippe Grandrieux 2008)