siegleIl cinema di Don Siegel

a cura di Fabio Zaniello

Ed. Il foglio, Piombino 2011

pp. 325

 

Personalità eclettica e stravagante, regista dalle mille sfaccettature, abile direttore di attori affermati e scopritore di talenti, nonché illustre figlio di una Chicago opulenta e frenetica, Donald (Don) Siegel (26 ottobre 1912 – 20 aprile 1991) continua a pungolare la curiosità di studiosi di cinema e giornalisti. Il suo impiego della macchina da presa come endoscopio introdotto nelle pieghe del magma sociale, la sua capacità di modificare il corpo testuale dei polizieschi, della fantascienza e del western giustificano l'elevato interesse attorno alla sua produzione.

La recente pubblicazione del ricco volume collettaneo Il cinema di Don Siegel, corredato di filmografia, a cura di Fabio Zanello, per i tipi della casa editrice Il Foglio, ne è una piacevolissima riprova. I saggi analitici qui raccolti - di Francesco Asaro, Aurora Auteri, Alessandro Baratti, Beniamino Biondi, Massimo Causo, Sebastiano Cecere, Federico De Zigno, Fulvio Fulvi, Mario Gerosa, Gabriele Lucantonio, Matteo Lolletti, Mario Molinari, Domenico Monetti, Michelangelo Pasini, Michele Raga, Silvana Zancolò, Fabio Zanello e Massimo Zanichelli -, intendono mantenere viva la discussione sui lavori cinematografici del regista americano e chiarire alcuni interrogativi che contornano ancora la sua figura, amata, ma ancor più, mitizzata da maestri del cinema ed allievi: un nome per tutti, Clint Eastwood.

Dopo l'epoca del proibizionismo, molti erano stati già contagiati dalla smania del poliziesco, attivato e fruito come cinema di isolamento e alienazione. Siegel, spiega il curatore del volume, ha cambiato le regole del gioco. Ha stravolto l'eloquenza del prodotto filmico, azionando la cinepresa come strumento di indagine e di anamnesi collettiva. Il che significa osservare attentamente il tessuto sociale contemporaneo, percepirne le inquietudini e i fermenti, comprendere le tendenze, le agitazioni e le dinamiche tra le classi, per trasporli e trasformarli in un linguaggio polifonico, che prevede un approccio cronachistico.

Questa mirabile interpretazione del reale ancor oggi ha il pregio di risultare del tutto innovativa nel suo genere. Film come Rivolta al blocco 11, Dollari che scottano, L'inferno è per gli eroi, Il pistolero, Fuga da Alcatraz e Squadra omicidi sparate a vista! traspongono sullo schermo la varietà della società americana, con molteplici punti di vista e con numerose antinomie. Siegel affida allo spettatore la sua decodifica del mondo, la sua percezione, parafrasando il reale.
«L'identità dei film di Siegel – spiega Zanello nell'illuminante capitolo introduttivo – è quella di aver dato vita a un'infinità di paratesti nel cinema americano del dopoguerra, capace di contestualizzare al meglio la realtà americana del tempo con tutti i suoi splendori e le sue contraddizioni, come avviene spesso nei film realizzati in perodi difficili centrati su anti-eroi come i detenuti Dunn e Morris, il mezzosangue Pacer, il medico Miles Bennel, il poliziotto Madigan, lo sceriffo metropolitano Coogan, il soldato nordista Jonathan, l'ispettore Harry Callagan e il rapinatore crepuscolare Charley Varrick».

Pur trattando materie scottanti, quali ad esempio la corruzione della polizia, le incongruenze giudiziarie, le rifrazioni e i tanti riverberi della vita nelle carceri, Siegel decide di non etichettare i suoi film come lavori di impegno politico, come al contrario fanno registi appartenenti alla stessa generazione (basti pensare a Elia Kazan e Sidney Lumet). Eppure la sua presa di posizione sulle tante questioni elaborate sono cogenti, rigorose, spietate. È anche per questo che Friedkin e Mann gli sono debitori.

Siegel, definito da Andrew Robinson "uno degli uomini più furbi" che abbia mai incontrato nell'intervista riportata nella sezione incipitaria del volume, possiede un innato talento per creare ed ottenere particolari alchimie tra gli attori che ingaggia. È altrettanto attento alla scelta che il cinema americano di quel periodo impone in qualche misura ai suoi fautori, che privilegiano oltremodo l'azione a discapito delle musiche. Lo stesso cominciamento di Dirty Harry è prettamente documentaristico. Egli deve decidere se eliminare la musica oppure osare, attingendo alle fonti dell'ignoto e dell'originale. Facile a dirsi: la scelta ricade su quest'ultima stravaganza, con un felice esito. Siegel richede la collaborazione del compositore argentino Lalo Schifrin, che combina elementi provenienti dal jazz e dal rock-funk con un uso avanguardista dei violini. L'idea è quella di condensare un concetto filosofico in pochissime note. La sintonia tra i due è davvero forte: Schifrin collabora con Siegel per ben cinque volte, attestazione di grande apprezzamento da parte del regista, che non ha mai richiamato gli stessi compositori per le colonne sonore dei suoi film.

L'affascinante durezza della regia di Siegel e la spiazzante asciuttezza narrativa si schierano sempre dalla parte del superamento della banale apparenza. La sua sceneggiatura si insinua nella spaccatura che si crea tra bene e male, tra chi vive in società e chi ne è escluso, tra il tempo a disposizione e quello forzato e limitato degli esuli. I tratti della società perbene e della città ordinata cozzano con la figura degli eroi emarginati, dannatamente braccati da consolidate convenzioni demiurgiche e da un uso rassicurante del potere. Il tragico fallimento del progetto messo a punto da Dunn e Carnie di Rivolta al blocco 11 a ben guardare denuncia lo stesso immobilismo castrante dell'ordine preposto nei confronti dei malviventi di Crimine silenzioso e la stessa società perbenista, votata al consumismo e allo sfrenato benessere economico, di Dollari che scottano. Senza incespicare, però, in una retorica da quattro soldi e in un moralismo scontato.
Ma è con Fuga da Alcatraz che Siegel viene definitivamente annoverato nella rosa di nomi del cinema che conta. Il film, selezionato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia nel 1979, si pone al culmine della carriera del registra, che dimostra tutta la maturità e l'esperienza accumulata durante gli anni, senza mai smettere di stupire, di perfezionarsi e riaggiornarsi.

In Fuga da Alcatraz sono riscontrabili tutti i topoi del cinema di Siegel, ma c'è qualcosa di più. Nei panni di Frank Morris, Clint Eastwood interpreta la supremazia dell'individuo nell'atto evocativo dell'evasione dalla ripetitività, dalla non-esistenza, dall'anonimia carceraria. Rispetto alla cella, la metropoli appare ora come entità salvifica e, metaforicamente, rappresenta il ritorno alla propria essenza. In un certo senso, il film pare riconciliare il regista con la società e la vita. «Siegel – spiega Pasini nel saggio conclusivo - sembra aver abbandonato la via del nichilismo e aver abbracciato la convinzione che l'uomo può utilizzare la "propria tenacia fino ad ottenere l'(apparentemente) impossibile"».