«Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore».

(Dino Campana, La notte) 

«[…] Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina della melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno […]». 

(D. Campana, La Chimera)


C’è una notte che sale dalle profondità della parola, primitiva, barbarica, orfica dei Canti di Dino Campana, che trae origine dall’indistinto della memoria, ripetutamente spezzata, frammentata e (de)costruita su quello che sembra, che è lo sfondo dei paesaggi di Leonardo da Vinci, come appare osservando La Vergine delle rocce, Sant’ Anna la Madonna e il Bambino e La Gioconda. Quel carattere di infinitezza del quadro, che tende a non definire i confini ma anzi ad annullarli, risponde alla necessità di rendere uno sfumato che integri le figure in quegli elementi primi, l’acqua, le rocce, la terra e il cielo che saranno così amati dal poeta di Marradi: le posture di tre quarti, ricorrenti nelle opere di quest’ultimo come, del resto, nei dipinti dell’artista, permettono di imprimere allo sguardo una direzione immaginata, sognata, alle origini di  «[…] un evento misterioso e remoto nel tempo come nello spazio.» (P.De Vecchi - E. Cerchiari, Arte nel Tempo. Dal Gotico internazionale alla Maniera Moderna)

Risentendo le riviste fiorentine, «Leonardo» ma anche «Lacerba» e «La Voce», del clima diffuso che agli inizi del secolo scorso ruotava intorno a Leonardo Da Vinci – presentato come indagatore della verità nel mondo circostante e, spesso, come iniziato e latore di miti cosmici  – moltissimi intellettuali si vedono coinvolti in questo tipo di tematiche, da Baudelaire a Merezkowskij, da Schuré a Péladan e, in Italia, D’Annunzio, Conti e, naturalmente, Campana. L’attenzione cresce anche a causa del clamoroso furto dal Louvre da parte dell’italiano Vincenzo Peruggia, fatto che suscita un’impressione tale da indurre D’Annunzio a scrivere una sceneggiatura cinematografica, L’uomo che rubò la Gioconda.

Dino Campana è, dunque, certamente a conoscenza del comune fondo culturale incentrato sulla figura di Leonardo: legge Merezkowskij, uno degli autori più tradotti in Europa e che, per questo, contribuisce alla diffusione del mito leonardesco; è, però, più vicino a Schuré, autore di I grandi iniziati, importante perché, esaltando la figura di Orfeo, influenza forse l’orfismo della sua poesia, ma  soprattutto a Conti, tra i primi a portare in Italia la filosofia nietzscheana, che presenta a Firenze una conferenza proprio su Leonardo pittore. Parlando dell’opera d’arte come cosa «diversa e nuova» e di Leonardo come l’artista che genera le sue opere «qual fanno le cose» perché crea allo stesso modo della natura che cancella il tempo nel suo operato, del «genio», di colui dal quale ha origine l’arte, generata come figlia dal suo estro creatore, scrive: «[…] Dinanzi all’umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dell’usignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell’usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l’alba e cantano le allodole, o è una notte serena, e l’uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell’eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi, accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo […]». (A. Conti, Leonardo Pittore, in Conferenze fiorentine)

Il tempo, il giorno «più lungo», confluito nel disfacimento di ogni limite, cosicché tutto converge verso un sogno che si fa carne, vita, che sale barbaramente dalle profondità dell’universo, primordiale, diventa paradossalmente il tempo di mezzo, la coscienza del varco, nel quale forse si può essere smembrati senza dover morire: «[…] Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! […] E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute […]. (D. Campana, La Verna) Per il poeta soltanto è il fascino delle stelle, come apparse per la prima volta su un panorama leonardesco, col fiume che passa su valli lontane e che proviene da un’altra valle, anch’essa distante perché «barbarica», dissolta in vapori che rendono sfumati i contorni.

Il paesaggio di rocce e fiumi e atmosfere indefinite che vediamo far da sfondo a tanti luoghi campaniani è solamente una delle innumerevoli presenze pittoriche che sembrano spesso ispiratrici di immagini poetiche notturne, ancestrali, se è vero che la scrittura campaniana tende ad una «[…] figuratività che rimane in fondo un elemento assolutamente centrale anche quando Campana sconfina più dichiaratamente in una visionarietà che ci ricorda certa poesia di William Blake […]» (M. Verdenelli, L’ombra nei Canti Orfici): e questo grumo di cose sanguinanti, rapprese nei fragili momenti dell’arte, irrompe da questa faglia di primavere riemerse dal nudo mondo, che si manifesta nel sorriso di Chimera, della sua notte, e sta sulle rupi, sui rivi, sul «[…] profondo paesaggio ‘geologico’ di acque e rocce stratificate […]» (P. De Vecchi – E. Cerchiari, Arte nel Tempo. Dal Gotico Internazionale alla Maniera Moderna), che ricorda tanto anche il cubistico quadretto di Ritorno. (D. Campana, Canti Orfici)

La condizione primigenia, carica della «sanità delle prime cose» che dormono nel «mistico incubo del caos» è la vertigine dei bagliori notturni, è l’acqua, metafora del tempo perduto:  «[…] L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra dormire.  Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti! .  .  .  .   il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra… […]». Pure qui le gore e l’acqua, le stesse che compaiono sullo sfondo delle pitture di Leonardo, che il poeta sembra sentire, insieme a Dante, Goethe, S. Francesco d’ Assisi e Michelangelo, particolarmente vicino: è il suo compagno di viaggio, anche lui  «giurò fede all’azzurro» riaffermando la propria dedizione all’arte dopo «la sorda lotta notturna» della quale si legge, in Il più lungo giorno: «[…] poi che ne la sorda lotta notturna / La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene / Noi ci svegliammo piangendo: ed era l’azzurro mattino. Ombre d’eroi veleggiavano: eran colonne d’azzurro / I puri pensieri dell’alba o cuore ricorda: ricorda, e piangendo / Giurammo ancor fede all’azzurro». (D. Campana, Il più lungo giorno)

I dipinti del grande artista del Rinascimento ricordano che quelle rocce e quei laghi e la classicità dei profili, dolce nella «linea delle labbra», serena nella «linea del sopra ciglio nero», appartengono ad un tempo perduto forse per sempre, se non fosse possibile recuperarne il segno nel richiamo nostalgico dell’arte, in quella sua dimensione barbarica, ancestrale: poesia pura, arrivata agli occhi, alla pelle, agli stracci logori di fustagno, scesa nel profondo della carne.

Quando il passato è rinnegato in nome di un presente freneticamente vissuto nel suo morire dal momento che una fiducia assurda e incontenibile è riposta in un futuro che chiama morte, quando l’arte è respinta nei musei che i futuristi vogliono distruggere e la poesia agonizza nel cordoglio retorico di una letteratura venduta al pragmatismo imperante che sprofonderà il paese nella catastrofe della grande guerra, quando questa logica assolutamente priva di un senso tanto grande da poterla giustificare diventa scenario di una vita già così drammatica, la sola giustificazione per essa è invece proprio di riviverlo, il tempo eternato nella perfezione artistica:«[…] La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu. (Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)» (D. Campana, La Verna).
Leonardo è «divino» perché «primitivo»: «[…] perché ha divinamente raffigurato gli elementi primi […]» (F. Ceragioli, Commento ai Canti Orfici), ponendosi come modello per Campana che da quelli vuole liberare la poesia, affrancandola invece da una modernità che non sa più ascoltarla e quasi la uccide, infastidita dal canto che ugualmente dalle macerie risorge, dalla voce che nonostante tutto sale. Quasi a voler risvegliare la primitività di quello «[…] strano paesaggio, infinitamente profondo, fatto di rocce corrose e sfaldate tra corsi d’acqua, come un’atmosfera satura di vapori in cui si rifrange e filtra la luce […]», (G. C. Argan, Storia dell’arte italiana. Da Michelangiolo al Futurismo), il poeta di Marradi non rinuncia a scrivere, riferendosi a Leonardo, «Tu avevi già compreso», perché aveva in effetti compreso che l’arte è l’unica depositaria di una completezza che altrimenti non è concesso nemmeno di pensare, la sola a cogliere le relazioni fra le cose, a riunire i cocci di quanto non può esser dato che per mancanza.

Ma per ricomporre il reale, per ricostruirne l’essenza e conservarla pura al riparo dalle contaminazioni del progresso a ogni costo, è anche necessario scomporlo, spezzarlo e rischiare noi stessi di rimanere smembrati nella dolorosa ricerca della poesia, per ricucirlo poi ripulito di tutto ciò che è vano poiché vano è tutto ciò che non è poesia. Da qui, per il notturno Campana, l’esigenza di presentare i suoi incontri mai appagati con Chimera in versi che plasmano forme impensate, nate piano in quelle ripetizioni che qualcuno ha definito «balbettii» ma che, piuttosto, sembrano il coerente esito di una strada percorsa a tratti, con la difficoltà di chi spera, se non proprio di salvarsi, almeno di battere, ai passi, terra che non frani.    

Ecco, allora, la definizione graduale operata da una scrittura che «[…] prima di essere qualcosa da leggere, vuole essere guardata, è un’immagine di poesia» (A. Acciani, La “gaia” poesia. Appunti su Dino Campana), ecco il disegno che essa traccia sulla pagina non diversamente dal tocco attento su una tela, fedele al progetto di dipingere ciascuna poesia, come si legge nel Taccuinetto faentino: «ad ogni poesia fare il quadro».
Campana non è il solo ad evocare il nome di Leonardo il quale è, anzi, molto presente nella cultura del tempo, tanto da comparire nella intestazione della rivista fondata da Papini che scrive: «Leonardo era l’uomo che aveva dipinto enigmatiche anime e rocce e fiori e cieli meglio dei migliori: aveva cercato paziente la verità, tra macchine e cadaveri, più dei sapienti; e aveva scritto sulla vita e la bellezza con parole più profonde e immagini più speciose dei letterati di mestiere; […] Nel suo nome dunque consacrammo la nostra sortita dal silenzio. Il giornale si doveva chiamare ‘Leonardo’ e non altrimenti».(G. Papini, Un uomo finito)

La ricerca paziente della verità, la capacità di scrivere della vita in maniera più appropriata che i letterati «di mestiere» – ed è, questa, una qualità tragicamente avvertita da Campana che non solo la respinge in coloro che fanno letteratura ma  più drammaticamente la vive, ossia nel suo voler essere poesia, e arte, e musica, totalmente –  è ciò che soprattutto interessa, prima ancora della creazione artistica, della privilegiata condizione di immediatezza nel rapporto con un mondo remoto e incontaminato, intatto perché cristallizzato nei secoli nelle forme imperiture dell’ arte.

Come Orfeo, mitico cantore figlio di Apollo che è il dio della musica, della poesia e delle arti, Campana è figlio della Kultur, della coincidenza cioè di suono, colore e vita (dove vita è poesia). Con la sua lira, scende alle profondità dell’essere per portare con sé la sua Euridice e, raggiungendola, perderla per sempre. Ma ha bisogno ugualmente di compiere questo viaggio, in un tempo al contrario che lo porti lontano quanto lontana è l’esistenza sua nata e rinata in tutte le esistenze che l’hanno preceduta e specchiata, all’infinito, per restituirne il riflesso, altrettanto infinito da trascendere la storia: «[…] quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti!».

E, all’inizio, è la Notte appunto, la stessa che sembra aver vita da sempre, nella mitica fissità di un’altra opera rinascimentale, che il poeta cita negli Orfici – «[…] Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano […]» –   e che è la celebre scultura di  Michelangelo: il celeste messaggero in posa classica dà infatti origine al ricordo della Notte, una delle «allegorie del Tempo» per la tomba di Giuliano dei Medici, nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze. Anch’essa piega le ginocchia, esauste per il troppo cammino, per i passi trascinati da età remote, perdute; la testa china poggiata al palmo della mano, gli occhi dischiusi in un atavico torpore, nel sonno della caducità della vita umana nel suo rapido declino verso la morte. Ma è da lei che nasce il Giorno, in un gorgo continuo rigenerante e degenerante insieme ma che sempre ritorna, più nuovo, più antico.



L’arte antica convive, infatti, con la moderna, l’una non può escludere l’altra: «[…] In fondo, nel frusciar delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su sé stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco […] Nelle tue mosse montagne l’elemento grottesco profila […] sotto le nubi in corsa […]». Da un lato le «nere selve» rappresentano un chiaro riferimento agli sfondi delle pitture di Leonardo, il cui nome rievoca una primitività persa, «[…] un valore naturale attinto non ai libri ma per via diretta a un paesaggio atavico familiare di cui le figure leonardesche […] finiscono per apparire materiate» (S. Ramat, L’intenzione regressiva dei “Canti Orfici”, in Storia della poesia italiana del Novecento): la scelta del nero per indicarne il colore significa la volontà di riportare il ricordo a quella dimensione barbarica che Verdenelli crede di poter ritrovare nella tematica dell’ «ombra», «[…] il luogo dove la poesia campaniana ritrova incredibilmente più senso, più senso orfico […]» e dove tutto è «ombra di eternità».

Dall’altro, le stesse selve sono presentate come «sempre più avanti accampanti», in tutto uguali ad un esercito in marcia che avanza guadagnando terreno, mentre pure la montagna si anima, prendendo vita nell’imponenza di un pachiderma «che si ripiega grottesco su sé stesso». L’ambiente si compone man mano, ingrandisce, si gonfia, incalza, superbo. Il poeta procede e quello procede con lui: movimenti che si incontrano, sincronizzati come quelli, meccanici, di un orologio. L’espressione anaforica «E varco e varco», con la ripetizione sia del verbo che della congiunzione, evidenzia la fatica del moto reiterato, l’instancabile andare attraverso la cubica composizione e ricomposizione dei piani, «[…] dice il suo procedere senza posa attraverso un paesaggio che improvvisamente ha cominciato a muoversi con lui […]».  

Inoltre le montagne, pur comparendo fra gli elementi primi che Leonardo amava dipingere, sono «mosse» perché anch’esse, come le selve, costituiscono una parte integrante della bizzarra lievitante scenografia: non a caso Campigno è presentato come paese «fuggente», proprio come «le nubi in corsa» rendono l’idea della velocità del movimento. Non soltanto, però, «fuggente», ma  anche «barbarico» in quanto naturale, primario, ancestrale, incorrotto, grado ultimo, nel presente, di un ciclo sempre nascente nel suo portare in sé le nuove gemme di ciò che è originario perché manifestazione continua del nietzscheano prodigio dell’eterno ritorno, espresso qui anche stilisticamente dall’iterazione della frase, qualche riga dopo («[…]Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo delcaos […]», r.26-27; «[…] paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos […]», r.33-35); «notturno» poiché chi vi abita «[…] porge la notte dell’antico animale umano nei suoi gesti», diventando primordiale come pure sono primordiali i gesti degli abitanti, interamente immersi nella Notte di Michelangelo (D. Campana, Taccuinetto faentino); «mistico incubo del Caos», dove «caos» è ripetuto con la lettera maiuscola dal momento che, se prima il termine marcava un aspetto del paesaggio, ora rappresenta un’iniziale era cosmica.

Così, nella stratificazione tipicamente cubista di una natura «[…] che conduce / Strati di rocce su strati […]» e che si estende nella «[…] lunghissima valle che sale in scale […]»; nella atemporalità, manifestata chiaramente dalla notazione iniziale «SALGO (nello spazio, fuori del tempo)», che esplicita il cammino del poeta, anzi il salire in uno spazio che sale con lui ma che conduce oltre il tempo, superandolo; e nella disposizione di elementi naturali e umani su piani che ne scompongono le linee in mille sfaccettature, che richiamano la pittura cubista, si inseriscono, perfettamente intrecciati come strumenti di una sinfonia, le belle immagini tratte dall’arte del passato. De Robertis e Ramat confermano che «[…] risulta tutto esplicito il riferimento alla corrente contemporanea del cubismo, nella cui apparente freddezza e anticlassicità Campana vuol individuare invece un’eco incancellata dell’arte classica (il sorriso di Cerere bionda). Ciò non significa altro che una persistente e fondamentale passione campaniana per tutto ciò che ha sapore primitivo».

Si tratta, dunque, dello stesso incontaminato passato rivissuto nella cristallizzazione delle pitture antiche, per permettere loro di eternare la Bellezza, e attraverso le moderne, per poter ricostruire con esse la verità sonnolenta che si attarda a mostrarsi. Se le prime si fanno testimoni di una realtà non ancora macchiata dal progresso, le seconde si adoperano per ridefinirla nella sua essenzialità, ricombinarla dopo averla smontata, fatta a pezzi. La spontanea alternanza di due esperienze apparentemente inconciliabili è ancora più visibile nella seguente prosa, nella quale il paesaggio alpino di Valdervé riassume in sé tutte le qualità che i quadri di Leonardo mostrano ma che allo stesso tempo, muovendo da quella condizione primitiva, si trasfigura in qualcos’altro mentre si snoda e stratifica secondo la maniera propriamente cubista.

Il qualcos’altro sta nell’attenzione da parte di Campana a tracciare l’incantevole spettacolo della natura attraverso una scrittura che sa illustrarne, come in un dipinto, la melodia, l’eterno nietzscheano scorrere del sussurro dell’acqua e del vento, dolce musica per il poeta come nel «notturno» Il canto della tenebra, dove «[…] Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, / Sorgenti, sorgenti che sanno / Sorgenti che sanno che spiriti stanno / Che spiriti stanno a ascoltare… […]» e che già negli effetti musicali ottenuti dalle allitterazioni evoca non solo il rumore frusciante dei corsi d’acqua, ma anche  ricorda, nelle anafore, il motivo ricorrente di Wagner, ravvisabile in numerose opere del grande maestro come il Faust e il Parsifal (C. Galimberti, Dino Campana) e, nel titolo, i notturni di Chopin , in particolare il Nocturne n. 20 in do diesis minore e il Chiaro di luna, tratto dalla Suite bergamasque di Claude Debussy : la «ninna nanna» della Morte («[…] Intendi chi ancora ti culla: / Intendi la dolcefanciulla / Che dice all’orecchio: Più Più […]», Il canto della tenebra, vv. 14-16) è cantata piano all’orecchio ma poi nel vento aumenta d’intensità e subito si spegne («[…] Ed ecco si leva e scompare / Il vento […]», vv. 17-18); ma di nuovo risorge dall’acqua («[…] ecco torna dal mare […]», v. 18) per tacere, quasi non avesse più voce, alla fine del canto («[…] Il fiume va via taciturno […]»).

Allo stesso modo, confrontando lo spartito di Debussy, ci accorgiamo di un’incredibile coincidenza nella scrittura, in entrambi i casi tesa a ottenere effetti di fluidità che rendono ancor più lieve il silenzio: l’attacco sembra scandire il tacito momento della sera con quel «pianissimo con sordina» che diviene «pianissimo» o «piano» in quasi tutta la durata della composizione. Soltanto nella parte centrale l’intensità è maggiore dal momento che si legge «poco a poco crescendo e animando» («[…] Ed ecco si leva […]»), per diminuire subito dopo nella notazione «diminuendo molto» («[…] e scompare […]») e riprendere forza nell’altro «crescendo» («[…] ecco torna dal mare […]»). Nel finale, il tocco già leggerissimo del pianoforte si affievolisce perché il «pianissimo» diventa «pianissimissimo» e «pianissimissimo morendo sino alla fine» («[…] Il fiume va via taciturno…»).

Il nuovo altro sta nell’andare oltre, nel liberarsi da quella collocazione negli spazi entro cui la corrente cubista pone, per costruire ancora spazi negli spazi, i suoi soggetti. Così, mentre pure Campana li definisce in espressioni come «a tratti», «strati su strati», «l’alto scenario», «sotto le nude roccie» e  «in contro l’altra tua faccia», li rende luoghi nei quali possa meglio risplendere la bellezza. Non può esserci alcuna stonatura se «[…] primitivo, nonché orfico, a questo punto, è soprattutto l’artista che tenta di cogliere i legami profondi delle cose, scomponendo i loro elementi primari (C. Vecce, “O divino primitivo”. Leonardo in Campana, in O poesia tu più non tornerai. Campana moderno) […] »; e se «orfica» è la poesia stessa nella sua notte. Come Leonardo, nella sua fervida curiosità, «[…] ama e indaga tutte le forme […]» (E. Solmi, La resurrezione dell’opera di Leonardo, in Conferenze fiorentine) nella tensione mai soddisfatta a scrutarne il mistero, Campana tramite lui ne sperimenta l’illimitata voragine e tuttavia non rinuncia al tentativo di comprenderlo, giocando con i frammenti del reale allo stesso modo dei pittori cubisti. Ancora una volta, è ciò che sta al di sotto che interessa, l’inattingibile che grida di essere attinto, l’incomunicabile che vuol trovare una voce.



C’è sempre, in Dino Campana, una tensione al superamento dei limiti umani di questi luoghi e di questo tempo che ben si concilia con ciò che Apollinaire scrive riguardo al «cubismo orfico», che il poeta considera quando non può fare a meno di caricare di significati derivanti dal suo mondo interiore la realtà visibile: «Le cubisme orphique est […] l’art de peindre des ensambles nouveaux avec des éléments empruntés non à la réalité visuelle, mais entièrement crées par l’artiste et doués par lui d’une puissante réalité. […] C’est de l’art pur». (G. Apollinaire, Les peintres cubistes)
Il poeta cerca una rinascita, un modo d’essere, un giusto posto in quel paesaggio tosco-romagnolo che lo ha visto nascere per la prima volta, una possibilità d’esistere davvero in quel luogo mitico dell’infanzia abitato da antiche immagini.

Il suo è un desiderio d’essere nella notte del mondo e del tempo, sentendo che la sua è un’epoca segnata da un trapasso, quello ad uno spaventoso moderno, ma non riesce ad incarnarsi in questo suo tempo, non trova la misura del passaggio. Non può sperare di rivivere un’età d’oro nella creazione artistica. Se le «larve del mistero» sono «[…] immagini dell’arte che popolano spazi terreni e celesti come presenze reali», non è per mostrargli una bellezza scomparsa ma rinata e immortale in quelle statue e in quei dipinti, e per questo seducente e confortante, anche se illusoria. È invece per raccontarne la fine impietosa. Non c’è più nessuna verità che si elevi al di sopra del tempo, nessun mito serenamente rivissuto nelle forme imperiture dell’arte ma patito come eterna mancanza. E sperimentato, con tutti i sensi e nel sangue, nella sua assenza.

Perché il mito è una tensione fin troppo reale al passato, al barbaro, al primitivo, all’αλήθεια di sé. Le Muse non parlano e la sua è una memoria che non sa, un ricordo che non ricorda. Per ricordare bisognerebbe rinascere.
Ma la voce del poeta è muta. O urlante, prima di spegnersi nell’eco del dolore che si consuma solo. Senza più miti, senza ricordi, senza memoria. Solo la Poesia è possibile «nel panorama scheletrico del mondo», vissuta in qualche attimo di felicità, di riconciliazione con la natura «dolce e terribile», quando Campana sente «l’uomo nuovo nascere», scaldato dal «mistero della terra selvaggia e buona». È l’estasi di Santa Cecilia, che la musica ricongiunge al cielo, è la beatitudine di quella «sera d’amore di viola» in cui il poeta è trasportato in una realtà altra, come trasumanata, non reale ma più vera, fatta di fumi che s’incarnano nella «cariatide notturna di un incantevole cielo». Eppure la Poesia gli sembra imprendibile, morente nel momento stesso in cui nasce.

La raggiunge e quella si dilegua, la Chimera «giovine suora de la Gioconda». La fanciulla immobile ed eterna e sempre viva sulla tela si dilegua con la fine del sogno.
L’impressionismo di queste immagini barbaramente nascenti dalla terra coi suoi elementi primi, senza scomparire del tutto, diventa quindi urlo espressionista, sangue nell’impossibilità di attingere alle radici nascoste dell’esistenza. E il grido diventa vortice, vertigine di fuoco, immagine della notte che Campana riprende in particolare da due dipinti di Van Gogh, a metà fra impressionismo ed espressionismo per la sua visione deformata della realtà, allucinata, incandescente per quel suo mito di «rispecchiamento dell’uomo nella natura, percorsa dal travaglio di una vitalità inquietante»: Strada con cipressi e stelle e Notte stellata, dove il cielo appare rischiarato da un giallo intenso, picchiettato a forma di anello, cosparso di stelle che sembrano comete, infiniti occhi nel cielo notturno; e da quelle, in versi e versi si versa come sangue, ancora, un’altra notte, più nuova, più antica, se tornare alle origini significa ristabilire il paradiso perduto dell’arte e se ricominciare da esse manifesta la tensione a recuperare la verità scomparsa di una condizione primitiva, di un’età mitica dove poter finalmente nascere per la seconda volta, spogliati dai detriti accumulati che sotterrano, languente, la poesia.       
 

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