Partire dall’immagine, dal suo essere manifestazione visiva delle cose in sé, epifenomeno, affioramento. Lasciare indugiare lo sguardo, penetrarle, consultarle, quelle immagini, interrogarle (o lasciarsene interrogare) nel tentativo, direbbe Didi-Hubermann, di “vedere per sapere meglio”. E ancora: inabissarsi nella moltitudine infinita delle forme, farsi naufrago tra i flutti dei rimandi, delle corrispondenze, dei significa(n)ti, con l’occhio mai sazio.

Viene da pensare, guardando ad una ad una le opere del regista pugliese Francesco Dongiovanni (1 lungo, 4 mediometraggi, 4 corti e 1 videoclip), a quello che Antonioni, citando Wittgenstein, diceva sulla difficoltà di “vedere ciò che abbiamo davanti agli occhi”[1]. Se è vero, cioè, che il mondo è ciò che vediamo, è altrettanto vero che dobbiamo imparare a vederlo, come se non sapessimo nulla, come se dovessimo acquisire una nuova competenza che non è più soltanto sensoriale, percettiva, ma anche gnoseologica. Alla maniera di Piavoli, Dongiovanni comincia sempre con qualcosa di “prossimo”, qualcosa che già gli appartiene, che fa già parte del suo immaginario (il paesaggio pugliese e lucano, le masserie abbandonate, le architetture urbane, ma anche le immagini degli archivi, carte topografiche, documenti, litografie). Immagini che già possiedono, dunque, in virtù di questa introiezione consolidata, una stratificazione di significati molto personali che solo sostando con lo sguardo possono emergere nella loro componente analogica, misteriosa, fantasmatica; per tornare ad essere tempo, materia che si è fatta e disfatta, movimento. Cinema.

Captare sul piano visivo e sonoro le trame più nascoste dei nostri mondi, registrarle e riprodurle, consente di restituire al visibile la sua dimensione invisibile, far parlare – osserverebbe Merleau-Ponty – le «cose stesse dal fondo del loro silenzio»[2], lasciar filtrare, manifestare la sacralità aleggiante dietro il velo del reale, la sostanza del tempo che s’annida tra gli interstizi, nei vuoti, nelle fessure dello spazio.   

Del resto Antonioni parlava del (suo) cinema in questi termini: «[…] per un regista il problema è cogliere una realtà che si matura e si consuma, e proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, come nuova percezione. Non è suono: parola, rumore, musica. Non è immagine: paesaggio, atteggiamento, gesto. Ma un tutto indecomponibile steso in una sua durata che lo penetra e ne determina l’essenza stessa. Ecco che c’entra in gioco la dimensione del tempo, nella sua concezione più moderna»[3].

Non si tratta di nostalgia, di un’indagine che mira al ritorno ideale al passato – ritrovato e ricostruito attraverso il reperto audiovisivo, lo scandaglio, anche documentale – ma di una dialettica tra dimensioni, delle connessioni e relazioni che si stabiliscono tra visibile e invisibile, ma anche tra soggetto e oggetto della ripresa. Non stupisce, dunque, che Dongiovanni abbia tra i propri riferimenti autori come Straub-Huillet, Pelešjan, Erice, Sakurov, Ricci Lucchi e Gianikian.  

In Non si sazia l’occhio, ad esempio, il gioco di sponde tra tangibilità e astrazione, tra immanenza e trascendenza, è continuo. Il film si apre con una fotografia d’archivio della Prima Guerra Mondiale contemplata in differenti viraggi e da diversi punti di vista, da quello iper-ravvicinato che si smarrisce nel dettaglio, ad un altro obliquo, sbilenco, mosso, mobile. E di lì è tutto un susseguirsi di materiali, di visioni eterogenee: foto storiche di guerra provenienti dalla Library of Congress, un fotogramma di Lonesome di Pál Fejös, la tangenziale di Bari filmata dall’auto in corsa, sottopassi, campi di grano, architetture urbane, vetrine, forme geometriche che sfociano, nel finale, in sfocate sfere multicolore. Ecco allora il desiderio insaziabile di guardare e di ascoltare – cui rimanda il titolo, proveniente da un passaggio dell’Ecclesiaste (o Quoelet) – nell’unica formulazione possibile: quella rizomatica, acentrica e non gerarchica.  

Ma se vista dal versante “produttivo”, di genia delle immagini, la condizione è certamente quella del debordamento, dello straripare dei segni, della sovrabbondanza – alimentata dal loro accumularsi nella progressione del tempo e, più recentemente, dalla (ri)producibilità digitale –, dal punto di vista della fruizione, se si vuole evitare di annegare nell’ico-oceano contemporaneo, non si può che tentare di sistematizzare, di cogliere ricorrenze e persistenze, di trattenere, come novelli Aby Warburg (certamente un altro tra i riferimenti di Dongiovanni), ciò che non si può disperdere. 

In questo stato di nuda e profonda esposizione al polimorfismo, è naturale che chi si interroga sulle immagini, attorno alle immagini, maturi l’esigenza di comprendere l’origine della pulsione scopica, perché guardiamo e come o dove nasca l’immagine stessa (che è il tema centrale, esplicitato, del cortometraggio del 2016 Studio, in cui l’interrogativo investe l’immagine pittorica, l’atto generativo-creativo dell’amico Pierluca Cetera osservato all’opera nel suo atelier).

Da questo punto di vista il successivo The Riddle (2017) è particolarmente esplicativo perché mette in relazione arte e scienza (i due grandi bacini di raccolta, analisi e produzione di forme), artista ed esploratore della conoscenza, le anatomie e le strutture con le leggi chimiche e biologiche che le determinano. L’universo, il visibile – ci dice Dongiovanni, rifacendosi a Haeckel – è un indovinello, uno spazio da sondare con occhi magnetici e menti fibrillanti, da perlustrare, rilevare, perforare, alla ricerca di qualcosa. E la sonda non può essere che il cinema, massimo dispositivo di scandaglio del sensibile, batiscafo dello spirito estetico, dello sguardo dell’uomo verso i meandri del creato.  

Creato che per il regista pugliese è il regno di un dualismo – quello tra uomo e natura – che attraversa in filigrana gran parte delle sue opere, dal suo esordio del 2011 con Densamente spopolata è la felicità (dove la riappropriazione estetica e fisica, perlustrativa, dell’altopiano della Murgia rappresenta per l’autore un vero e proprio ritorno alla casa del padre) al suo ultimo lavoro, ovvero La Vipera, la Donna e il Campo (2022), omaggio al Pavese di Feria d’agosto, tra gli autori certamente più dediti alla riflessione, vissuta e sofferta, sulla contrapposizione tra natura e civiltà, città e campagna.

Anche qui Dongiovanni parte da qualcosa che sente familiare, intimo, essendo legato a Pavese da una passione personale emersa negli anni giovanili e culminata poi in una tesi di laurea a lui dedicata. E lavorando con la voce, sulla voce, dell’attore Salvatore Marci, cerca di sostanziare la musicalità poetica che caratterizza la prosa dello scrittore piemontese, abbinandovi, sul piano visivo, una segmentazione data dalle aperture paesaggistiche consegnate allo spettatore: un fiume sul Pollino, una spiaggia del tarantino, le colline tra Puglia e Basilicata. “Luoghi suoi” – si direbbe, se si vuole rimanere su Pavese, parafrasandolo – al posto delle campagne langarole dove sconfinava peregrinando il poeta; perché ad importare non è il riferimento geografico, ma la corrispondenza sentimentale, il comune rapporto emotivo con i propri luoghi dell’anima.

La ricerca è, come sempre, un frugare tra i segni per attestare presenze (di se stessi, del mondo, di se stessi nel mondo, del mondo in se stessi), a partire dalle tracce, dai fantasmi e dalle permanenze (spesso ectoplasmatiche, filamentose, ialine), di cose che si trovano a cavallo tra dimensioni e regni differenti (temporali, esistenziali, linguistici) o che sono già passate oltre la soglia (della vita, del tempo, del visibile). Ombre, resti, prove di qualcosa che è stato e che può manifestarsi nuovamente attraverso lo sguardo potenziato del cinema, (ma anche dal cinema), che registra e riproduce la trama del mondo in cui siamo immersi, compresi i suoi vuoti. 

Il pastore di Densamente spopolata è la felicità; i volti, le strade, le case, la vita contadina che rivivono nei Super8 di Elegie dall'inizio del mondo - Uomini e alberi; le foto di archivio di Giano; la masseria sventrata di Anapeson.

Tutto riacquista visibilità, tangibilità, illuminato, com’è, nell’oscurità in cui giace dimenticato e abbandonato, dal fascio luminoso del cinema. Non perché debba configurarsi in un museo nostalgico di reviviscenze, un’Arcadia mitica senza conflitti e senza disfacimenti a cui anelare, né piuttosto per accusare la modernità di aver calpestato e cancellato l’armonia di quel tempo antico, ma perché nello specchio dell’immagine, del racconto, si possa ritrovare un riflesso, un sussulto di ciò che (ci) manca davvero, di ciò che ci fa fibra dell’universo. Ritrovando, anche solo per un attimo, l’unità nei fiumi del divenire.  

[1] Michelangelo Antonioni, Fare un film è per me vivere: scritti sul cinema, a cura di C. di Carlo e G. Tinazzi, Venezia: Marsilio, 2011, p. 205.

[2] Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano: Bompiani, 1999, p.32.

[3] M. Antonioni, Il «fatto» e l’immagine in Fare un film è per me vivere, cit. p. 50.

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