altL’umanità che incontra nei suoi documentari ha sempre un desiderio. Quello di uno spazio da inseguire, da cercare; è la domanda a un mondo a cui non si appartiene. Liberami, viaggio nei riti d’esorcismo in Sicilia, lavoro che ha avuto un percorso molto lungo – tre anni – di gestazione e sviluppo, è approdato alla “Mostra di Venezia” 2016 e ha vinto il premio per il Miglior Film nella sezione “Orizzonti”. Per Federica di Giacomo l’opera sicuramente più difficile e radicale, la nuova tappa di un percorso cinematografico già segnato da Il lato grottesco della vita (2006) e Housing (2009).


Le due guide turistiche abusive ne Il lato grottesco della vita; gli inquilini delle case popolari in Housing; i posseduti e i preti di Liberami. Partirei da questo: trovo che nei tuoi tre documentari, per quanto diversi, di umanità ai margini, vi sia sempre un senso del comico, che non è irrisione dei personaggi ma qualcosa di assai diverso e più profondo.

Sì, o forse è un senso tragicomico, ma sono proprio i personaggi a possedere questo sentimento. Perché quando si è “ultimi”, come sono loro, quando l’esterno è ostile, si trova sempre una propria interpretazione della realtà che è, poi, resistenza. Nel loro lottare contro il mondo, questa resistenza si esplicita in una forma molto particolare di creatività, di intelligenza. E comunque è vero che un tempo comico lo sento in me, ma credo che arrivi da un altrove, dalla mia esperienza nel teatro-danza, perché lì c’è un livello del surreale, di astrazione, che a mio avviso dialoga molto con il comico.

E al cinema come ci sei arrivata?

Ho studiato Antropologia, e dopo la laurea ho proseguito con il percorso accademico, ma mi sono accorta, col tempo, che una relazione che sentivo troppo teorica con la realtà mi stava un po’ stretta, e così quel capitolo si è concluso. Come dicevo prima, gli studi e le performance di teatro-danza in Nord Europa sono stati fondamentali, poi ho scoperto il mondo del documentario di creazione grazie a un master a Barcellona; lì ho avuto la fortuna di studiare con Wiseman e altri grandi maestri. Mi sono innamorata della libertà del documentario, una libertà molte volte irraggiungibile nella macchinosità del cinema di pura fiction.

Ma nella libertà del documentario c’è anche la finzione…

Sì, ma i margini e i gradi tra il reale e la finzione lì sono infiniti: per costruire un lavoro narrativo o non narrativo, per fare qualcosa che sia trainato dai personaggi e così via. L’importante è che ci sia una verità, che non deve essere meramente formale; si può raccontare con tanti mezzi, in tanti modi, anche all’interno dello stesso film; e diventa un modo di sperimentare e di ragionare criticamente sulle immagini, opponendosi, così, all’ondata incessante di immagini e di narrazioni filtrate che ci travolge tutti. Trovo che proprio il documentario stia portando avanti un discorso sulla rappresentazione che, invece, nel cinema di fiction si è un po’ annacquato.

Nel tuo cinema come ragioni su questo discorso?

È qualcosa di molto personale: è ovvio che, nel documentario, sede naturale della “costruzione” è il montaggio, ma c’è un “prima” che a me interessa molto ed è quello della scrittura. Direi che è lì che io guardo la realtà, in un modo molto preciso, anzi parlerei proprio di un gusto preciso, che è quello tra il reale e una sorta di fantastico. E allora succede che mi capita di aspettare anche parecchio tempo per girare una scena che mi interessa. Tendo prima a immaginarla, ma altre volte l’ho già vista e attendo che ritorni, la cerco, sono momenti in cui il reale si fa astratto, scene che mi interessano di più rispetto a momenti magari più comunicativi e informativi. Quando frequenti una realtà per molto tempo, ci sono diverse cose che intravedi, e allora la tua scrittura già riflette quella realtà. I momenti più magici sono quelli che incarnano tanti piani che hai visto: dimensioni conflittuali ed evoluzioni convergono lì, come ad esempio nella scena dell’esorcismo al telefono in Liberami: rendono una scena semplicissima così forte.

Cosa si poteva filmare e, ancora più, cosa no in Liberami? E non mi riferisco solo a divieti esterni, ma soprattutto a ciò che per te, politicamente, non poteva essere filmato.

Anche ciò che è filmabile o no è una questione molto personale, che riguarda la propria posizione morale, politica, sì. Durante le riprese di Liberami ci sono stati momenti di debolezza interiore di alcuni personaggi che riguardavano dinamiche molto private e non avevano a che fare con il centro del film. Qualcosa che poteva diventare pornografico. Rappresentare il dolore per me è molto difficile: e se diventi piatto e retorico, se rimani troppo esterno e non sviluppi il dubbio, sei pornografico. Per me è importante che chi guarda il film possa entrare in empatia con coloro che sono ripresi. Mi sono accorta, ad esempio, che alcune scene a macchina fissa che avevamo girato facevano di quelle persone degli animali da circo. Per me in Liberami, dove ci sono molte scene collettive, era fondamentale cercare un equilibrio tra dimensione sociale e dimensione emotiva. Ovviamente ci sono dei momenti in cui non si vuol essere ripresi, ed è un altro discorso, ma direi che la questione non è tanto tra il filmabile e l’infilmabile a priori, perché è dopo, quando torni a quelle immagini, quando devi decidere, che te ne rendi conto.

È successo qualcosa di analogo, sebbene – immagino – di meno “estremo”, anche con i tuoi film precedenti?

Be’, penso per esempio a Housing, certamente su un piano diverso e tuttavia simile. Lì il tema era quello della casa e delle occupazioni: da una parte, chi non usciva di casa per la paura di ritrovarsela occupata e, dall’altra, gli abusivi. Abusivi che la televisione e i media avevano però già abbondantemente raccontato, qualcosa che nell’immaginario collettivo si era sedimentato. Alla fine siamo rimasti sulla “prigionia” di chi si barricava in casa. E non solo per evitare il rischio di banalizzare il tutto, ma perché in realtà abbiamo conosciuto gli occupanti, le loro famiglie, abbiamo girato scene con loro e si trattava di storie bellissime. Si era venuto a creare un processo meraviglioso, ma abbiamo capito che inserire gli occupanti nel film significava rischiare di creare una dicotomia, una contrapposizione tra “buoni” e “cattivi” che non ci interessava e che trovavamo falsa. Se in Liberami, invece, non avessimo mostrato gli esorcismi, ovviamente con tutti i paletti che ci siamo imposti, avremmo fatto torto all’urgenza di raccontare qualcosa che non era ancora stata mostrata: un fenomeno e un disagio, un aumento crescente di richieste di esorcismo, che negli ultimi anni si sono molto diffuse, e non solo in Italia, non solo al Sud.

Le possessioni di Liberami, dopo le ossessioni di Housing. Trovo ci sia una continuità tra i due film, sottile ma palpabile.

Sì, e ci sono in particolare due personaggi, Enrico in Liberami, Giuseppe in Housing, che ti portano fuori da quell’ossessione, ti aprono alla vita. Enrico ti porta al flusso esterno e non ti lascia soltanto a quello interno di coscienza. Giuseppe deve restare in casa e invece esce: e nei chilometri che separano il posto in cui lavora da casa sua, respiri un senso di libertà. Lo spettatore entra in empatia con questi personaggi.

Come le trovi le tue storie, queste marginalità?

Le ho sempre trovate un po’ per caso. Capito a Matera da turista e nasce la storia del Lato grottesco della vita; vado a Bari per un festival, conosco Antonella Gaeta e ci mettiamo a scrivere Housing; per un periodo vivo in Sicilia e, in rete, mi imbatto in un corso di formazione per esorcismi. Ho conosciuto padre Carmelo, ho assistito ai primi riti. Inizialmente c’era senz’altro anche paura, si trattava di un universo lontano da me, ma che ho pian piano trovato molto fertile, perché rappresentava una sintesi di cose che mi interessavano e che mi interessano: le strategie di sopravvivenza al disagio, alla solitudine, al dolore di coloro che partecipano a queste messe di liberazione. Per chi fa documentari, spesso è difficile trovare un accesso all’idea che si ha, e non solo per questioni economiche. E se non trovi l’accesso, non puoi fare nulla, devi rinunciare. Qui sono riuscita a trovarlo.

Padre Cataldo, invece, come lo hai conosciuto?

Padre Cataldo mi era stato segnalato tra i preti esorcisti più seguiti, sono andata da sola a Palermo e ho seguito una sua cerimonia. È un momento in cui si intersecano vari livelli, e anche tu che sei lì, pur non essendo come gli altri “dentro” la messa, hai momenti in cui credi, in cui prendi distanza. Ma ci sono momenti in cui anche i posseduti si distanziano. E questo aspetto mi interessava tantissimo, una dinamica che per me era una sfida: questo passaggio dei posseduti dalla dissociazione alla “normalità” e viceversa. Il nucleo del film è la quotidianità dell’esorcismo, sul piano sociale e intimo, e cercare di rappresentare questo continuo saliscendi emotivo è stato difficile, al montaggio è stata dura. La scena iniziale della messa contiene, in realtà, momenti di dieci messe.

I tuoi personaggi lo hanno poi visto il film?

Sì, e le loro reazioni sono state molto buone, nessuno di loro si è sentito tradito: padre Carmelo e padre Cataldo si sono riconosciuti, gli altri protagonisti si sono emozionati. Per me è essenziale che da parte loro non ci sia stata una ricezione drammatica: erano protagonisti ma anche spettatori delle messe, le vedevano. Per loro era un’esperienza quotidiana. Tra l’altro, durante la lavorazione, mostravamo ciò che era stato girato, e questo è stato importante.

Cosa hanno secondo te i posseduti di Liberami? Cosa avviene?

È una risposta impossibile da dare. Posso avere delle impressioni, ma non posso restituire la verità del disagio altrui. Ho voluto tenere il film il più aperto possibile. Semplificare con i propri parametri un disagio degli altri, liquidarlo con categorie psicologiche o altre etichette, sarebbe superficiale e sbagliato. Avvicinarsi a quel dolore e viverlo in prima persona non sono la stessa cosa.


Filmografia di Federica di Giacomo

Liberami (2016)
Il lato grottesco della vita (2006)
Housing (2009)