Diego Mondella

«La verità è indivisibile, non può dunque conoscere se stessa;
chi vuole conoscerla deve essere menzogna».
(F. Kafka)

Che cos'è più inquietante, lo sguardo fuoricampo del giovane Ryan nel finale di The Canyons o quello rivolto in macchina dall'algida Rosamund Pike in Gone Girl? Ci verrebbe da dire entrambi. Il primo è perso nel vuoto più assoluto, mentre il secondo pur conscio della sua seducente fissità di maschera nasconde il nulla. Perché il soggetto di quello sguardo non prova nulla. Ambedue queste immagini rappresentano la spia di un disagio della nostra contemporaneità, di un individualismo malato, smarrito nelle pieghe della crisi economica tra violente nevrosi e stati di anestesia. Si è disposti a tutto pur di difendere il proprio status. Non c'è amore o passione che tenga di fronte alla conservazione di un (falso) equilibrio esteriore. Da ostentare, da vendere. Da simulare.


La vita matrimoniale di Amy e Nick Dunne non è altro che una nuvola di zucchero a velo (come quella appunto del loro primo appuntamento), un legame edificato sull'effimero. La promessa di fedeltà tramonta ben presto, disarcionata sotto i colpi dell'Ego sfrontato e auto-celebrantesi. Menzogna, calcolo e manipolazione si insinuano lentamente come crepe nei muri della loro casa in Missouri. Freddo e patinato spazio borghese di gente famosa al pari delle ville losangeline di The Canyons e Maps to the Stars, prigione di opulente solitudini, nonché teatro di reiterate messe in scena.

I coniugi Dunne sono attori della propria vita almeno quanto lo erano Truman e Meryl Burbank nel film di Weir, con la differenza, però, che ne sono entrambi consapevoli, in quanto loro stessi sono i creatori del mondo artificiale in cui si muovono. Ognuno calato perfettamente nella sua parte: Nick, mediocre ragazzotto di provincia con velleità artistiche, bugiardo e traditore; Amy, ricca, colta ed arrogante scrittrice di successo. La donna arriva a sovrapporsi completamente col personaggio dei suoi best-seller: lei è “L'Incredibile Amy”.
Le sue straordinarie quanto diaboliche capacità ne fanno una figura demiurgica: è in grado di recitare, di scrivere, dal momento che è anche autrice di un diario e, infine, di esporre la sua versione dei fatti partendo proprio dalle pagine da lei scritte (è sua la voce off, mentre l'omonimo romanzo di Gillian Flynn è a due voci). Le memorie di questa moglie “insoddisfatta” e “umiliata” costituiscono uno dei tre livelli di narrazione di Gone Girl assieme al racconto per flashback e al percorso delle indagini investigative, ennesima incursione fincheriana nel detection drama dopo Seven, Zodiac e Millennium.

Il diario è a tutti gli effetti una storia, un copione con tanto di “finale perfetto”: «Quest'uomo potrebbe uccidermi» - dice lei. Un testo di raggelante fattura, da decodificare all'interno di un macrotesto filmico prismatico e ingannevole. Dove ogni faccia nega quella precedente, ogni evidenza si sfrange in mille rivoli e la raccolta degli indizi diventa una sofisticata caccia al tesoro parallela all'inchiesta della polizia. Amy Dunne è ufficialmente scomparsa il giorno del quinto anniversario del suo matrimonio e questa è la “verità da protocollo”, quella che fa comodo a tutti raccontare da trent'anni a questa parte e cioè da quando i network televisivi plasmano e omologano la realtà a loro uso e consumo.

La pratica mediatica di crocifiggere il marito e di venderlo all'opinione pubblica come l'indiscusso assassino, sappiamo che ormai è un meccanismo psicologico automatico e “rassicurante”. Troppo rassicurante appunto per non essere smascherato da David Fincher. Noi, ridotti a un popolo di ingordi masticatori di cronaca nera familiare, ad ogni ora del giorno e della notte, avremmo subito gridato al femminicidio. Del resto, chi potrebbe mai immaginarsi la presunta vittima che si auto-dissangua nella cucina della propria casa per poi pulire accuratamente le tracce sapendo che verranno scoperte dalla scientifica. O ancora, che si provoca ferite ed ematomi vari e, addirittura, una finta gravidanza (!). Tutto questo allo scopo di far incriminare il coniuge di omicidio.

La messa in scena congegnata dalla “stratega del crimine” Rosamund Pike (una sorta di clone di Lisbeth Salander di Uomini che odiano le donne) è a dir poco spiazzante tale è la perizia chirurgica con la quale viene montata. La mente umana con tutte le sue circonvoluzioni palesa la sua natura di insondabile mistero. Deflagra e arriva a sovvertire il susseguirsi degli eventi con modalità narrative simili a quelle di Effetti collaterali (altro scivolamento nella gelida follia di Rooney Mara), pur senza lo stato di alterazione da psicofarmaci.

In questo flashback di hitchcockiana memoria (Paura in palcoscenico) le immagini sembrerebbero mentire ma, in realtà, svelano la menzogna su cui è fondato l'intero racconto. Cinque minuti circa di premeditato autolesionismo, messo in atto - come si legge nel diario di Amy - in nome della sofferenza che hanno subìto tutte quelle mogli maltrattate dai propri partner. E sì perché nella sceneggiatura si adombra anche l'aspetto della violenza domestica. Un'allusione che emerge da un episodio del passato e che rappresenta l'ennesimo segno di ambiguità della vicenda. Non un dato oggettivo però, quanto piuttosto l'effetto di manipolazione da parte di una personalità insana, capace di affabulare persino gli investigatori.

La vendetta programmata ai danni del marito (che non può compiersi senza il sacrificio estremo del suicidio, poi rimandato “per cause di forza maggiore”), prevede la costruzione di un'altra esistenza, dimessa e riservata. Invisibile. È in questo limbo temporale che Amy Dunne afferma la sua nuova identità di fantasma. Anche lei, a modo suo, è chiamata ad interpretare un doppio ruolo come le sue “colleghe” Laurel Graham (Road to Nowhere), Havana Segrand (Maps to the Stars), Maria Enders (Sils Maria) - tanto per citare recenti esempi di donne che vivono due volte nel corso della stessa vita filmica.

Da Hellman a Schrader, da Cronenberg ad Assayas, il cinema si interroga sul proprio stato terminale portando sullo schermo corpi impalpabili, ombre, morti che camminano. E ancora: immagini autoreferenziali, ruoli passati e ruoli possibili, film in lavorazione che forse non vedranno mai la luce. Se gli anni Novanta si aprivano con la domanda “Chi ha ucciso Laura Palmer?”, oggi bisognerebbe piuttosto chiedersi “Chi ha ucciso la realtà?”. Le misteriose e visionarie immagini lynchane sembrano essere evaporate, e assieme ad esse un intero immaginario incapace di rigenerarsi. Ogni fotogramma di Gone Girl sta lì a ricordarci l'impossibilità del reale, la sua precarietà, il suo disintegrarsi a favore di un perverso gioco di ribaltamento dei fenomeni. La cronistoria di questo falso caso di scomparsa finisce in un cortocircuito, risucchiandoci in un regime di finzione totalizzante.

Dopo aver sgozzato il suo ex fidanzato con un rasoio (seconda messa in scena), Amy torna a casa indossando la camicia da notte ancora imbrattata di sangue stile Carrie; sulla porta di ingresso abbraccia Nick quasi svenendo. Non siamo finiti di colpo in un mélo anni '50, eppure la percezione che abbiamo è proprio quella, tanto è inverosimile la sequenza. E quando più tardi marito e moglie salutano reporter e fotografi davanti alla porta di casa, per suggellare il ritrovato feeling, sembrano simulare l'omonima scena che vede protagonisti i coniugi di The Truman Show. La stessa frontalità da sit-com la ritroviamo nell'episodio in cui lei prepara la colazione accanto al proprio gatto: un quadretto familiare idilliaco, visivamente confezionato come una pubblicità di cornflakes.

Tra sguardi inespressivi, senza amore, e felicità di zucchero a velo, Fincher continua in maniera molto personale il discorso sulla morte del cinema di desiderio, quello che ha il potere di evocare. Nella nostra società ipermediale, il proliferare degli schermi e delle immagini e il loro consumo bulimico non consentono più di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Che si tratti di un'intervista televisiva, della registrazione di una telecamera di sorveglianza oppure di un selfie, oggi non c'è modo di scampare all'estetica del fake.


Bibliografia

J. Baudrillard (1996): Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina Editore, Milano.

E. Rohmer-C. Chabrol (2002): Hitchcock, Marsilio, Venezia.


Filmografia

Carrie - Lo sguardo di Satana (Carrie) (Brian De Palma 1976)

Effetti collaterali (Side Effects) (Steven Soderbergh 2013)

I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks) (David Lynch 1990-1991)

Maps to the Stars (David Cronenberg 2014)

Millennium. Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo) (David Fincher 2011)

Paura in palcoscenico (Stage Fright) (Alfred Hitchcock 1950)

Road to Nowhere (Monte Hellman 2010)

Seven (David Fincher 1995)

Sils Maria (Clouds of Sils Maria) (Olivier Assayas 2014)

The Canyons (Paul Schrader 2013)

The Truman Show (Peter Weir 1998)

Zodiac (David Fincher 2007)