La-leggenda-di-Kaspar-Hauser-300x184Nessuno mette in discussione, se il contatto è avvenuto – e non è facile, perché film di godimento "francescano" come Girotondo e Beket sono stati nascosti agli sguardi indiscreti dal nostro submercato e dalle nostre istituzioni culturali pubbliche – la prepotenza visuale, la "superbia" espressiva, lo charme magnetico, e lo stile saturo fino a esplodere dei film in bianco, nero & grigio di Davide Manuli.


Storie affascinanti e incantate, perché abili nel mettere in moto un differente processo spirituale, nel traghettarci e deviarci dall'opulenza rassicurante dell'imitazione della vita (complice questa volta un cast mozzafiato: Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Claudia Gerini, Elisa Sednaoui, Marco Lampis e Fabrizio Gifuni per il quale ha scritto il «Monologo del Prete» Giuseppe Genna che per Manuli è «il più grande scrittore vivente in Italia») al denudato, allo stilizzato, allo scarnificato, come nella basilica bizantina quando tutti gli sguardi cullati dall'ampia spazialità e dagli ori si ghiacciano d'un tratto scontrandosi con gli occhi dell'icona...

Vincono le ossessioni, insomma, dello stile trascendentale nel senso che dava Paul Schrader a questo concetto: quello capace di trasportare lo spettatore dall'abbondanza alla rarefazione, dal familiare verso una dimensione aliena che si sbarazza dell'effetto di realtà. Ciò che distingue una sequenza di Manuli (o di Bene, Dreyer, Ozu, Godard, Bresson, Ciprì & Maresco...) da un solo "frame" di Virzì o Lars Von Trier o Emmerich è infatti che in questi ultimi casi, comico-satirico o tragico o iperspettacolare non conta, pur essendo il cinema riuscito a traghettare ogni altra arte nel XX secolo, il loro (e la maggior parte del cinema di qualità commerciale o d'autore) è rimasto tristemente legato al XIX secolo, alla brama di verosimiglianza, a una narrativa inutilmente realista, sia del sensibile che dell'interiorità, dell'azione come dell'affabulazione, tutta però fatta solo di mezzi temporali "ricchi", come avrebbe detto Jacques Maritain.

Questo misterioso e esoterico Kaspar Hauser (appare la "nuda vita", e per la civiltà è insostenibile, la rimuove, la cancella, la imprigiona, la rimodella o ributta in mare, come si fa con gli extracomunitari) che Manuli presenta in prima mondiale in questi giorni a Rotterdam rischia di diventare la punta più avanzata di questo processo di depurazione stilistica, un moltiplicatore di movimenti emotivi per lo spettatore, quando l'immagine si ferma, e di discesa nelle profondità subumane quando la cinepresa di Manuli ha il coraggio di sollevarsi e di inquadrare il cielo, in porzione esagerata. «Prendo molto dal subconscio e dall'etere che ci circonda, l'analisi del mio lavoro non lo faccio, in parte, neanche durante il processo creativo» ci confessa. «Due artisti mi somigliano. Genet, che uscito di prigione anche grazie a un saggio di Sartre, voleva accoltellarlo per averlo analizzato a sua insaputa e inultilmente, e De Niro, genio mondiale dei nostri tempi, definito da tutti quelli che provano a intervistarlo "tonto spaesato e sempliciotto", perché non trova mai le parole adeguate al suo genio».


Articolo tratto da «Alias» del 28 gennaio 2012.