Rivista

Grazia Paganelli

Analizzando i film di Hong Sang-soo ci si rende presto conto che il suo sguardo si sofferma ad interrogarsi sempre sulla relazione che esiste tra il cinema e l’impossibile comunicazione tra uomo e donna. Sta in questo nodo la maggior parte del suo lavoro, e ad ogni film ci si accorge di una sensazione diversa, di un sentimento, di una percezione nuova, scoperchiata e ammirata come farebbe un entomologo, consapevole ad ogni film che sia immensa la gamma di scoperte ancora da fare.

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Massimo Causo

Resta sempre forte l'idea del contrasto - placido, acquisito come sostanziale - tra l'opposizione e la coincidenza nel gioco di ruoli che il cinema di Hong Sang-soo costruisce in scena. L'occlusione dello spazio rappresentativo in luoghi (interni o en plain air essi siano, poco importa) che contengono simbolicamente la divergenza tra l'essere e l'aspirazione esistenziale, il desiderare, il rimpiangere, l'aspettare... Ecco questa occlusione è la traccia che definisce in maniera inequivocabile il dramma ovviamente trasparente cui si affidano, nella loro leggerezza e nella loro gravità, i personaggi di questo autore.

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Abigail Child

We want what is needed

Constructively re-socializing the material

   Connect the knots1Charles Bernstein, in recent essay


I’m going to talk about work since 2001. That’s when I got into digital editing my films. Behind me is a power point with Trios from DARK DARK, the first sound track I edited digitally.

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Adrian Martin

In Abigail Child’s diverse and prodigious artistic career, Mayhem (1987) represents one, very specific type of exploration. Coming at the spectator like a violent cut-up, it mixes her filmed images from New York’s Lower Eastside in 1985 and 1986 with various old movie samples, plus a soundtrack comprised of audio fragments (also sampled) alternated with improvisations from a gang including Christian Marclay and Shelley Hirsch. It has the rawness and insider-vibe of an “art school confidential” exercise in mimickry and playful subversion – but taken all the way, an over-fifteen minute montage sequence that rarely eases off in its blistering intensity.

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Colin Beckett

 A person is transformed into an icon by a kind of violent, flattening rupture. Emma Goldman has been made into such an icon many times over. During her lifetime, it was as “the most dangerous woman in America,” posthumously as perhaps the most famous anarchist in Anglophone history — for most, however, as the name attached to a likely apocryphal quotation. Onscreen, she has been the subject of stodgy PBS documentary,and a bit player in a handful of others She was portrayed most famously in Warren Beatty’s Reds, as a kind of earthy (and fully Americanized) matron.

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Michael Sicinski

Abigail Child made two films for a series she called “How the World Works.” These films, Surface Noise (2000) and Dark Dark (2001), are among her most advanced, although they have not been discussed as much as they should be. Formally, they have a fair amount in common with her seven-film series from the eighties, Is This What You Were Born For? In fact, one suspects that Child may have originally been embarking on a new series of some expansiveness. I want to consider these two films individually, as a pair, and in light of Child’s other work.

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Giulio Vicinelli

Häxan, che in italiano diventa La Strega, conosciuto anche come La Stregoneria Attraverso I Secoli, è un film girato tra il 1918 e il ʻ21 da Benjamin Christensen, genio “minore” dell'avanguardistico cinema danese del primo ventennio dello scorso secolo, il cui rifulgere è sempre stato tenuto parzialmente in ombra dall’abbagliante astro di Dreyer.

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Mariangela Sansone

Un palindromo è come un’immagine allo specchio, che ritorna uguale e diversa, a tratti deformata, riflesso di un’identità che deborda oltre la matericità corporea per sconfinare il limite ultimo, ma anche simulacro di una frammentazione ontologica. La visione cerca di assumere una sua forma, una consistenza che rimane un mistero velato tra il visibile e l’invisibile. Elle, arcano palindromo declinato al femminile, in bilico tra ciò che è e ciò che si vorrebbe essere, in una duplicità destinata a rimanere distinta, senza possibilità di riconciliazione, dove la realtà è una (s)composizione cubista smarrita in una vertigine.

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Mariangela Sansone

«Davanti alla realtà, l'immaginazione indietreggia, mentre l'attenzione la penetra»
Cristina Campo

Tra il respiro del vento e il frinire delle cicale, il buio, lentamente, si accende della luce del giorno. Silenziose presenze fantasmiche rimangono avvolte dalle tenebre. La staticità di un’immagine bidimensionale e immobile incornicia attimi di una realtà che attende di divenire altro, di mutarsi e acquisire movimento uscendo dalla fissità.

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Raffaele Cavalluzzi

Il sottotitolo di questo libro di teoria e critica militante di A. O. Scott, giornalista e capo della sezione di critica cinematografica del “New York Times”, recita così: «Imparare a comprendere l’arte, riconoscere la bellezza e sopravvivere al mondo contemporaneo». Allora, è senz’altro riconoscere la bellezza il tema più difficile che qui è affrontato.

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Marika Consoli

Il “luogo” nel quale si compie la dialettica delle idee di cui scrive Astruc, teorizzando il superamento della dicotomia tra regista e sceneggiatore nel manifesto Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo pubblicato nel 1948 sull’Ècran Français, la scrittura cinematografica nel suo carattere soggettivo, autoriale è il cinema di Jean Pierre Melville nella fase culminante di Le deuxième souffle (1966): Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide di Jean Pierre Melville di Alessandro Baratti – dal 2004 redattore della rivista di critica cinematografica on line “Gli Spietati”, oltre che autore per altre riviste di cinema –  conduce un’analisi puntuale del film, che è la trasposizione dibattuta del romanzo di José Giovanni, pubblicato otto anni prima nella “Série noire”, dedicata al genere noir/poliziesco all’interno della collana Gallimard.

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Luigi Abiusi

Sempre un occhio all'economia, in questo caso della scrittura, della critica, nell'unica accezione positiva che mi viene in mente: in quanto riconoscimento, nelle opere, dei prismi essenziali di senso, nel loro andirivieni sfolgorante, che rende il mondo buono e giusto malgrado tutto. Sguardo sui bilanci, ora che ci si pone nell'ottica dell'ottavo anno e ci si mette in condizione di rilancio, ravvio di una militanza, di un entusiasmo sorto all'epoca innanzitutto ad uso personale.

Matteo Marelli


alt16 anni e sette mesi. È a questa età che Rimbaud scrive la Lettera del Veggente. Era indirizzata a Paul Demeny con l'intento di offrirgli «un’ora di letteratura nuova». Nel bel mezzo dell'età «delle speranze e delle chimere», all’apice della sua rabbia di adolescente ribelle, Rimbaud scrive il primo vero manifesto di una nuova letteratura d’avanguardia.

Giulio Vicinelli


A proposito di Les garçons sauvages, forse unico genuino caso cinematografico di quest'ultimo Festival di Venezia, molto si è già scritto e detto, e per questo eviterò di intonare l'ennesima litania felice sulla finezza meta-filmica di questo testo che ibrida la narrazione avventurosa sui viaggi verso l'ignoto e le isole misteriose alla vertigine tsukamotiana di un visivo difforme e mutante.
Non dirò della bellezza fantasmatica delle evocazioni di Vigo e Genette, Fassbinder e Wakamatsu e della vertigine impudica e sessuale (Borowczyk docet) che ne solcano l'esoscheletro in trasparenza, né del lirismo onirico di questo film. Al riguardo, semmai, si leggano i contributi di Mariangela Sansone e Michele Sardone che colgono in maniera certamente più visionaria (Sardone) e meticolosamente circostanziata (Sansone) il senso e il valore di questo ibrido filmico di quanto non avrei saputo fare io.

Mariangela Sansone


«Sono quasi 50 anni che, al buio, il popolo delle sale brucia l'immaginario per riscaldare il reale. Ora quest'ultimo si vendica e vuole vere lacrime. E vero sangue.» (Godard 1988-1998). Un’immersione nel reale, così come riportato sullo schermo, e al contempo un’astrazione da esso. Partire dalla realtà, da quelle storie che raccontano le sfaccettature del quotidiano, poi lievemente lasciare che l’occhio si perda nei meandri dell’immaginifico, tracciando una mappatura del territorio onirico. E smarrirsi è dolce. Forse per ritrovarsi.

Luigi Abiusi

Nel calvario, stillicidio di icone, incarnazioni rudi, ma anche, allo stesso tempo, sotteso, meccanico dispositivo di godimento, di sfogo a occhi spalancati, svuotati, che è il cinema di Schrader, First Reformed appare, anche nella sua nettezza, trasparenza dell'assunto, uno dei punti più alti raggiunti dal cinema contemporaneo, nella misura in cui a un'estetica della scarnificazione, del rigore, della sottrazione di materiale cinematografico si affianca un discorso lucido e disperato sullo stare al mondo in epoca di dissipazione delle concrete possibilità d'esserci.

Alessandro Cappabianca


I colori del noir.

The Canyons

Immagini di sale cinematografiche in rovina, come tanti cadaveri insepolti lasciati a marcire sulle strade, residui di un'apocalisse già avvenuta. Una pestilenza, un contagio, un terribile virus, ha colpito l'immaginario e distrutto i luoghi deputati al suo esercizio, dopo aver distrutto le anime di coloro che ne usufruivano. Se usiamo il termine "anime", trattandosi d'un film di Paul Schrader, ci riferiamo, sì, alla stesura di un testo come Trascendental style in film (1972), ma non intendiamo certo dimenticare il fatto che, nel suo cinema, la rovina delle anime si manifesta sempre tramite il degrado dei corpi, però non in senso moralistico: tanto da lasciar pensare che il corpo stesso sia l'anima.

Anton Giulio Mancino


«La profonda convinzione della mia vita consiste nel credere ora che la solitudine, lungi dall'essere un fenomeno raro e curioso, sia l'evento centrale e inevitabile dell'esistenza umana»
(Thomas Wolfe, God's Lonely Man)



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Pietro Masciullo

Non più stile trascendentale ma dispositivo di trascendenza? Questa è la prima riflessione che mi viene in mente a quattro mesi di distanza dalla totalizzante esperienza di First Reformed visto a Venezia 74. Proprio nell’anno in cui le piattaforme S-VOD raggiungono la loro massima pervasività sociale, con le polemiche cannensi su Netflix che ci chiedono nuovamente «che cosa è il cinema?» e con la Realtà virtuale veneziana che bussa alle porte del Lido mettendo fuori campo ogni grande schermo. Tutto sacrosanto, tutto urgente, sì ma… quella proiezione rimane l’apice dell’esperienza estetica del (mio) 2017. Perché?

Mariangela Sansone


alt«Tu ami veramente il cinema? Dico sul serio. Quando sei stata al cinema l’ultima volta? Quando hai visto qualcosa che ti ha colpito profondamente?»



Giovanni Festa

«La vita umana è breve.
Io però vorrei vivere per sempre».
(Ultimo messaggio di Yukio Mishima)

«Nel tentativo di salvarci è andata perduta la verità  
di quello da cui avevamo il diritto di stare al sicuro.
Abbiamo perduto la morte».
(M. Blanchot)

Michael Sicinski


In recent months, Willie Varela has been returning his key video works, the Ambiens Series, to the public eye. Varela is best known as a lyrical filmmaker, but his video work demands equal attention. This is not only because it represents an extension of his cinematic work, with its poetic attention to landscape and compositional values. Varela should also be considered as someone who has pushed the aesthetic boundaries of the medium of analog video, exploring the unique haze and diffused light that characterize this once-new medium.

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