Michele Sardone

Cinema e televisione sono, da anni, posti l'uno di fronte all'altro come due antagonisti, fino a decretare che, se il cinema dovesse morire (o se è già morto), ad ucciderlo sarebbe stata la televisione. La prima volta che il cinema ha rischiato di morire (o almeno, di perdere la sua natura artistica) è stato per mano dei regimi totalitari, che hanno rappresentato in maniera spettacolare la storia che stavano scrivendo: «le grandi messe in scena politiche, le propagande di Stato divenute quadri viventi, le prime manipolazioni umane di massa» (Daney) superavano il cinema, andando ben al di là dei piccoli orrori cinematografici che si celavano dietro la rappresentazione per immagini. Dietro gli allestimenti spettacolari del potere c'erano i campi di concentramento.


Nei campi non soltanto i corpi venivano concentrati, ad essere concentrato era l'orrore, tutto l'orrore che un intero continente era capace di produrre. Il cinema del dopoguerra ha cercato con il Neorealismo non tanto di liberare un popolo dall'orrore, quanto di liberare l'orrore dai campi, farlo venir fuori per condividerlo e renderlo più sopportabile. La televisione, invece, sin dalla sua prima diffusione, ha cercato piuttosto di assolvere una funzione sociale, quella di controllare un popolo divenuto pubblico televisivo: un nuovo fascismo si appropriava delle immagini, produceva un suo immaginario, lo imponeva agli spettatori. Questa triplice azione investiva le tre forme base della comunicazione televisiva, ovvero l'informazione, l'intrattenimento, la narrazione, a cui corrispondevano tre format: telegiornali, show, sceneggiati TV. Lo scontro con il cinema era inevitabile: se questo ha continuato le sue ricerche, sospinto dalle varie "ondate" francesi, tedesche, brasiliane, la televisione, di contro, ha affinato sempre più i suoi metodi di controllo sociale, sino ad arrivare oggi alle sue forme più complesse e invasive, l'infotainment e i reality, la prima nata dall'invasione di campo effettuata dall'informazione nei confronti degli show e degli epigoni degli sceneggiati (le serie TV), la seconda dall'appropriazione dalle pratiche dell'informazione (il controllo visuale pervasivo del soggetto) e della narrazione (sceneggiando la cosiddetta "realtà").

Il secondo colpo del conflitto per l'egemonia sull'immagine, quindi, non è stato sferrato al cinema (ormai dato per sconfitto, e che in alcuni casi rincorre la TV, anche quando tenta di demistificarla o di scoprirne i lati oscuri, per poi giungere a un nulla di fatto, perché  ciò che si persegue è appunto il nulla televisivo) ma all'interno della televisione stessa. Un inseguimento della polizia a un criminale può, in una serie, essere più spettacolare di uno vero, ma non potrà mai avere il brivido di realtà di uno ripreso da una televisione americana in "real time"; in una serie possono essere sceneggiate vicende riprese dalla vita quotidiana, ma avranno sempre qualcosa in meno rispetto a quelle di un reality; il "meno", in entrambi i casi, corrisponde a un quid di percezione di autenticità, merce sempre più rara, e per questo sempre più ambita dal pubblico televisivo. Le serie partono quindi con uno svantaggio notevole: essendo per loro stessa natura fiction, non avrebbero mai potuto competere con l'infotainment e con i reality sul loro stesso campo d'azione.

L'unica mossa possibile per sopravvivere era disconoscere la tradizionale differenza tra verità e falsità, mettendo in crisi i vari dispositivi che si arrogano la potestà del vero. Per farlo, una serie come Homeland è andata a stanare l'orrore della guerra, disseppellendo un soggetto più cinematografico che televisivo: se infatti in TV si divide il mondo in dicotomie fortemente polarizzate e si semplifica la rappresentazione secondo la logica "amico o nemico", ecco qui invece apparire un uomo, Nicholas Brody, ambiguo come solo un'immagine cinematografica potrebbe essere, un eroe che è al tempo stesso un traditore, un marine che è anche un terrorista e che nel corso delle prime due serie sarà capace di far coincidere contemporaneamente i diversi opposti in cui è scisso.
Nella prima serie, la vita quotidiana del marine sarà sottoposta per alcune puntate a un regime di stretta sorveglianza con microcamere e microfoni in ogni stanza della sua casa, inscenando un reality che, nella finzione televisiva, è più reale di un vero reality, essendo i suoi abitanti inconsapevoli di essere spiati. L'agente della CIA ad avere gli unici sospetti su di lui e che ha messo in opera la sorveglianza, Carrie Mathison, sottoporrà Brody a diversi interrogatori, come neanche una conduttrice potrebbe fare nel confessionale televisivo del Grande Fratello. Eppure, nonostante i metodi televisivi adoperati, che passano per essere sedicenti mezzi infallibili scopritori del vero, la verità rimane sfuggente. L'unico luogo che non era stato messo sotto il controllo video diviene fortuitamente, per Brody, il solo posto in cui poter pregare, e quindi svelare la verità sul suo tradimento (che corrisponde alla conversione all'islam): la serie prende la sua rivincita mostrando quella dimensione spirituale che un reality non raggiunge.

In secondo luogo, viene messa in evidenza la facilità con cui i mezzi di informazione si lasciano manipolare: la stampa accoglie acriticamente Brody come eroe di guerra, credendo di essere lei a plasmare un personaggio intorno al quale imbastire una narrazione retorico-patriottica. In realtà Brody sfrutta la TV per lasciar vedere di sé quello che la gente vuole vedere e celare ancora meglio l'attentato di cui è stato incaricato. Ancora, attraverso la diffusione in TV di un video di propaganda terrorista del tutto fuori contesto rispetto all'attentato cui viene collegato, il piano terrorista distorce la verità interna alla narrazione, verità di cui è a conoscenza solo il pubblico "vero", quello che assiste alle serie. Ma anche noi spettatori non siamo a conoscenza di tutto. Alla fine della seconda serie non possiamo essere certi di aver colto in pieno la verità intorno a quello che abbiamo visto, delle "reali" intenzioni di Brody: la verità è qualcosa che, se esiste, non appare in video. Viene a decadere la presunzione della presa diretta, della capacità di raccontare il mondo in tempo reale: l'immagine telegiornalistica può raccontare quel che è già stato, sconta sempre uno scarto temporale rispetto all'accadere di un fenomeno.

Quest'uso manipolatorio dell'informazione in TV è però solo il primo di livello di analisi, sotto il quale è presupposto un livello precedente al primo, un grado zero che coincide con il ground zero dell'11 settembre. Il crollo delle Torri Gemelle è stato ripreso da innumerevoli punti di vista: per la prima volta, è stato reso visibile come lo scenario del mondo e dei suoi fenomeni siano lì alla portata di mille occhi elettronici, e come ogni evento spettacolare poi possa essere facilmente duplicato, moltiplicato e diffuso. La riproposizione continua della sequenza del crollo ha soggiogato per giorni lo sguardo dell'Occidente, per sconfessare prima la comprensibile reazione di incredulità per ciò che si stava vedendo, e in secondo luogo per soddisfare una certa fascinazione che ammaliava tutti coloro che avevano in qualche maniera desiderato il crollo simbolico dello strapotere americano. Successivamente, quando si è scoperto che i terroristi avevano preparato il piano sul suolo americano, alla luce del sole, il terrore si è diffuso in maniera pervasiva: chiunque avrebbe potuto essere un potenziale terrorista, non ci si poteva fidare di nessuno, neanche di se stessi, dato che per un attimo s'era desiderato l'inveramento dell'inimmaginabile crollo.

Nicholas Brody riassume in sé queste tre differenti reazioni all'evento (incredulità, fascinazione, paranoia) e le porta all'eccesso, di un eccesso speculare a quello rappresentato dall'11 settembre. Egli è un marine, un eroe di guerra, un padre e marito che cerca di migliorare, poi un deputato degli Stati Uniti e probabile vicepresidente: ma è anche un traditore paranoico e un terrorista che nasconde la sua conversione all'islam.
Nella seconda serie tutte queste contraddizioni verranno spinte all'estremo, fino a diventare in video sostenibili e ad aver bisogno di un nuovo ground zero, di un'altra catastrofe per poter azzerare la narrazione e permetterle di ricominciare. Il punto apicale della serie è proprio la messa in onda del falso videomessaggio con cui Brody confessa un attentato che forse non ha compiuto (la distruzione della sede della CIA) in luogo di un attentato che avrebbe dovuto sicuramente compiere (la strage dei membri del governo americano): non è solo l'ennesimo stratagemma con cui si mette in evidenza come i media possano essere manipolati facilmente, quanto la sconfessione estetica dell'informazione. Difatti, la narrazione in tempo reale è impossibile perché è impossibile essere presenti nell'immagine, di essere nel tempo eternamente presentificato della visione; un'impossibilità che si esplica nello spossessamento di sé, del proprio sembiante che, nel caso di Brody, appare come un fantasma ormai avulso e indipendente dal corpo di cui era il calco.

La terza serie parte così da questa duplice sensazione di vuoto, il vuoto lasciato dalla sede della CIA rasa al suolo e lo svuotamento di Brody della potestà sulla propria immagine. Se il primo potrebbe rappresentare il tentativo di fare tabula rasa di quanto avvenuto nelle prime due stagioni, nell'illusione di poter tornare indietro nel tempo e di cancellare tutto, il secondo è esplicazione del disperato desiderio di Brody di liberarsi del suo passato e dei suoi rimorsi. Il luogo da cui riparte la sua redenzione è una torre macilenta1, simulacro e gemella di quelle del World Trade Center, costruita, come loro riflesso rovesciato allo specchio, dalla speculazione neocapitalista nell'emisfero sud del globo. Il pentimento e l'espiazione di Brody riflettono la tensione occidentale a sanare il proprio senso di colpa, a voler ribaltare tutto, rimangiandosi ogni scelta sbagliata, ogni sopruso perpetrato ai danni del resto del mondo. Ma questa insorgenza emotiva viene subito presa in ostaggio dalla macchinazione cui il singolo viene subordinato. Nel corso delle tre serie è costante la sensazione che ogni azione individuale sia soggiogata dai piani di una sovrastruttura, che a seconda dei casi assume l'aspetto dell'intelligence americana o dell'organizzazione internazionale terrorista, come se i veri due autori della serie fossero prima lo stratega degli attentati e poi il direttore della CIA. Difatti le istituzioni occidentali si rimangiano tutto, diritti civili, libertà, retoriche su pace e giustizia. Come già fatto notare da Baudrillard (2002), il grande successo degli attentatori dell'11 settembre è stata la reversibilità, intesa non soltanto come recessione economica e politica e, di conseguenza, morale e psicologica, ma soprattutto recessione «del sistema dei valori, di tutta l'ideologia di libertà, di libera circolazione che faceva la fierezza del mondo occidentale, e di cui esso  si valeva per esercitare il suo dominio sul resto del mondo» (ibidem).  

Le pratiche messe in atto dalla CIA in Homeland riflettono un'ansia differente, quella di sicurezza, riflesso incondizionato delle istituzioni poste dinanzi al terrore di subire un nuovo attacco terroristico, e che auspica un nuovo ordine mondiale fondato sul controllo diffuso, con un'unica cabina di regia a monitorare ogni palmo di terra del pianeta attraverso droni e satelliti2.
Brody viene quindi costretto a un nuovo rovesciamento: se nella prima serie era l'uomo più dimenticato del mondo, nella terza diventa il più ricercato; da terrorista spacciato per eroe in patria, eccolo ora nei panni del doppiogiochista della CIA che raggira gli osannanti media del regime iraniano3. È come se rivedessimo la prima serie, solo con le bandierine dei due avversari invertite, per scoprire quanto già avevamo intuito: non esistono un buono e un cattivo se non nelle retoriche delle rispettive propagande, dato che le pratiche e le modalità messe in atto dai due schieramenti sono speculari.

L'unico personaggio capace di percepire una visione d'insieme del quadro in cui la vicenda si dipana è Carrie Mathison, l'analista della CIA che ha intuito per prima la scissione di cui è stato oggetto Brody. A tale scissione Carrie oppone il suo disturbo bipolare, una sorta di somatizzazione dello stato d'animo di una nazione che vuole proteggersi dal nemico ma allo stesso tempo vorrebbe comprendere le ragioni del suo astio verso di lei. I suoi bruschi cambiamenti di umore riflettono i repentini transiti emotivi di un popolo che, a seconda delle notizie, delle decisioni, degli scandali e dei proclami governativi, passa dalla depressione all'esaltazione alla mania.
Eppure è proprio la distorsione percettiva di Carrie a permetterle di vedere quello i suoi superiori, per opportunismo o prudenza, si ostinano a non vedere. Nella prima serie Carrie compone un tableau di tutti gli eventi connessi a Brody, con il risultato di ricostruire la sceneggiatura della serie stessa, scoprirne le falle, presagirne gli sviluppi. La trama, che era sotto gli occhi di tutti, è stata letta dall'unica persona che, in un'ottica razionale, non avrebbe potuto interpretarla obiettivamente. Ma è appunto della logicità conseguenziale tutta occidentale che Carrie deve sbarazzarsi per poter mettere a fuoco, attraverso quelli che il suo quadro clinico stigmatizzerebbe come deliri, l'irrazionalità antioccidentale che muove l'atto terrorista nel momento in cui mette in gioco la propria morte (ed emblematica in tal senso è la morte del grande orditore siriano, che nella seconda serie pianifica la propria fine come diversivo dall'atto terrorista che aveva in animo). Attraverso il loro sacrificio gli attentatori dell'11 settembre hanno reintrodotto il sentore della fine in un sistema che pensava di essere perfetto, intangibile, incrollabile.

Nella terza serie, l'esecuzione del capro espiatorio lascia un nuovo senso di vuoto, un altro azzeramento, venendo a mancare il soggetto che si era caricato delle colpe del terrore. Eppure il sacrificio finale si presenta come il tentativo impossibile di rendere reversibile la morte: l'esposizione pubblica della fine del corpo ne attesta l'esistenza, e quindi la possibilità di guarigione e di redenzione. La fine di una narrazione non coincide con quella di tutte le narrazioni, è solo un nuovo inizio, possibile grazie all'espiazione simbolica delle colpe e delle contraddizioni di un intero popolo. Lo sguardo distorto di Carrie sul mondo è l'unica strategia che possa permettere a Homeland di sopravvivere a se stessa, di evitare un nuovo ground zero, di rimandare la catartica palingenesi in luogo di un ripensamento all'interno dell'Occidente del proprio modo di vedere le cose: rivedere le cose per un diverso ricominciare daccapo. O almeno, per l'inizio della quarta serie.


Note

1. Si tratta del Centro Financiero Confinanzas di Caracas, per altezza il terzo grattacielo del Venezuela, superato solo dalle torri gemelle del Parque Central, presenti nella stessa capitale; l'edificio è soprannominato “Torre di David”, dal nome del suo promotore, il finanziere David Brillembourg. I suoi lavori furono iniziati nel 1990 e interrotti nel 1994 a causa della crisi bancaria che travolse l'economia del paese. Dal 2007, in seguito all'emergenza degli alloggi di Caracas, è stato occupato da 2.500 senzatetto, che hanno dotato la struttura di alcuni servizi e anche di negozi, ricoveri per alluvionati, campi sportivi e un asilo.

2. Vale la pena ricordare i provvedimenti dell'amministrazione Bush dopo l'11 settembre: istituzione del mastodontico Department of Homeland Security (sorta di ministero degli interni che ha come fine la prevenzione degli attacchi terroristici) che conta più dipendenti di qualsiasi altro organismo governativo americano; promulgazione del Patriot Act, con norme restrittive sui diritti della privacy e della libertà di espressione; ampliamento dei poteri e dei finanziamenti della National Security Agency, l'intelligence al centro del recente scandalo sulle intercettazioni internazionali (il cosiddetto Datagate).

3. E sarebbe già qui possibile un nuovo rispecchiamento-rovesciamento, stavolta nell'originale terrorista saudita più ricercato al mondo che è stato per anni nascosto in un buco e che con i suoi videomessaggi spaventava l'Occidente ed esaltava i fondamentalisti islamici.


Bibliografia

Baudrillard J. (2002): Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina, Milano.

Daney S. (1986): Ciné-journal, Edizioni Cahiers du cinéma, Parigi.


Filmografia

Homeland (Alex Gansa - Howard Gordon 2011-in corso)