Luigi Coluccio

altÈ tutto un manifesto, Roma: la nuova drammaturgia. Per quello che non ha, per quello a cui tende, per quello che non ha previsto. Su un grafico temporale: le urla e le storture per l’Estate romana, la Trilogia dell’invisibile di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini al Teatro India. Su un grafico spaziale: il Teatro Valle tra ri-occupazioni e ri-aperture, le lotte padronali per il Teatro Eliseo.


Roma: la nuova drammaturgia, ciclo di quattro documentari realizzati da Graziano Graziani (curati da Felice Cappa e con la regia di Claudia Seghetti), andati in onda su Rai5 nei sabati dal 17 maggio al 5 giugno scorsi, nasconde una tensione di quello che è stato, che è e che sarà, divenendo uno strano oggetto che è assieme documento e predizione, presenza e assenza. E questo a partire da cinque (più uno), semplici, corpi davanti all’obiettivo: Andrea Cosentino, Daniele Timpano (ed Elvira Frosini), Lucia Calamaro e il duo Daria Deflorian/Antonio Tagliarini. Corpi che divengono figure che divengono narrazioni di un’intera città e del suo teatro, perché con Cosentino, Timpano, Calamaro e Deflorian/Tagliarini abbiamo di fronte uno spaccato che trasversalmente ci mostra quindici anni di autori e attori romani, di narrazione e anti-narrazione, di spazi occupati e spazi ufficiali, tutti impilati in questa somma maggiore delle parti che li individua come punti focali – nella loro differenza, pervasività, stratificazione – di quella che se non si può chiamare “scuola” allora ben venga “scena” romana a partire dagli anni 2000.

E il gioco di rifrazioni e proiezioni è manifesto se annotiamo che dietro tutto questo c’è quel Graziano Graziani facente parte a pieno titolo di questa scena, scrittore-giornalista-critico-organizzatore che passa senza soluzione di continuità dall’occupazione-assegnazione del Rialtrosantambrogio al settimanale di politica culturale «La Differenza», dal volume-mappa Hic Sunt Leones – Scena indipendente romana a questo Roma: la nuova drammaturgia, accompagnando e testimoniando autori, spazi, politiche del teatro romano in un arco temporale che non a caso coincide con quello mostrato nei quattro documentari.

Perché è questo che non ha, a cui tende e che non ha previsto il ciclo di Rai5: tutto è addosso ai protagonisti, non c’è cornice, non c’è prologo o epilogo, tutto è soltanto racconto, racconto che parte da uno stralcio di spettacolo, il vecchio Aldo Morto di Timpano o il nuovo Diario del tempo: l’epopea del quotidiano della Calamaro, per farsi ricostruzione, ricordo, passato. Cosentino, Timpano, Calamaro e Deflorian/Tagliarini, sono nomi che vivono di tempi diversi, sovrapposti, presenti da quindici anni a Roma e presenti ai circuiti ufficiali e stabili da cinque, in uno sfasamento sociale e vitale paradossale.
 La scena romana di qualche anno fa, infatti, nella sua connaturata frammentarietà e fragilità, mostrava una sofisticazione e una continuità sorprendenti tra i diversi piani di manifestazione culturale: dagli spazi occupati e/o assegnati (Rialtosantambrogio, Angelo Mai, Kollatino Underground) agli stabili classici e d’innovazione (Argentina, India, Valle, Eliseo, Vascello), dai festival (Romaeuropa, Teatri di Vetro, Short Theatre) alle riviste/progetti («La Differenza», «Scenari Indipendenti»). Esaurendosi o venendo troncato, il minuto e incompleto elenco di eventi, luoghi e soggetti ha portato ad un rimescolamento che ha visto andare verso altri e nuovi lidi, ancora e ancora, questi nomi, segno di come l’eterogeneità e la profondità di Cosentino, Timpano, Calamaro e Deflorian/Tagliarini sia, a forza, a fatica, intatta.

E quello che è venuto dopo la realizzazione di questi documentari sta qui a rimarcarlo, dalle polemiche per l’assegnazione dei fondi per l’Estate romana all’apertura nella parte sperimentale dello stabile di Roma presso il Teatro India degli spettacoli di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, dalla prevista ri-apertura del Valle con Operetta burlesca di Emma Dante all’altrettanto previsto arrivo di Luca Barbareschi alla gestione dell’Eliseo: Roma: la nuova drammaturgia è anche e forse soprattutto una mostrazione altra della città, una riflessione in forma di testimonianza che partendo dal recente passato vuole proiettarsi nel prossimo futuro, un momento di documentazione che è anche fattibilità del presente.

altCon Andrea Cosentino, che mette assieme, spingendoli uno contro l’altro, a forza e ad incastro, i linguaggi della televisione e del cinema (ma non la televisione e il cinema) dentro l’unico spazio teatrale che li possa contenere, quello della commedia dell’arte. In questo nuovo quadrato magico tutto è direzionato e immerso nell’unica cosa che vale e che ricorderemo, l’emozione, il sentimento, di trovarci davanti a qualcuno che facendo teatro ci permette, semplicemente, di ridere e piangere – e di dire e ridire che “la Raffaello Sanzio mi fa cagare”, tanto è solo teatro… Sono fatti di quadri fulminanti che vivono della loro insufficienza, non-relazione, gli spettacoli di Cosentino, che portano all’affermazione continua della finzione fino all’ultimo momento possibile, ancora e ancora, la morte. E’ quindi giusto che Cosentino si definisca “il più grande autore di finali viventi”, tutto deve portare a quello, alla fine, a come far andare via, lui dal palco e gli spettatori dalla platea, tutti noi, emozionati, dal teatro. Per poi tornarci.

Con Daniele Timpano, un teatrante figlio della tv commerciale – e quanti in realtà lo sono e sarebbero disposti ad ammetterlo? – che proprio partendo da quanto visto cerca di carpire quanto non vissuto: gli anni ’70, il Ventennio, il Risorgimento. O che ha vissuto, perché Timpano è Timpano ed è anche Moro, Mussolini, Mazzini, non lo sa più nemmeno lui, non lo sappiamo più nemmeno noi, tocca ricordarselo e ricordarcelo con i continui e a volte spiazzanti “Daniele Timpano, che sono io”, per una storia personale che fa a pugni con la storia collettiva cercando di impossessarsi del corpo balbettante e storto del nostro, primo, ideale Daniele Timpano. Che continua ad essere altro da sé nella vita come in scena – che sono sempre la stessa cosa – quando sta accanto ad Elvira Frosini, compagna di vita e compagna di teatro, e i due, forse, è questo che ci mostrano quando sono sul palco: il loro amore, tra dinosauri e zombie, prima della vita e dopo la morte.

Con Lucia Calamaro, la sua doppiezza di scrittura e assenza/presenza, dove un’azione esclude le altre, si ripara dietro le altre. Tutto parte dallo scrivere, sempre, vergare, redigere, con un movimento che viene fuori dagli arti fisici e mentali per poi allungarsi come se fosse nel vuoto divenendo moto assoluto, infinito. La scrittura della Calamaro non ha forma, semplicemente è, occupa istantaneamente ed interamente tutto lo spazio dove si manifesta – il corpo dell’attore, la testa dello spettatore. E’ la possibilità di mondi, la scrittura della Calamaro, e a volte per l’attrice che è anche lei non c’è spazio in questi mondi, quindi ecco altre donne, altri corpi, schiacciate dal diario, dal dialogo, che è solo e soltanto – e a volte no – di Lucia Calamaro.

Con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, assieme a loro, assieme ai loro tempi, alle loro confusioni. Amici in scena, e noi tra di loro, ad ascoltare quello che hanno da dirsi, da ricordare, da ricostruire. Saltando dalle loro vite a quelle di altri, divenendo le vite di altri, sempre però poco convinti, pronti a lasciare da un momento all’altro, perché se a Daria viene una risata o un pensiero Antonio risponde, risponde all’amica che sa per cosa riderà o a cosa penserà. Guardare la Deflorian e Tagliarini è questo, guardare qualcuno che cerca di mostrarci qualcosa, riuscendoci, e che cerca di essere quel qualcosa, fallendo, perché a volte basta la relazione, la complicità, tra due amici, per connettere quello che non c’è, e noi quella relazione ce l’abbiamo, con Daria e Antonio, dal primo momento che entrano o stanno già in scena, perché sta tutto lì: come iniziare ad essere amici.

altPuò una parte della tua vita non essere più tua? Io la conoscevo bene la scena romana. Io la conoscevo bene quella parte della mia vita. Venti anni e poco più e possedevo una cosa che la mia generazione non ha mai avuto, che io non avevo prima e che non avrei più avuto dopo: un maestro – per la grazia, per Ecuba, due, Antonio Audino e Attilio Scarpellini. Maestri di pensiero e di scrittura, che poi ho abbattuto, come è giusto che sia, come faccio sempre, ma che stanchezza, che malinconia ad essere di nuovo soli, senza scrivere a nessuno… Venti anni e poco più e un’università, una città. Nella prima e piccola c’era il cinema, nella seconda e grande il teatro, perché come rievocato in altri luoghi, ero “cresciuto in un Sud (Il Sud, come il racconto finale sulla sua cecità e sulla sua Argentina di Jorge Luis Borges) dove il cinema del paese aveva chiuso ed era il teatro a darci l’esperienza (forse perché, per dirla alla Peter Brook, posso prendere un qualunque spazio e chiamarlo teatro)”.

Scrittura critica e piedi veloci, dal dirimpettaio Furio Camillo alla ztl del Rialtosantambrogio, verso i trasteverini Belli e Teatro in Scatola e il monteverdino Vascello, scendendo all’India e al Palladium, oltrepassando la periferia fino al Kollatino, tornando nei centrali e secolari Argentina e Valle… Guardando, scrivendo, parlando e poi di nuovo guardando, scrivendo, parlando, uno dopo l’altro tranne i lunedì, partendo dall’inizio – Gaetano Ventriglia. E subito il testo, la drammaturgia, con Dostoevskij, Bernhard, Handke e la parabola presa a metà di Letizia Russo. E l’incontro prima con la romagna felix, Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino, e dopo con i romani, Psicopompo Teatro – e la parabola presa all’inizio di Rafael Spregelbrud –, Muta Imago, Santasangre e, ah, certo, l’Accademia degli Artefatti. Stazioni incontrate e a cui mi sono fermato, la danza, quella lontana butō e poi tutto il resto, con la visione di Quore. Per un lavoro in divenire di Raffaella Giordano, dieci anni dopo, che ancora rimane nell’iride…; «La Differenza» e Gian Maria Tosatti, con cui guardare e scrivere di teatro a Torino, in Toscana…

Poi tutto finisce, e finisce dentro il teatro. Ah, certo, facendo l’assistente alla regia per l’Accademia degli Artefatti, spettacoli che durano un giorno, spettacoli dentro altri spettacoli, dormite durante le prove e pugni con un attore, carico e scarico di notte, la macchina del fumo da manovrare dietro le quinte, il cambio palco, la scrittura dei programmi di sala, teatro, tutto dentro il teatro.
E Andrea e i suoi osceni coturni rossi al Rialtosantambrogio durante Antò le momò.
E Daniele ed Elvira al loro matrimonio.
E la Calamaro all’uscita di un’altra cosa che resterà nell’iride, Autobiografia della vergogna (Magick).
E Daria e le prove con gli Artefatti, e Tagliarini e il suo sorriso all’inizio di Titolo provvisorio: senza titolo.
Io la conoscevo bene la scena romana. Io la conoscevo bene quella parte della mia vita.


Bibliografia

Graziani G. (a cura di) (2007): Hic Sunt Leones – Scena indipendente romana, Editoria&Spettacolo, Spoleto.

Brook P. (1998): Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma.


Teatrografia

Aldo Morto (Daniele Timpano 2012)

Antò le Momò. Avanspettacolo della crudeltà (Andrea Cosentino 2007)

Autobiografia della vergogna (Magick) (Lucia Calamaro 2008)

Diario del tempo: l'epopea del quotidiano (Lucia Calamaro 2014)

Operetta burlesca (Emma Dante 2014)

Quore. Per un lavoro in divenire (Raffaella Giordano 1999)

Titolo provvisorio: senza titolo (Daria Deflorian /Antonio Tagliarini 2005)

Trilogia dell’invisibile (Daria Deflorian /Antonio Tagliarini 2008 - 2012)

- Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (2012)

- Rewind, omaggio a Cafè Müller di Pina Bausch (2008)

- rzeczy/cose (2011)