Su Veit Harlan, uno dei più discussi registi del cinema tedesco, pesa, irredimibile, la “scomunica” cui la sua fede politica, la sua formazione culturale e il film al quale è tristemente legata la sua fama lo “abilitarono”. Eppure, al di là del pur non eccezionale rilievo nel panorama cinematografico europeo, la sua filmografia merita attenzione proprio perché ci restituisce con tratti inconfondibili e nelle sue linee essenziali la fisionomia complessiva del periodo storico in cui si colloca: una filmografia “datata”, ma proprio per questo di indubbio interesse per un’analisi della temperie culturale della Germania nazista. Nell’esecrazione che coinvolge il suo operato, si rischia però di trascurare qualche film che non merita l’oblio.


Non sono mancate perciò critiche negative riferite anche alla consistenza artistica del suo lavoro, critiche non determinate questa volta dal suo più diretto coinvolgimento con ragioni politiche. Si legga questa nota, scritta dopo la fine della guerra, quando si era ben poco disposti a riconoscere qualche sia pur piccolo merito al lavoro del regista che si era così compromesso col regime nazista: «i film di Harlan ‒ si dice in un articolo che vuol fare il punto sulla sua attività complessiva ‒ specialmente i drammi storici, che avevano l’inquadratura un po’ ferma e di conseguenza un campo visivo piuttosto teatrale, rivelavano un indugio nel particolare, una lentezza nella costruzione, un ristagno nell’azione e nella conclusione che li rendevano poderosi, più in apparenza che in effetti, massicci e solenni, ma sempre freddi, ma anche pesanti, ma perfino vecchi prima del tempo, se poi Kristina Söderbaum non avesse dato ad essi, per quanto le era consentito,  un  riflesso della sua giovinezza, di vivacità, di vitalità» (Toschi ‒ Ward 1949).

Una sconfessione anche dei risultati raggiunti da qualche suo film: fra questi indicheremmo quello di cui ora parliamo, Immensee (1943).
Esso fu girato tre anni dopo dopo Jud Süss (Süss l’ebreo), summa dell’antisemitismo nazista, su cui non è il caso di dilungarsi dopo quanto se ne è scritto, se non per ricordarne le conseguenze penali, che videro il regista nelle vesti di imputato per esserne l’autore. Prima del processo penale instaurato dopo la sconfitta della Germania, con l’accusa di crimini contro l’umanità, la carriera di Harlan si era arricchita di altri titoli, fra cui appunto Immensee che, in piccola misura, potrebbe riabilitarne l’indubbio ma compromesso talento, sfociato però, come accadde a Céline con le famigerate Bagattelle per un massacro, nel pamphlet filmico più famoso dell’ideologia nazista.

A tal proposito è forse opportuno ricordare che nel processo a suo carico Veit Harlan – o, meglio, i suoi avvocati – fu abbastanza abile nel rintuzzare le ragioni dell’accusa, nonostante alcune di queste fossero fondate su dati ineccepibili (si pensi a quanto disse compiaciuto Joseph Goebbels dopo aver visto Jud Süss: «non potevamo augurarci un film antisemita migliore»). Il ministro, che aveva in mano le redini del cinema tedesco, si riprometteva di farne l’uso strumentale cui in effetti lo destinò (al quale però il regista forse non aveva mai pensato): lo faceva proiettare per accrescere l’odio razziale dei soldati impegnati in azioni di rastrellamento degli ebrei, riscaldandone gli animi semmai ve ne fosse stato bisogno. Per difendere o almeno giustificare l’immagine negativa dell’ebreo Süss Oppenheimer che si ricavava dal film, Harlan indicò altre interpretazioni cinematografiche come esempi non molto diversi della rappresentazione che ne aveva dato lui, fra cui il personaggio dickensiano di Fagin, interpretato da Alec Guinness in Le avventure di Oliver Twist di David Lean, 1948 (e non si potrebbe dargli torto).

Come si sa, il processo di Amburgo mandò assolto il regista, il quale peraltro fu gratificato subito dal risultato di un sondaggio fra il pubblico cinematografico per stabilire chi fosse il migliore regista tedesco, che lo vide in vetta, con precedenza rispetto a colleghi non certo meno rilevanti: come soprattutto Helmut Käutner, che sul piano artistico lo superava di molte spanne. Il fatto è che nel proposito di dare un colpo di spugna al recente passato non certo glorioso del Paese, si fingeva di metterlo fra parentesi, assolvendo indirettamente l’autore di Jud Süss.

Immensee si apre sullo scenario agreste e idilliaco in cui è collocata la bella villa di Elisabeth, che vi vive con i genitori. Loro ospite temporaneo è Reinhard, aspirante musicista, di cui la giovane, ricambiata, si innamora ma dal quale dovrà ben presto separarsi. Lo incontrerà, dopo tanti anni che non hanno cancellato il suo giovanile amore, ad un concerto da lui diretto, uno dei cui brani musicali in programma è ispirato alle ninfee (Water lily), che stimolano molti ricordi nell’ormai non più giovane donna. Il tema della composizione ricorre più di una volta nel corso del film: una prima durante la sequenza del bagno nel lago dei due innamorati, quando Reinhard fa dono alla sua amata appunto di una ninfea; una seconda volta quando Elisabeth, nell’atto di seppellirlo, ne ripone una nella tomba del passerotto che a suo tempo le aveva donato Reinhard.

Il paesaggio campestre iniziale è ancora una volta quello che faceva da sfondo al precedente film di Harlan, La città d’oro (Die goldene Stadt, 1942), la rigogliosa campagna in cui la protagonista Anna era vissuta e che aveva abbandonato per inseguire i falsi idoli della “città d’oro”, una Praga di sontuoso e languido splendore, nella quale la giovane si era perduta e da cui era infine fuggita per concludere prematuramente e volontariamente la sua vita, oppressa dai rimorsi per la “colpa” commessa (l’attrice, peraltro moglie del regista, Kristina Söderbaum, era stata interprete anche di Süss l’ebreo nel ruolo della giovane Dorothea Sturm, anche lei suicida dopo la violenza subita dal turpe ebreo).

Il gioco drammaturgico di Immensee alterna idealmente il presente al passato, fra rimpianto e malinconia per una felicità ormai irrecuperabile. Ancora una volta – ma qui è il personaggio maschile che ne è coinvolto – è la città con la sua vivace mondanità e le sue lusinghe a “corrompere” l’amore di Reinhard: si veda la sequenza della festa per il suo compleanno, dei cui partecipanti il film sottolinea la superficiale quanto attraente fatuità, quella da cui è appunto catturato Reinhard e che gli costerà la “perdita” definitiva di Elisabeth.

Il film è impostato come il racconto a ritroso di una vicenda sentimentale di struggente pateticità e di delusione per un amore inesorabilmente “perduto”, come recita il titolo italiano (Il perduto amore). Harlan si propone di seguire il dettato letterario dell’opera ispiratrice, il racconto omonimo di Theodor Storm, con quel meraviglioso incipit che gli conferisce subito il timbro espressivo: «Mentre egli così sedeva, l’aria si fece a poco a poco più buia; ed infine un raggio di luna cadde attraverso i vetri, sui quadri appesi alla parete e gli occhi del vecchio seguirono involontariamente la chiara luce che si spostava. Si illuminò così una piccola immagine chiusa in una semplice cornice nera, ‘Elisabeth!’ mormorò il vecchio. E come ebbe pronunciata questa parola, il tempo si era trasformato: era di nuovo nella sua giovinezza». Il protagonista della novella di Storm «che compare nella scena iniziale e finale, il vecchio ancor sempre dominato dalla sua passione giovanile, è quello stesso giovane di cui egli ripensa la triste storia, il giovane che, desideroso soltanto di vivere nella felicità del sogno, non seppe afferrare con giovanile ardore la propria felicità reale, non seppe volere, decidere ed agire» (Mittner 1964).

Come si può notare, l’inizio della novella sembra quasi un’annotazione della sceneggiatura di cui si servì Veit Harlan per la sua traduzione cinematografica: il brano è invece un sorprendente esempio di flashback letterario, un espediente non molto frequente in letteratura nei modi almeno in cui Storm lo propone; si consideri infatti che la parola non può rendere tutta la carica di suggestione che si sprigiona dalle immagini filmiche, sede privilegiata di questa che è una importante figura retorica del suo linguaggio.

Ciò che colpisce infatti leggendo la bellissima novella di Storm è appunto questa prospettiva che definiremmo cinematografica se l’affermazione non sfiorasse il paradosso: ma si tratta di uno spontaneo connubio fra scrittura filmica e scrittura letteraria, che non sarà stata l’ultima delle ragioni che spinsero Veit Harlan a cercare di realizzare Immensee. Egli ebbe infatti l’occasione col suo film di esaltare le risorse del flashback puntando sulle di poco precedenti esperienze di costruzione narrativa esemplificate da Marcel Carné con la sua Alba tragica (1939), la cui storia è incastonata appunto nel lungo ricordo del protagonista, che si stende per l’intero suo svolgimento.

Il cinema di Veit Harlan era comunque caratterizzato da un eclettismo che gli permise di firmare anche film di netta ispirazione storico-sociale (come lo sfortunato kolossal Kolberg, 1945, destinato ad una tardiva celebrazione della potenza germanica, già in procinto di cedere al nemico). Una caratteristica che non pregiudica le linee di fondo della sua filmografia (e di Immensee) riconducibili a motivi cari alla cultura di destra, cui, come s’è detto, intimamente il regista aderiva. Si pensi al tema della fedeltà (alla terra, alle proprie origini, alla tradizione in definitiva: pilastri centrali di una ben precisa ideologia) che non viene neppure scalfita perché tutto si ricompone poi proprio intorno a tali principi, il cui valore assoluto non è mai messo in questione. Si pensi al fatto che a questi Elisabeth non rinuncia anche quando ne sarebbe legittimata dalla morte dell’uomo che aveva sposato dopo la fine della sua storia con Reinhard. Coi suoi film Veit Harlan dimostra che se è poco disposto all’indulgenza nei confronti di chi quei valori ha trasgredito, come la giovane Anna “perduta” nella grande città d’oro di cui è rimasta vittima, è al contrario intimamente solidale con chi, come la protagonista di Immensee, ne è la fedele custode.

Sul motivo che attraversa l’intera novella il film intesse la sua trama con pathos contenuto, tutto pervaso com’è da un sentimento di nostalgia, di rimpianto per la felicità  perduta. Harlan infatti cerca di convogliare questi motivi in una scrittura che solo di rado si concede accensioni, preferendo attenuarne gli slanci con una regia misurata e  “oggettiva”. Indirettamente, il senso della caducità che governa le cose si riflette nella sempre mutevole e sfuggente natura, che all’inizio fa da sfondo all’avventura sentimentale dei due giovani conferendole il suo significato. Una natura che si confonde con gli imperiosi anche se inconsci richiami della “cultura”, quelli che provocano l’acquiescenza e la resa.

Questo sentimento di un rapporto intimo e intenso con la tradizione è il segno del profondo attaccamento ai suoi valori “perenni”, che essa amplifica e in un certo senso assicura. Ciò corrisponde ai principi di una ideologia che su quelli faceva perno, i cui riflessi si colgono appunto anche in questo film tutto racchiuso in una privatissima vicenda sentimentale. Dalla quale emerge la figura di Elisabeth: «si tratta ancora una volta di una donna ariana al cento per cento, cui la Söderbaum prestava occhi chiari, capelli biondi e fattezze solide, brevemente inquadrate durante il bagno nel lago con l’intento di sottolineare i benefici di una vita all’aria aperta. Il succo di Il perduto amore stava nella santità del matrimonio. A favorire l’idillio stava il paesaggio della Germania settentrionale, trasfigurato dai toni pastello del quinto film in Afgacolor dell’UFA» (Romani l981).

Con questo film che ripropone, sua pure ad un livello di gran lunga inferiore il testo letterario, Harlan forse voleva porre come fra parentesi la sua opera precedente di propaganda antisemita, dove l’eccesso ideologico soffoca in scoperto accademismo lo spontaneo “classicismo” del linguaggio di Harlan, misurato anche nel suo sentimentalismo. Peraltro in accordo con i desiderata di Goebbels, il quale aveva ordinato al regista – la cui devozione al regime era ritenuta evidentemente indiscutibile – di realizzare un film che «esaltasse la purezza dell’amore e del matrimonio». Invito che non può non suonare come sublime ipocrisia da parte di chi quei “valori” aveva dimenticato quasi abbandonando la famiglia per la nota e scandalosa relazione con Lída Baarová. Anche per lui, come per una beffarda ritorsione del destino, si stavano però creando le condizioni di un amore perduto, troncato questa volta per esigenze di regime.


Bibliografia

Mittner L. (1964): Storia delle letteratura tedesca. Dal Biedermeier al fine secolo, Einaudi, Torino.

Romani C. (1981): Le dive del Terzo Reich, Gremese, Roma.

Toschi A. e Ward T. (1949): Processo a Veit Harlan, in «Cinema», n.s, 24.


Filmografia

Alba tragica (Marcel Carné 1939)

Il perduto amore (Immensee) (Veit Harlan 1943)

La città d'oro (Die goldene Stadt) (Veit Harlan 1942)

Le avventure di Oliver Twist (David Lean 1948)

Süss l'ebreo (Jud Süss) (Veit Harlan 1940)