Ostro è l’esito di un’immaginazione duale, binaria, sotto vari punti di vista: tesa tra Nicola Giunta e Gioele Valenti (che sono i Lay Llamas); tra orografia terrestre e scrutate costellazioni celesti; esaltazione naturalistica e pratica sintetica ecc., in un vinile violaceo stampato dalla Rocket Recordings, distillatrice di psichedelie sfaccettate, spesso intransigenti, ma con una certa predilezione, mi pare, per l’impianto tribale (vedi World Music dei Goat).

In effetti già da Ancient People of the Stars che apre il disco s’instaura un’antifona di percussioni e bassi (soprattutto timpano e tom, mentre lo stacco di rullante compare in We Are You, certo, creando un bel rilancio, ma senza disturbare l’andatura generale), che resterà in filigrana fino alla fine, a scandire il ritmo di una ritualità psichedelica e terragna che allude al mito, a riti dionisiaci officiati con fuochi e danze di indiamento notturno, quegli stessi che incarnano l’accensione mistica, il fuoco (Mistero) a cui, mettiamo, il racconto, la scrittura può solo faticosamente (filologicamente) tendere (secondo l’ultimo Agamben), mentre la musica (astraente), certa musica, con la sua azione diretta (il suo essere), non mediata dalla parola (dal/a suo dire), pare identificarsi, sia pure per un momento. Ma è anche il ritmo di un cammino, di una marcia attraverso gli spazi, gli interstizi di un mondo virgineo e terrifico, alla ricerca di un senso (di un luogo salvifico, fuori dalle ambagi) che quel fuoco richiama e che resta impresso nelle cose, nelle rocce, nella polvere dello scalpiccio.

E da qui, da questa preponderante prospettiva terranea, sostanziale (che è anche la membrana delle percussioni) diparte una realtà agli antipodi, scandita dai rizomi dell’elettronica (sibili, note sintetiche perduranti, echeggianti), a cui i baccanti, spenti i falò, guardano da un’altura: una volatile dimensione che s’imbatte nella stratosfera; vibrare di aurore boreali ed extraterrestri, e allunaggi, figurazioni di ucronie sintetiche, da LED, spie intermittenti, sbuffi di sistemi di atterraggio. Un versante, quello elettronico, che funziona anche da sostegno “indie” al “cantato” di We Are You (ma anche di altri brani) ascrivibile a quella tensione cosiddetta creepy, cioè di leggera estenuazione dell’intonazione. Che assurge in vera e propria preghiera (reiterata, ipnotica) in Archaic Revival, incalzata dalle percussioni divenute ossessive, e che si diluiscono poi nel panismo flautato, nei delay d’arpeggi (ricordo di spazi lontani, lande, boschi in cui smarrirsi) e nell’incesso disteso di In Search of Plants, prima del meraviglioso canto finale di Voices Call, in cui sembra franare ogni motivo residuo, fisiologia, antropologia: ogni nevaio, intrico d’alberi, o radura al chiaro di luna; e i sogni celestiali di baccanti, le traiettorie, le impenetrabili costellazioni.

È cioè un disco che sembra predicare un’allucinata, psichedelica evanescenza di se stesso, e sciogliere gli enunciati, le trame, le sofisticate corrispondenze di suoni – che sono alla fine la ricerca di uno sbocco nella densità della materia sonora – in dimenticanza, dispersione di note, distanza misurata sulla linea dell’orizzonte marino.


Musicografia (album)

World Music (Goat 2012)

Ostro (Lay Llamas 2014):
    Ancient People of the Stars
    We Are You
    Archaic Revival
    In Search of Plants
    Voices Call