Abbiamo incontrato Michelangelo Frammartino in occasione dell’incontro a lui dedicato all’interno della terza edizione della rassegna Registi fuori dagli sche(r)mi. I suoi lavori sono diventati termine di paragone imprescindibile per coloro che vogliano cimentarsi con una sorta di cinema contemplativo e naturalista, sebbene Frammartino si senta più vicino a cineasti come Cronenberg, condividendone la ricerca per una sorta di fusione, attraverso l’occhio meccanico della cinepresa, con l’immagine.

Leggendo altre interviste a te fatte, si ha la sensazione che il miglior critico del tuo lavoro sia tu stesso e si intuisce che hai molto riflettuto sul cinema e sul mezzo cinematografico. Quanto la teoria ha inciso sul tuo modo di girare e di pensare i film?

È difficile capire da dove ti arrivino le cose: misteriosamente quelle che hai amato di più, proprio perché le hai amate di più, ti implodono e non le tiri fuori, ne vengono fuori altre che sembravano non dovessero incidere più di tanto. Se poi devo fare dei nomi, allora dico che il cinema di Kiarostami mi ha toccato molto, come anche quello di Bartas: cronometravo le scene dei suoi film e mi chiedevo: ma perché ha tagliato il passaggio di quel treno dopo un minuto e quaranta e non prima o dopo? E poi tutti quei cineasti-non cineasti, quelli che hanno preso la macchina da presa senza capire bene che cosa fosse, come Michael Snow e Benning che l’hanno usata come fosse una macchina del tempo o un altro oggetto, e che erano stupiti di quel che ne veniva fuori.

Facendo cinema poi non si può fare a meno di rifletterci sopra; è un processo lungo e coinvolge troppe persone per non pensare a come e a quel che si fa. Non credo che sia possibile “girare di pancia”: bisogna tener conto di molte cose, del linguaggio, del rapporto con il reale e di chi lo guarda. Credo infatti che sia il pubblico a “finire” il film, specie se si fa un cinema dell’assenza in cui la parte mancante, che non si riesce a cogliere nell’inquadratura, è tutto; un cinema “aperto” alle interpretazioni, per il quale nel fuoricampo ci sono spettatori e critici. Per questo non credo che sia possibile distinguere fra teoria e pratica, sono un tutt’uno. Del resto, Godard diceva che i registi della Nouvelle Vague facevano cinema già quando scrivevano per i Cahiers.

A proposito di reinterpretazioni, in Alberi (2013), la tua ultima videoinstallazione, è previsto proprio che il montaggio sia in un certo senso operato dallo spettatore, che entra in sala in un momento indefinito del filmato in loop e che quindi ricostruisce il video in maniera del tutto arbitraria. Questo modo inconsueto di mettere in contatto vedente e visione, soggetto e oggetto, ritorna spesso nei tuoi lavori.

È un po’ un’ossessione quella di costruire un rapporto forte tra chi guarda e la cosa guardata, tanto forte da mettere in discussione la distinzione fra soggetto e oggetto. Ho iniziato con delle installazioni interattive dove la fusione avveniva fisicamente: il visitatore doveva toccare le immagini, camminarvi dentro, fino a creare un unico movimento tra corpo e filmato. Nella nostra cultura invece c’è il concetto di frontalità tra soggetto e oggetto, c’è il dominio dell’occhio occidentale sulle cose in modo tale da mantenerle a distanza. Cerco quindi di mettere in questione questo approccio, di mettere in evidenza il filo che connette le cose e le unisce: la fusione è la radice del comunicare, della comunione, dell’essere uno.

Nei tuoi lavori si ha infatti la sensazione che tutto sia legato, come se ci fosse un’unica sostanza che compone tutte le cose, e quindi anche i corpi di chi guarda. Ne Le quattro volte (2010) è ancor più evidente: c’è una continuità materica nei passaggi di stato da uomo ad animale, da animale a pianta e da pianta a minerale.

La mia sensazione è che più progrediamo, più si va verso le specializzazioni e quindi le separazioni dei saperi. Quando invece si riesce a fare un lavoro di sospensione, di regressione, si va verso una sorta di tutt’uno. Questo è un lavoro complicato, in levare, verso una dimensione più profonda che mette in connessione te e gli altri.

A questo tutt’uno dai un nome? Si sarebbe tentati di scomodare la religione...

Non riesco a pronunciare quel nome che sottintendi, dinanzi al quale mi smarrisco. È più un sentimento oceanico, non legato a un singolo ente, ma rivolto al tutto con il quale fondersi. Questa fusione viene resa in natura attraverso il mimetismo, che di solito viene considerato solo come una pratica di sopravvivenza attuata attraverso il mascheramento. Eppure gli animali che hanno i comportamenti mimetici più affascinanti, non hanno predatori che li caccino con la vista e ci sono addirittura alcuni insetti i cui corpi vengono tagliati dai giardinieri perché scambiati per foglie. Non c’è quindi un vero vantaggio nel mimetismo, anzi a volte è persino in perdita: è più un modo con cui gli animali celebrano la loro appartenenza al mondo.

Per questo utilizzi spesso la camera fissa? Quasi a voler contemplare il mondo per fondere il tuo sguardo con il visibile?

La fissità è un modo per lasciare a chi guarda la libertà di muovere lo sguardo. Ovviamente il punto di vista rimane il tuo, ma cerchi di dialogare, di condividere con chi guarderà, lasciando qualche grado di libertà in più rispetto al découpage con il quale siamo cresciuti. Da ragazzi siamo stati sedotti dalle TV che nascevano in quel periodo e guidavano molto, anche un po’ troppo, il modo di guardare le cose: erano molto violente con le immagini, soprattutto quando sembravano innocenti e innocue.
Il découpage televisivo nega la frammentazione riconnettendo i frammenti attraverso i suoi codici che ricostruiscono una continuità che funziona soprattutto per la legge della causa e dell’effetto, legge che non viene rispettata quando i lavori sono frammentati veramente. Per questo attraverso una serie di accorgimenti tecnici, ad esempio utilizzando una lente molto larga e prendendo distanza dal soggetto o allargando parecchio il campo, cerco di condividere delle scelte, in modo tale che chi guarda sia libero di tracciare delle traiettorie all’interno della panoramica.

Un po’ come avveniva in pittura, quando chi guardava rimaneva dinanzi a un quadro molto più a lungo di quanto solitamente fa oggi il turista...

Provo anche invidia pensando a quello che accadeva con la tradizione pittorica perché verso l’immagine c’era una dimensione affettiva andata smarrita, una dimensione data dalla durata che permette di costruire un rapporto con l’immagine, non solo con i personaggi.

Quando riprendi la staticità di un albero quindi metti in questione la stessa percezione che noi abbiamo del tempo.

Beh, l’ulivo nel corso dei secoli percorre decine di metri: gli alberi camminano, ma noi non ce rendiamo conto perché siamo immersi in una temporalità differente dalla loro. Il cinema, che è una macchina, un occhio meccanico, riesce a percepire cose che l’occhio umano non può. Il grande dono di questi strumenti è che ci permettono di guardare anche fuori da noi e dalla nostra temporalità. Ho la sensazione che quello che guardo, quello che filmo è sempre più interessante di quanto io voglia farlo diventare, che il senso sia sempre eccedente, e che quindi il perdere il controllo, non averlo, non desiderarlo sia legato al guardare le cose per come esse sono perché danno sempre di più. Perdendo tutte le coordinate cui i nostri occhi sono stati forzatamente abituati si può forse trovare quello che cerco nei miei film: lo sguardo originario sul visibile del mondo.


Filmografia delle opere citate di Michelangelo Frammartino

Alberi (2013)

Le quattro volte (2010)