Michele Sardone

Che cos’è il potere? Che immagine dà di sé? E di cosa è fatto il rapporto fra immagine e potere? Sono le domande da cui muove la narrazione di House of Cards, serie prodotta dalla piattaforma online Netflix, che ha avuto, per la prima volta, l’idea di rendere disponibile in streaming un’intera stagione della serie, mettendo in questione il concetto stesso di temporalità seriale, slegandola dalla canonica attesa che divide ogni puntata dalla successiva, e dando così piena autonomia di visione allo spettatore (e in realtà adeguandosi a quanto già avviene con i download pirata).


Del resto, quanto la percezione del tempo sia centrale nella serie viene messo subito in chiaro dalla sigla d’apertura: gli oggetti in campo, auto, nuvole, ombre si muovono a velocità accelerata seguendo traiettorie fulminee, mentre di contro lo sguardo della camera si sposta lentamente, ora di lato ora in zoom, quasi in maniera contemplativa. Accelerato è il tempo dello spostamento delle informazioni, delle notizie in presa diretta come delle indiscrezioni top secret, e ad esse devono tener dietro le decisioni e i repentini cambi di fronte; lentissimo è il tempo del rituale, delle investiture e delle cene di gala, della riflessione e della progettazione. Il protagonista Frank Underwood, capogruppo democratico al Congresso USA, ha il potere di controllare contemporaneamente questi due diversi movimenti, di vivere a due tempi, incanalando il flusso di informazioni a proprio vantaggio.

Ecco quindi la riproposizione del binomio sapere-potere, sebbene i due termini indichino qualcosa di diverso rispetto a quanto delineato da Foucault. Il potere diviene la capacità, nonostante il moto incostante del tempo, di portare a termine un progetto, che diviene quindi estremamente fluttuante, malleabile, restando fisso solo lo scopo da conseguire; il sapere è oggi ridotto a informazione, alla pratica comunicativa di inondare gli spettatori con diritto di cittadinanza (e quindi di voto) di un flusso di notizie slegate tra loro, prive di un quadro narrativo che possa contenerle e dar loro un senso. Non è più il tempo delle grandi inchieste giornalistiche; al loro posto, un continuo flusso di sollecitazioni informative schiacciate sul presente, volte piuttosto a indirizzare, come impulsi stimolatori, le opinioni che a costruire coscienze. Più che al passaggio da un modo tradizionale di rappresentare il giornalismo a un altro in cui si fonde con i twitter e gli status su Facebook, sembra di assistere a una lotta fra due differenti visioni di figurarsi il lettore: da una parte cittadino (in una società dei diritti), dall’altra fruitore (in una società dei consumi).

In House of Cards viene riconosciuta al giornalismo una certa funzione analitica e critica (sebbene ciclicamente frustrata dai compromessi e dalle cadute etiche) che abbia lo scopo di svelare cosa ci sia dietro l’immagine che il potere dà di sé. Ma siamo ben oltre la ritrita correlazione fra immagine e falsità, cortina figurativa oltre cui si nasconderebbe il vero: una delle bugie fondanti della società, cioè la legittimazione del potere (vale a dire l’illusione che i governanti agiscano, anche con mezzi illeciti, per il bene del proprio popolo) è ormai disvelata, manifesta. Non ci sono più grandi narrazioni, New Deal da raggiungere, nemici seriamente pericolosi per l’ordine delle cose; e la pervasiva paranoia americana risulta meccanicamente, comicamente autogena.

Il popolo ha quindi bisogno di raccontarsi favole per poter sostenere le bugie sociali, o almeno di qualcuno che le racconti. In questo senso House of Cards afferma la necessità della menzogna sociale, la cui forza d’illusione evita la completa disgregazione dell’ordine costituito. Frank Underwood ha piena consapevolezza di questa necessità, e riesce a trarne vantaggio: manipolando le informazioni, usa la stampa per diffondere una narrazione delle cose del tutto inventata, contigua a quella reale, in modo tale da screditare avversari, favorire alleati, rafforzare la propria immagine.
L’unica persona con la quale è riuscito a costruire una relazione estremamente sincera è sua moglie Claire, che condivide pienamente la visione delle cose del marito1. Nel loro matrimonio il tradimento è contemplato come del tutto naturale, se non necessario, per il perseguimento dello scopo comune (raggiungere il più alto grado di potere). Non è solo cinismo o fredda presa d’atto della fallacità della natura umana: al rifiuto netto delle ipocrisie fondative della realtà sociale, consegue la messa in pratica di una sorta di esperimento, come se l’ambiente familiare degli Underwood fosse un laboratorio. Assistiamo, in definitiva, alla riduzione in scala domestica di cosa sarebbe una comunità senza sogni né illusioni, nel quale i rapporti sociali siano basati sul puro utilitarismo razionale, secondo cui ognuno agisce seguendo non una fede o un ideale ma solo la propria convenienza, anche a discapito altrui.

La variazione in scala è una costante nella percezione di coloro che vivono all’interno delle camere decisionali rispetto a quel che accade fuori da esse. Ogni avvenimento esterno subisce inevitabilmente una deformazione dovuta all’enorme distanza, subendo ora una riduzione ora un ingrandimento. Uno Stato diviene cartina sulla quale cancellare industrie, piazzare bandierine, segnare dighe, cancellare dighe appena segnate; poi, quando il gioco viene a noia, si stacca la stessa cartina dal muro, la si ripiega in un cassetto e a quello Stato, ai suoi abitanti, al suo futuro, non si pensa più. Di contro, un banale incidente d’auto viene ingigantito ad arte per mettere in crisi l’intero progetto di Underwood, come un altro fatto di cronaca viene strumentalizzato per far passare una devastante riforma dell’istruzione e umiliare e sottomettere i sindacati. 
Finché non si arriva alla costruzione di un vero e proprio plastico, riduzione in scala di una battaglia della Secessione americana. Un po’ come avveniva per i personaggi del Tristram Shandy, anche qui attraverso l’hobby si cerca di «gettare sulla vita e il suo flusso organico, mutevole, incontrollabile, il paradigma rassicurante di una sineddoche della vita stessa in cui tutto appare meccanicamente predisposto, immutabile e prevedibile» (Brilli 2008), in modo tale che si possa portare a compimento il progetto.

Frank Underwood è quindi contemporaneamente immerso nel suo progetto, ma pure capace di astrarsi da esso. Prende coscienza del suo duplice ruolo di personaggio e autore dell’autentica narrazione della serie, fino a commentare e introdurre ad alta voce la scena che è lì per compiersi.
Ad ognuno di questi ruoli corrisponde un pubblico al quale rivolgersi: uno interno alla narrazione, cui ammannire fiabe rassicuranti nelle quali riveste la funzione dell’eroe, di colui che risolve ogni situazione; un altro al di là dello schermo, cui svelare la grandiosità delle macchinazioni messe da lui in atto per giungere al vertice del potere.
Quando Frank Underwood guarda in macchina e rivela i suoi pensieri, a chi si rivolge? Verrebbe subito da dire a noi, al pubblico reale. Eppure bisogna tener presente che dinanzi a lui non esistiamo, limitiamo al bordo della sua scena, oltre la quale si figura interlocutori immaginari, cui solo una nostra ingenua percezione fa corrispondere a noi qui presenti. Ci sentiamo partecipi del compimento del suo progetto, affascinati dall’architettura della trama; siamo a un tempo complici e testimoni, esattamente come avviene quando assistiamo, passivi, alla spregiudicata ascesa dell’arrampicatore politico di turno che non ha alcuna visione per la comunità cui appartiene, ma solo ben chiaro il modo per ottenere la posizione di potere più alta possibile. L’unico vero spettatore di House of Cards è Underwood stesso, l’unico che possa ammirare soddisfatto l’articolarsi armonioso delle sue macchinazioni.

La gloria, quell’aura che è l’unico privilegio rimasto al popolo perché il solo a poterla concedere, gli è preclusa. La sola vertigine concessagli è data dal giocarsi tutto ogni volta, ad ogni puntata. Affacciarsi in punta di piedi sull’abisso e fermarsi un attimo prima di perdere l’equilibrio è l’unica ebrezza per lui possibile. L’inebriante acclamazione popolare, i bagni di folla, l’investitura gloriosa gli sono negate. Avendo privilegiato la trama, l’azione dietro le quinte, il sotterfugio, l’agire nel sottobosco (underwood), non può che ottenere vittorie dimesse, tristi conquiste. Il potere si riduce ai suoi segni: una stanza ovale vuota, una poltrona, una scrivania e un anello da batterci sopra. Dovrà conquistarsi il popolo, e per farlo, forse dovrà seguire il consiglio di sua moglie: strapparsi il cuore dal petto e donarlo nelle sue mani.


Nota (che è uno spoiler)

1 Esemplare è la puntata in cui Claire Underwood, presidente di una società filantropica utilizzata come copertura per trame illecite, dà l’elemosina, poco prima di entrare in un ospedale, a uno straccione: venti dollari per comprarsi qualcosa da mangiare. Poi entra nel reparto in cui è ricoverata la guardia del corpo di suo marito, in fin di vita. L’uomo le confessa di averla desiderata più volte nel corso degli otto anni in cui è stato al loro servizio, facendola oggetto delle sue fantasie. La donna allora accenna una masturbazione alla bodyguard, che rifiuta, avendola idealizzata, mentre quel gesto infrange l’idea che lui aveva di lei. Uscita poi dall’ospedale, lo straccione le lancia la banconota da venti piegata come un origami.
La masturbazione, gesto a prima vista così crudele da aver infranto il sogno sessuale di un uomo, è il vero atto di filantropia: messo dinanzi alla natura volgare della donna da lui idealizzata, il bodyguard morirà alleggerito dal rimpianto di non aver potuto soddisfare il suo desiderio. L’elemosina, gesto filantropico banale e patetico, viene rifiutata perché quei venti dollari non potrebbero migliorare la situazione di chi li riceve, bensì sarebbero serviti solo ad alleviare il senso di colpa di una donna benestante. Tornata a casa, Claire comincerà ad appassionarsi alla composizione degli origami, ognuno dei quali è, in molteplice e mutevole forma, la ripetizione di una sorta di memento: le illusioni, qualsiasi sembiante abbiano (desiderio, sogno, redenzione) sono fragili come figurine di carta (e riconducendo anche il titolo della serie a una dimensione intima, domestica, che riproduce un’inquietudine diffusa: un po’ come avveniva nel Lo zoo di vetro di Tennessee Williams).


Bibliografia

Brilli A. (2008): Prefazione. Un romanzo familiare, in Sterne L.: Vita e opinioni di Tristram Shandy, Rizzoli, Milano.

Filmografia

House of Cards (Andrew Davies – Michael Dobbs – Beau Willimon 2013-in corso)