alt«Forse le definizioni storicamente più accreditate – documentario, documentario di creazione, cinema del reale – dovrebbero cedere il posto a una nuova denominazione, perché sempre più spesso facciamo esperienza di un cinema di testimonianza, nel quale l’istanza documentaria si mescola a una serie di altre istanze (etiche, politiche, narrative, rielaborative), richiedendo così che ne siano ripensati gli stessi presupposti» (p.20). Ma ciò che Dario Cecchi, studioso di filosofia e cinema, sviluppa nelle pagine del suo saggio non è una mappatura né una metodologia d’analisi, non fornisce formule interpretative nette né tantomeno si preoccupa di enucleare una possibile gamma delle tendenze.




Il merito maggiore di questo Immagini mancanti. L’estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità (Pellegrini Editore) sta, piuttosto, nel registrare, esprimere, interrogare, scandagliare una transizione. Esattamente questo.  Proprio questo tempo. Non ci sono – perentoriamente – le vie di un cinema futuro, di quello che verrà, impossibile decifrarle. Del resto, anche titolo e sottotitolo suggeriscono una parzialità inevitabile, un campo d’osservazione mobile, uno sguardo “mancante”, appunto, non totalizzante.  Perché se l’epoca è quella dell’intermedialità, e dunque le si può dare – nonostante tutto, ma con consapevolezza –  un nome (Pietro Montani è un riferimento prezioso per Cecchi), le sue espressioni comunicative, artistiche, mediali continuano a rigenerarsi  in un terreno di forze aperto, poroso.

E «per il cinema di testimonianza […] vale  […] il principio di una temporalità affatto propria, che può essere definita come temporalità dell’autenticazione, intendendo con ciò il tipo di esperienza del tempo – e di esperienza tout court, dal momento che il tempo è una delle direttrici fondamentali della sensibilità – che ci è richiesto di fare quando trattiamo una traccia. Il tipo di lavoro richiesto dal cinema di testimonianza (e dai media moderni) consiste infatti spesso nell’operazione di definire lo statuto delle tracce (immagini, video) in cui ci imbattiamo – le quali fanno parte di un archivio informale (la rete) o formalizzato solo con criteri oggettivi di classificazione (i luoghi, gli eventi, le persone) – per farne oggetto di un’esperienza di memoria condivisa» (pp. 31-32).

Ed ecco allora le possibilità e le forme del web documentario o opere come Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, Triangle di Costanza Quatriglio, L’immagine mancante di Rithy Panh, Cadenza d’inganno di Leonardo Di Costanzo. Film che chiudono i singoli capitoli di un volume in cui trovano spazio e ragione altri titoli (degli stessi registi e di diversi altri, tra doc, fiction, incroci e indistinzioni: Oppenheimer, Garrone, Cuarón, Tarantino, Delbono, Marcello, Ferrente e Piperno, ecc.), ma queste sequenze, questi corpi, queste «Iconologie» non servono a tirare le somme quanto invece a rilanciare il discorso, a innestare nuovi rimandi e mondi nella trama complessa della riflessione, ad ed entrare in dialogo fra loro.

Occupano, nella geografia del libro – e questo elemento è molto interessante, suggerendo, in parte, la reale sostanza di questo lavoro di Cecchi – una sorta di immaginario margine, di periferia, un punto di approdo solo apparente. Perché la verità è che questo non è un libro sul documentario, la questione è invece molto più complessa, e ha a che fare con il vedere, produrre il mondo. Non ci sarebbero, altrimenti, in questo viaggio senza attracco ma ricco di visioni che è l’opera di Cecchi, Dziga Vertov e Paul Ricoeur, Jacques Aumont, Louis Marin, Emilio Garroni, Maurice Merleau-Ponty, Hans-George Gadamer,  Jean-François Lyotard, Gilbert Simondon, Philippe de Champaigne, Émile Benveniste, Susanne K. Langer. Teoria del cinema e dell’arte, filosofia, linguistica, testi, tesi e ipotesi da incrociare, mettere in crisi, riprendere, rinnovare di nuove pregnanze. «Simboli», «Segni», «Danza», «Immagine dinamica», «Rappresentazione» ecc. sono quasi  voci-mondo all’interno del testo, nuclei che aprono diramazioni, sono la tessitura fantasmatica e fisica del volume.

Ma quello che Cecchi ci consegna è, prima di tutto, una lettura del contemporaneo, anche politica, da intendere nell’accezione ovviamente meno contingente del termine. Qualcosa che non emerge mai esplicitamente ma sostanzia profondamente il saggio. Una lettura necessariamente incompleta ma affascinante. L’auspicio, anzi, è quello di poterla vedere proseguire ancora, magari all’interno di un progetto di maggior respiro, cadenzato, in divenire, e chissà che autore ed editore non ci abbiano già pensato. Un libro che, tra l’altro, fa il paio, arricchendosi di nuovi sensi, con un lavoro diverso eppure stranamente complementare, pubblicato sempre nel 2016 da Pellegrini: La tela strappata. Storie di film non fatti di Alessio Scarlato. Perché le immagini mancanti sono quelle che continuano a dare vita al cinema, e alle nostre visioni.


Filmografia

Un’ora sola ti vorrei (Alina Marazzi 2002)

Cadenza d’inganno (Leonardo Di Costanzo 2011)

L’immagine mancante (L'image manquante) (Rithy Panh 2013)

Triangle (Costanza Quatriglio 2014)





Titolo:
 Immagini mancanti. L’estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità
Anno: 2016
Durata: 216 pagine
Genere: SAGGIO
Specifiche tecniche: 15 euro
Produzione: Pellegrini Editore

Regia:
 Dario Cecchi

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