alt«Più i rapporti delle due realtà saranno lontani e giusti
più l’immagine sarà forte»
(André Breton)

«Non credo alle cose ma alle relazioni tra le cose»
(Georges Braque)

«Mai ho conosciuto un amore che non fosse un bacio
In mezzo alla battaglia
Una difficile tregua…
Un breve indulgere tra opposti stati
In conflitto»
(William Butler Yeats)


1. Lo spazio dell’Arena. La gabbia di sciagura

Nel 2002 il grande matador José Tomás decise di ritirarsi: aveva poco più di vent’anni, ed era considerato l’erede naturale di Belmonte e Manolete. Nel giugno del 2007 scelse la Plaza de Toros di Barcellona per il suo rientro: quello stesso giorno la città fu l’epicentro della più grande manifestazione contro la corrida di tutti i tempi: 5000 persone marciarono dalle ramblas all’arena, dove gli aficionados stavano acclamando il ritorno del loro eroe. Fu lì che ebbe inizio la campagna per la raccolta di quelle 180 000 firme che hanno portato all’abolizione della corrida in città a partire dal 31 dicembre  del 2011. L’accusa era semplice: la corrida veniva assimilata ad una tortura, e quindi, il matador a un carnefice.
È nell’antica Roma che hanno luogo le prime venationes, o combattimenti di uomini con animali feroci: «verso la metà del primo secolo a.C. le venationes diventarono uno spettacolo complesso e elaborato, che si fece particolarmente [cruento, nda] dopo l’inaugurazione del Colosseo nell’80 d.C. Il desiderio di novità spinse ad importare animali da tutto il mondo. Le arene erano allestite con cura, e la scena, che tendeva a ricreare uno spazio adatto al sacrificio delle vittime, spesso rappresentava ambienti di caccia. I partecipanti, a loro volta, indossavano costumi adatti alla situazione.» (Brockett 1988)

Furono i mori, durante le lunghe guerre di occupazione della penisola iberica a esportare il combattimento con i tori nella Spagna del sud. Si trattava di figure quasi mitiche, come il moro Gazul, che combatteva a cavallo contro tori giganteschi una “tenzone singolare”1.
Nel secolo XVIII si produsse, infine, la grande rivoluzione che doveva portare alla corrida moderna. I nobili a cavallo furono sostituiti dai toreri a piedi e si cominciarono ad elaborare quelle regole fisse che trasformarono una cruenta e disordinata mattanza in arte tragica.
Come spiega Leiris, i più illustri toreri dell’epoca furono Francisco Romero, presunto inventore della muleta, pezzo di flanella a forma di cuore sorretto da un’asta di ferro, Pepe Illo, che firmò uno dei primi grandi trattati sulla tauromachia e venne ucciso nel 1801 nell’arena, e Costillares, che fu il primo a colpire con una stoccata.

Trittico 1: Lo spazio vuoto dell’arena

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Fig. sx, Anfiteatro, Cassino, I sec. a.C.: nell’anfiteatro si svolgevano ludi gladiatori e venatori. N.B. La forma ellissoidale interrotta dall’apertura per l’ingresso dei protagonisti dell’azione cruenta
Fig. dx, Bacon Francis, Two Men Working in a Field, coll. priv., 1971: due figure di Bacon (variazione cinematica della stessa?) che arano-rigano un campo compiendo una ricognizione attorno al suo bordo periferico o “dintorno”. N.B. la curiosa analogia fra la forma ellissoidale dello spazio e una palpebra aperta.
Fig. centr.: Attendente spiana lo spiazzo dell’arena, Spagna, 2011. N.B. le varianti cromatiche che segnalano la divisione dello spazio in due metà (ombra-luce).

La tauromachia si svolge in un’arena (o Plaza de Toros): si tratta di uno spazio di forma ellissoidale, a metà fra un campo di atletica e un anfiteatro romano.
Divisa in maniera quasi manichea fra posti all’ombra (più costosi) e posti al sole (più economici), si pone in primo luogo, dall’esterno, come spazio assolato, fata Morgana: «bisogna tener conto inoltre del cielo torrido tipico della Spagna, che non è affatto così carico di colore e duro come ci si immagina: è invece di una solarità assoluta, di una luminosità abbagliante ma molle, calda e torrida, a volte perfino irreale a forza di suggerire, mediante l’intensità della luce e del calore, la libertà dei sensi» (Bataille 2005).
L’arena è soprattutto uno spazio rappresentazionale o luogo di una scrittura. Al suo interno scorre una linea incisa (poi colorata di bianco) che ne circoscrive il perimetro dividendolo in due zone, una esterna e una interna, intervenendo a segnalare un percorso, e, insieme, un limite. All’inizio, come in un palinsesto di cera, la superficie irregolare viene livellata da un addetto. Subito dopo viene incisa e dipinta la linea bianca: grado 0 e grado 1 della scrittura. È in questo istante che l’arena diventa simile ad un quadro di Bacon: è infatti in uno spazio simile che il pittore inglese amava ambientare i suoi kammerspiel che prevedono due attanti implicati in un movimento di dissipazione all’interno di un perimetro sollevato e sospeso, o in un cerchio suddiviso in due bande di colore (Study for a Bullfight n1, 1969). Il quadro in Bacon comporta una pista, un tragitto, dove la figura compie una specie di esplorazione e dove lo spazio-arena, come nella corrida, assume il valore di campo operativo, che trasforma la figura in un’icona impegnata in un movimento vertiginoso fatto di stasi, ristagni del sangue, contratture.
Analogamente, occorre che lo spazio della Corrida si riempia: ecco allora i toreri che provano le cappe e l’ingresso dei picador.

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È all’interno dello spazio compreso fra il bordo esterno della linea e gli spalti (spazio della preparazione del toro) che il picador farà correre il suo cavallo prima dell’ingresso dell’animale; è invece nello spazio di morte compreso fra il bordo interno dell’ellisse e il centro dell’arena che il matador si cimenterà nella “tenzone singolare” con il toro.
Sul tracciato neutro dell’arena interverranno tutta una serie di tracce: tracce dell’animale (di zoccoli, del corpo rovesciato), della parte inferiore della cappa (che, lambendo la terra lascia un alone come quello di uno strascico leggero da gran sera sul margine di terra battuta che circonda un’aiuola), dei toreri (i loro passi danzanti), dei cavalli (trascinati via).
All’impronta del corpo o del panno (che striscia e sfiora) segue una seconda iscrizione più cruenta: quella del sangue che sgorga, dall’animale che carica o dall’uomo ferito, fino alla traccia di sangue lasciata dal toro quando viene trascinato, morto, dalla quadriglia sgomenta dei cavalli piumati.
Il campo di scrittura quando il primo sangue viene gettato, si rivela per quello che realmente è: spazio di morte, spazio di sciagura..


2. La reincarnazione di Chisciotte. Una moderna taurokathapsia

L’ingresso del toro ha l’effetto di una scossa che scuote il mondo ordinato-nominabile dei toreri, che attendono nell’arena (la loro calma, l’indolente scotimento delle cappe sotto la calura, il languore dei gesti ancora intorpiditi per il viaggio notturno) e dei picador (la sognante presa di posizione sul margine “della seconda ellissi” dell’arena, dove questo fossile antidiluviano del cavaliere antico attenderà impassibile, in magnifica posa plastica e con la lancia puntata, l’assalto dell’animale).
Quando il picador avverte il cozzo delle corna che investono e poi squassano il fianco del cavallo esposto alla carica del toro (ma rivestito da un’armatura di gommapiuma per impedire la disseminazione delle viscere), comincia a conficcare, instabile sulla giumenta barcollante, la picca nel dorso dell’animale, come un bagnante che cerca di conficcare la punta metallica di un ombrellone sulla superficie scabra e dura di una spiaggia vulcanica. Lo scopo è fiaccare l’energia dell’animale, che si presenta sull’arena come animazione pura, colpendolo sulla sua gobba da combattimento, muscolo irrigidito fra collo e spalle come una piccola duna.

Tre erano i momenti che l’avvincevano: il primo, quando il toro sbuca fulmineo dal toril simile a un grosso ratto; il secondo quando le sue corna affondano fino al cranio nel fianco di una giumenta; il terzo, quando quell’assurda giumenta sfiancata galoppa per l’arena scalciando scompostamente e lasciando pendere tra le cosce un grosso e ignobile fagotto di viscere dagli spaventosi e pallidi colori, bianco, rosso, e grigio madreperlaceo. Simone palpitava soprattutto quando la vescica spaccata rilasciava la sua massa di piscio equino che piombava di schianto sulla sabbia, scrosciando. (Bataille 2005)

Trittico 2: Il Picador

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Fig. sx, Picasso, Tauromachia, 1957: mostra il picador nell’atto di scagliare la lancia. N.B. lo spazio dell’arena, il pubblico e i toreri stanti, resi con pochi tratti essenziali
Fig. dx, Goya, Tauromachia, 1814-16: come nel trittico che segue, il frame rappresenta l’archetipo dell’attante in questione: è il moro Gazul che a cavallo colpisce con la picca il toro che carica. N.B. la picca che viene conficcata nella gobba dell’animale
Fig. centr.: Toro che sventra un cavallo. N.B. la fuga precipitosa del picador sulla sinistra, il taglio longitudinale operato dal corno (che Hemingway assimilava ad uno strumento di precisione) sul ventre del cavallo.

Il picador è un cavaliere dalla triste figura vagamente donchisciottesco, che, forse a causa dell’inanità del suo compito, appare a un tempo comico come quelle figure di saltimbanchi del Picasso del periodo rosa, e dignitoso come un re caduto. Mal pagato, vittima di cadute rovinose che alla lunga provocano commozioni cerebrali piuttosto serie, è dotato di un abito multiforme: agghindato con una giubba sontuosa e un cappello a larghe falde, la gamba esposta coperta da un gambale di metallo luccicante a proteggere l’arteria femorale, è finanche bello quando mira al muscolo del toro con serietà e precisione, incurante della feroce baldanza dell’animale.
L’arena, in seguito al colpo di picca, si è macchiata del primo sangue.
A questo punto un paio di uomini si piazzeranno davanti al toro senza l’ausilio della cappa, lasciandosi coraggiosamente caricare: sono i banderilleros che corrono incontro al toro per conficcargli alcune corte aste sul dorso, le banderillas, bastoni con una punta di acciaio ricurva all’estremità. Esse vanno piazzate saldamente, a coppie, e servono a rallentare il toro e a regolarne la postura. Il banderillero si mantiene ritto sulle punte col corpo elastico e pronto al balzo, le gambe unite e le braccia tese verso l’alto, in una statusformeln istantanea piena di ritmo e gravità, che ricorda i balzi degli adepti durante la cerimonia religiosa cretese della taurokathapsia.
La corrida rivela adesso il suo ideale puramente atletico (nel terzo atto svelerà quello sacrificale).
Il banderillero dovrà spostarsi solo all’ultimo istante con un agile movimento di scarto, in salvo dalla carica perché il toro non può spostarsi in uno spazio più corto della sua stessa lunghezza.

Trittico 3: Il Banderillero

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Fig. sx, Goya, Tauromachia, 1814-16: il pittore mostra il momento in cui il banderillero conficca le aste sul dorso dell’animale, creando un’unica figura compatta. N.B. la vasta ombra che si dipana sotto di loro. In Goya vale lo stesso ragionamento che si fa con i pittori orientali. l’ombra assume quasi una valenza metafisica.
Fig. dx: Taurokathapsia cretese dal palazzo di Crosso: archetipo delle figure volteggianti del banderillero. N.B. le due figure femminili a lato, sacerdotesse che attestano le radici religiose dello spettacolo.
Fig. centr.: Balzo del banderillero. N.B. la prossimità fra l’uomo e la mole dell’animale, “la violenza delicata” con cui l’uomo rilascia i suoi arpioni colorati sul dorso della bestia.


3. «La izquierda, la izquierda!». Il panno rubato alle ninfe e il pezzo di flanella a forma di cuore

Il Matador sconfigge il toro con due aggeggi straordinari che provengono da livelli di esistenza assai più antichi, la cappa e la muleta: nessun trasalimento concorre a turbare l’algida impassibilità olimpica del suo sembiante: tutto il pathos, come spiega Didi-Huberman (2004) a proposito del panneggio di Ninfa, è stato trasferito al livello del suo accessorio volteggiante.

Trittico 4: La cappa var. 1

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Fig. sx, Leonardo da Vinci, Studio di Panneggio: dove il panno viene indagato quasi fenomenologicamente, come corpo soggetto a pieghe, stasi, contratture, N.B. la grande zona frastagliata, complicata da gore d’ombra, della porzione in basso
Fig. dx, Mattia Preti, Santa Veronica: la Santa stringe il panno con impresso il Sacro volto che prende il suo nome. N.B. le pieghe patetiche che attraversano la superficie, il modo in cui regge il panno, stringendolo fra pollice e indice, con la punta delle dita.
Fig. centr., Fred Niblo, Sangue e Arena: fata morgana durante la carica del toro: si tratta del panno rilasciato dal matador in fuga o della polvere che si solleva? Il frame successivo mostra il torero ferito e agonizzante al suolo. N.B. funzione di schermo della cappa

Trittico 5: La cappa var. 2

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Fig. sx, Francesco Mochi, Santa Veronica, Vaticano, 1629-32. N.B. la postura caricata, patetica della Santa e la  natura svolazzante dell’accessorio.
Fig. dx, Pontormo, Santa Veronica, Santa Maria Novella, Cappella dei Papi, 1515: anche qui appare evidente il modo patetico in cui la santa regge il sacro panno, in maniera identica a come farebbe un matador con la cappa
Fig. centr.: Dettaglio ravvicinato della cappa, in posizione opposta rispetto all’immagine precedente. N.B. medesimo orlo sopra le dita che impugnano la stoffa.

La cappa è un aggeggio patetico, rosa all’esterno e giallo all’interno. Ha un collo rigido ed è pesante e grande abbastanza da avvolgere il torero per intero come un mantello.
All’inizio serviva solo per distogliere il toro dal picador caduto o metterlo in posizione per le banderillas e la muleta. Nella corrida moderna, quello che era un semplice atto di allontanamento condotto nella maniera più aggraziata possibile, è adesso un momento pericoloso e affascinante e di elevata bellezza estetica. I movimenti con la cappa si chiamano quite o spostamenti, durante i quali il panno svela la sua natura di ondeggiante involucro ninfale. Essa è un vero e proprio accessorio a funzione patetica, che, scosso dalla sensibilità dei polsi del torero, si anima di una gran quantità di pieghe ricche di movimento intensificato:

Cagancho può talvolta, grazie ai suoi polsi meravigliosi, compiere i movimenti consueti della corrida così lentamente da farli diventare, rispetto alla corrida d’altri tempi, quello che è una pellicola al rallentatore rispetto alle pellicole normali. È come se un tuffatore potesse controllare la sua velocità nell’aria e prolungare la visione di un tuffo d’angelo, che nella vita reale è un balzo anche se nelle fotografie sembra una lunga scivolata, per renderlo una lunga scivolata come i tuffi e i salti che facciamo talvolta in sogno. (Hemingway 1992)

Il fine di ogni movimento è la ricerca della prossimità fatale con l’animale; si tratta anzi di impressionare (come l’immagine fotografata), congelare questa prossimità dislocandola in una specie di vicinanza inattingibile, scongiurando la morte dentro le pieghe patetiche, palpitanti del panno. Il passaggio con la cappa è detto “Veronica”, cosiddetto perché il panno in origine veniva impugnato con entrambe le mani come, nei quadri religiosi, è rappresentata Santa Veronica con il Sacro Panno con cui ha asciugato il volto di Cristo.
Questa migrazione del panno, va da sé comporta un duplice cambiamento di statuto: ad un cambio reale di oggetto (dal lenzuolo alla cappa) entrambi specie del genere “panno”, si aggiunge quello funzionale dell’uso (asciugare il volto di Cristo, fiaccare l’esuberanza dell’animale solare) e quello mitico (da reliquia a strumento operazionale). L’ultimo caso è particolarmente rilevante. Hemingway racconta in Fiesta che le cappe non venivano mai lavate, e conservavano ancora le chiazze di sangue rappreso, l’impronta, per così dire, della tenzone. Analogamente, il panno della Veronica era servito ad asciugare il volto del Cristo dai segni della passione e della fatica: il miracolo è la trasformazione di una serie di macchie di sangue nel volto del Salvatore.
La Veronica è però anche un movimento danzante, coreografico e complesso che richiede coraggio (a seconda della maggiore o minore vicinanza del toro) e abilità. Una Veronica eseguita con particolare destrezza, la gamba destra spinta contro l’animale in un cuneo appuntito e serrato o vagamente indolente, permetterà al torero di avvolgersi il toro intorno come un nastro di carne, fino a farlo crollare al suolo. A quel punto l’uomo può addirittura voltare le spalle all’animale e raccogliere gli applausi del pubblico.

Trittico 6: La muleta

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Fig. sx, Manet, Mademoiselle V. en costume de espada, 1862: dettaglio di un quadro di Manet di argomento taurimachico. N.B. la conformazione del  panno, simile allo strascico di una veste.
Fig. dx: frame dalla serie delle Tauromachie di Bacon. N.B. la traccia asignificante bianca di fianco al matador, che serve ad imprimere un surplus di movimento intensificato e la testa del cavallo morto in primo piano, simile ad una pozza iridescente e sinistra.
Fig. centr.: Il toro carica. N.B. la spada del matador nascosta dietro la muleta.

La muleta, aggeggio di precisione è una membrana che ha sussulti e guizzi, ma non possiede i grandi rivolgimenti della cappa; tellurica più che plastica, serve per uccidere come la cappa viene utilizzata, invece, per distogliere: la prima dà la morte, la seconda genera confusione. La muleta, strumento della realtà e della morte, si contrappone alla vita favolosa e abbagliante (ma non meno pericolosa) della cappa. La muleta è una sorta di schermo, di finestra orba, mussola di vetro indorato che cela il torero al toro. La cappa, invece, è una specie di passage di panno che dura il momento di un fiato: il toro entra in un dintorno che gli è sconosciuto. L’emozione è allora data da una semplice addizione: vicinanza (del corpo del matador) più lentezza (del movimento del corpo). «Si diresse verso il toro, lo inquadrò con due passaggi della muleta mettendogliela davanti al muso umido e ritirandola in fretta mentre le zampe anteriori del toro si alzavano per seguirla e poi ricadevano nella posizione adatta all’uccisione» (Hemingway 1992).
Finale, è la morte dell’animale, secondo due tipi di uccisione: volapié e recibiendo. Nel primo caso l’uomo attacca il toro (volo con i piedi) nel secondo l’uomo attende la carica dell’animale. Una volta colpito con la spada, l’animale, improvvisamente immobile e come folgorato comincia ad oscillare trattenuto da un filo invisibile, come quelle enormi navi-cargo che cordami robusti assicurano al molo e che non smettono di ondeggiare al ritmo blando della marea; quindi piega le zampe anteriori in avanti; infine, si rovescia di lato, come un albero abbattuto da contingenze puramente esterne, annegando in un turbinio di polvere.
Alla tensione, all’energia animata dell’inizio, segue questa mineralizzazione crudele, negata per un attimo dalla chiazza rossastra che riveste la groppa come un vello. «Qui la tragica realtà del cadavere rendeva impressionante quel colore rosso e compatto dovuto solitamente all’arte di un pennello» (Roussel 1964).
Accade allora, nello spettatore, qualcosa di complesso: il divieto che si impone a chi si trova al cospetto del cadavere, si dovrebbe tradurre in un indietreggiare, un respingere, un separarsi (gesto delle mani aperte colle palme riverse, delle prefiche), ma le gambe e il bacino compiono il  movimento inverso (voluttà di avvicinarsi, lambire, sfiorare): Freud sosteneva che nel tabù l’interdetto si oppone al desiderio di toccare «l’avvenire che attendo e tuttavia non sono». Basta infatti che la coscienza incappi nel cadavere perché accada qualcosa di inevitabile.
Da un lato essa si ritrae in sé, “dice no”, sentendosi non in armonia, ostile, chiudendo gli occhi o celandoli dietro il palmo della mano aperta. Dall’altro avviene qualcosa di opposto e, insieme, di complementare: dita che si allargano per permettere allo sguardo di indugiare, pupille che si dilatano nella vertigine della scoperta, respiro che, trattenuto a causa della meraviglia e dello sgomento. Si ha un trasalimento del cuore, che, come spiega Hillman, rappresenta quella risposta estetica primaria che implica l’«aspirare e inspirare il presentarsi letterale delle cose», per «interiorizzare l’oggetto dentro se stesso, dentro la sua immagine» (Hillman 2002).
«Alla fine il mostro solare viene messo a morte in modo impeccabile, la bestia accecata dal drappo di stoffa rossa, la spada profondamente immersa nel corpo già tutto coperto di sangue; si levò un’ovazione incredibile mentre il toro, barcollando come un ubriaco, cadeva sulle ginocchia e crollava zampe all’aria, spirando» (Bataille 2005).
Finale, e crudele fino all’irrisione, il trascinamento dell’animale fuori scena, ad opera della pariglia eccitata dal sangue e dall’odore del toro ucciso.


4. Come è possibile scongiurare la morte rimanendo fermi?

Durante la corrida lo spazio e il tempo si torcono e tornano sopra i propri passi, assumendo una forma paradossale che è quella dell’ellissi.
Lo spazio si restringe fino al “matar clus” consumato al centro dell’arena fra matador e toro. Il tempo, nell’inesorabile cadenza dei venti minuti per tercio2, rende la tauromachia un’azione convulsa sempre povera di tempo: nella corrida il tempo sta sempre per scadere; contemporaneamente, esso viene frazionato (nella serie plastica delle figure) e, al momento dell’uccisione, sospeso come in un’immagine di cristallo.
Ma l’azione non è la medesima per uomo e toro. Per il primo si tratta di un’esperienza tripartita composta da un andamento dapprima ascendente (movimento passionale che garantisce il raggiungimento della stasi), poi statico (movimento secondo della statuificazione dove tutta la tensione è rilasciata sul panno e il matador si compone come una statua ellenistica ricca di bellezza plastica), quindi discendente (rilassamento, voltare le spalle all’animale; è possibile finanche volgersi verso le gradinate):

Trittico 7: Statuificazione del Matador

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Fig. sx: fase 1 movimento ascendente: il matador si prepara per la carica e per l’assunzione della posa plastica. N.B. il petto rigonfio, la tensione.
Fig. centr., Apollo del Belvedere, Musei Vaticani: esempio classico per illustrare la “statuificazione”. È il momento immediatamente successivo all’uccisione di Pitone: i muscoli sono ancora irrigiditi, mentre i ricci ricadono sensualmente sul collo. N.B. il lembo della veste elegantemente rilasciato sul braccio teso.
Fig. dx: fase 3 rilassamento: il matador si volta a ricevere il plauso del pubblico. N.B. la muleta che striscia sul suolo.

Alla stasi plastica del matador seguirebbe il divenire del toro (che è simile, poniamo, al progressivo sfiorire di una pianta carnivora che però alla fine, viene recisa), lento passaggio dall’animale-pura forza animata, al cadavere del toro trasportato via dal chiasso della pariglia. In mezzo, infra, si assiste al suo progressivo venir meno, alla perdita della forza dell’animale grazie agli strumenti degli operatori. Al divenire statua del primo corrisponde la linea di forza (animale che si slancia, cuneo), lo sfinimento e il colore-irruzione (macchia di sangue che inonda la gobba dell’animale dopo la stoccata) del secondo.
Ricorrendo ai trittici e ai loro accostamenti per esaminare questo processo, vediamo che non si tratta, semplicemente, di un passaggio cinematico (serie di sequenze più o meno intense che culminano con la morte), ma di un vero e proprio passaggio di stato che, grazie ad una serie di strumenti, conduce dalla pienezza di vita alla “natura morta”.

Trittico 8: Trapasso del toro

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Fig. sx: /vita/ Carica del toro nello spazio dell’arena, anche, toro ferito che corre verso la morte.
Fig. centr.: /non vita/ Sul toro vengono utilizzati una serie di strumenti quasi cristologici (sono ben visibili il panno e la lancia).
Fig. dx, Picasso, Still Life with Steer’s Skull, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf, 1942: /morte/ Il toro diventa natura morta, teschio.

È questo l’incontro che si consuma sull’arena. Non un semplice duello, né tantomeno, una mattanza, quanto il continuo alternarsi, (che scandisce i tre movimenti della faena, misurati dall’implacabile scorrere dei minuti sul grande orologio), dell’elemento plastico-statuario, incarnato dal Matador, con quello, magmatico-informe, incarnato dal toro. In mezzo, e, al di là della prossimità fatale del contatto col corno, la possibilità della ferita (cioè il contatto avvenuto, la penetrazione). Si tratta di una contrapposizione fra principi opposti: il lato destro della coscienza limpida del matador-eroe, caratterizzato, classicamente, da nobile semplicità e quieta grandezza, e il lato sinistro delle energie inconsce incarnate dal toro: esuberanza tragica della vita, “materia esplosiva”, “eccesso di forza”.
È la stessa dicotomia che Michel Leiris aveva individuato in un passo dai Razzi di Baudelaire e che adoperò per parlare delle tauromachia: «ho trovato la definizione del Bello. Del mio Bello soltanto. È qualcosa di ardente e triste» (Baudelaire 1996): da una parte la bellezza ideale, sovrana, plastica, dall’altra l’infelicità, la sventura e il peccato. Malinconia più ardore, sazietà più desiderio di vivere, amarezza più voluttà: il risultato è la congiunzione di due idee contrarie, meglio, la loro simultanea compresenza, dove l’infelicità penetra nella bellezza come una ferita. Si tratta dell’estrazione, dalla bellezza imperturbabile e glaciale, di un elemento accidentale (animalità, contingenza): è la morte latente che dà colore alla vita, la guancia pallida della fanciulla che arrossisce.


5. «I’m waiting for my man»3. Errato travestimento cristologico del matador

Caricare il matador di valenze cristologiche è una prassi che riflette in maniera abbastanza evidente la tendenza contemporanea verso una spettacolarizzazione tutta esteriore che non tiene conto dei livelli profondi della significazione. È tipico del rito che si attarda (e, quindi, si impoverisce) l’essere sovraccaricato di elementi estranei che portano al suo fraintendimento.
Può accadere, infatti, che il torero muoia, ma a causa di un incidente inopinato, di un movimento errato del corpo, di un toro troppo difficile, o, infine, per aver accettato una dose eccessiva di rischio personale: la morte dell’eroe non è il fine della tauromachia, ma un suo accidente. Si tratta, al massimo, del superamento di un limite, di una hybris, eccesso di orgoglio, superbia, da parte dell’uomo.
Non bisogna però sottovalutare il fatto che la banale associazione del matador morente con quella del trasporto di Cristo possieda una sorprendente efficacia a livello dei significanti e della gestualità esteriore: è per questo che il cinema hollywoodiano, dai tempi di Sangue e Arena (Fred Niblo 1922), allo splendido remake di Mamoulian (1941) fino all’ultimo Manolete (Menno Meyjes 2008) utilizzano associazioni di questo tipo: il matador, secondo la ferrea logica del melò, deve morire. Ferito a morte, viene trasportato nei sotterranei dell’arena, e, quindi, compianto, come si vede nei tre trittici che seguono:

Trittico 9: Il Trasporto var. 1

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Fig. sx, Trasporto corpo morto di Meleagro, Musei capitolini, Roma, III sec. d.C. N.B., il pathos dell’azione, il braccio lungo disteso, sintomo patetico del rigor mortiis.
Fig. dx, Raffaello, Pala Baglioni, Galleria Borghese, Roma, 1507: Cristo viene trasportato di peso nel sepolcro. N.B. la tensione dei due necrofori, il braccio lungo disteso, il lato sinistro con la scena di lamentazione delle donne.
Fig. centr.: il Matador Josè Tomas viene portato via dall’arena dopo una terribile incornata. N.B. l’agitazione degli astanti attorno al corpo disteso, la muleta rossa distesa in fondo a destra, replica reificata della postura assunta dal corpo riverso del matador.

Trittico 10: Trasporto var. 2

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Fig. sx, Raffaello, cartone preparatorio per la Pala Baglioni.
Fig. dx, Bill Viola, frame del video Emergence dove le due donne traggono un livido Cristo morto dal sepolcro.
Imm centr., Fred Niblo, Sangue e Arena: trasporto del Matador ferito.

Trittico 11: Pietà

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Fig. sx, Michelangelo, Pietà, dettaglio.
Fig. dx, Fred Niblo, Sangue e Arena: Don Juan Gallardo morente e Carmen.
Fig. centr., R. Maomoulian, Sangue e Arena: morte del Matador, ricca fino all’inverosimile di riferimenti cristologici: la chiesa, l’altare, i ceri accesi, la grande pala seicentesca con il crocifisso. N.B. la vasta ferita sul ventre dell’uomo.


6. L’inizio è la mia fine. La fine è il mio inizio

La tauromachia è l’ultimo sacrificio cruento della modernità.
Jung spiegherebbe in termini non troppo dissimili lo scontro fra San Giorgio, eroe solare, e il Drago, rappresentazione delle forze inconsce di regressione. Secondo il fondatore della psicologia analitica, le formazioni archetipiche si manifestano come daimones, come agenti personali, e l’eroe rappresenta «ciò che dovrebbe accadere nella vita conscia ma non accade» (Jung 1980). L’eroe-animus è una figura di fantasia a funzione compensatoria rispetto all’atteggiamento della coscienza. Egli indica la «grande emancipazione di sé che giunge all’improvviso» (Nietzsche in Bataille 1994): quando risale fino alla coscienza accade che motivi onirici individuali abbiano affinità sorprendenti con mitologemi di una provenienza qualsiasi. Il combattimento eroe-mostro in Jung è una sorta di schema del conflitto fra due tendenze diversamente orientate: libido (forza positiva) e regressione (forza negativa). Da un lato una forza protesa in avanti che domina la coscienza, dall’altra la resistenza psichica che marcia a ritroso, da un lato il lavoro di adattamento alla realtà, volontà attiva, dall’altra il panico, la paura del mondo proveniente dall’imago materna che diviene Lamia, forza debilitante. All’affermazione di Sé, alla creazione e al libero impiego della volontà si contrappongono la nostalgia del passato e il ritorno all’inorganico. Al rinnovamento si contrappone la distruzione.
L’eroe, spiega Jung, è tale, perché in tutte le difficoltà della vita vede la resistenza contro la meta proibita e combatte questa resistenza con tutto l’anelito di cui è capace; ciò lo porta verso il tesoro difficile da raggiungere o irraggiungibile, anelito che paralizza o uccide l’uomo comune.
Da questo conflitto sorge la lotta a cui segue o la Vittoria, sempre provvisoria, «sul mostro dell’interno» o la Paralisi, ovvero «l’essere legati alla roccia, come Teseo e Piritoo, poiché non è facile far ritorno dal regno delle madri» (Jung 1980). Rinascita o assopimento, assimilazione o risalita.
È il conflitto: /morte/ vs /resurrezione/ e /smarrimento/ vs /ritrovamento/.
Purtroppo azioni eroiche di questo tipo non sortiscono di solito azioni durature: l’eroe affronta senza posa stenti e fatiche, dovendo rinnovare continuamente i suoi sforzi «sotto il simbolo della liberazione della madre» (Jung 1980) La morte della madre prende la forma del sacrificio rituale, ovvero della raffigurazione del processo di trasformazione che sta svolgendosi nell’inconscio.
L’essenziale, nella Tauromachia, non è quindi solo lo spettacolo, l’alternanza ciclica dei tercios, il sangue versato e la salvezza ottenuta all’ultimo istante, ma il ruolo rivestito dall’elemento sacrificale. Sacrificio anomalo, comunque, almeno per due ragioni: la prima è che il matador-sacrificante è continuamente minacciato di morte (anzi, la sua abilità è data dalla sua maggiore o minore vicinanza con l’elemento sinistro, mortifero, del toro). La seconda è che un sacrificio di questo tipo non ha alcun effetto risanatore o riparatore “evidente”: eppure la psiche dello spettatore da un lato subisce una sorta di catarsi, sperimentando il lato cruento della vita, il pathos del sangue versato e della prossimità con la morte, dall’altro gode di una particolarissima forma di godimento estetico, simile a quella descritta da Bataille davanti alla foto del suppliziato cinese: «mi provocò una convulsione lacerante: un fiotto di luce mi attraversò la testa dal basso in alto, voluttuoso come il passaggio del seme nel sesso» (Bataille 1994).

Trittico 12: Il Sacrificio

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Fig. sx, Lascaux, pozzo, dettaglio: bovide morente e ominide riverso, rappresentazione di un cruento rito di morte e rinascita. N.B. la scia di sangue scuro che si riversa sull’uomo disteso, con il becco ricurvo, forse sciamano con maschera animale, segno indexicale di metamorfosi.
Fig. dx, Hermann Nitsch, Aktion: il tentativo dell’artista e performer Hermann Nitsch è quello di raggiungere uno stato privilegiato (l’abreazione, scarica emozionale avente funzione catartica) attraverso atti rituali cruenti di aderenza e sovrimpressione (uomo-carcassa animale) smembramento (della carcassa animale) e effusione (delle viscere, del sangue, sul performer). Gli happening di Nitsch possiedono uno sviluppo coerente che segue fasi ben precise, in grado di assumere il valore di stazioni penitenziali.
Fig. centr.: Il matador Josè Tomas al termine di una corrida. N.B. l’abito completamente macchiato di sangue è la prova di aver lavorato molto vicino al toro.

Fine della tauromachia sarebbe allora il conseguimento di un momento di Verità attraverso la messa in scena di un’uccisione rituale – quella dell’animale totemico – che permette la trasformazione di una commozione psichica profonda (il sacrificio) in figurazione artistica duratura attraverso la sequenza indimenticabile dei tercios e delle figure fino al brivido della messa a morte. Il suo scopo sarebbe quindi quello di permettere, in una società povera di esperienze della soglia come la nostra, che sembra prediligere la mediazione del virtuale e la “povertà di mondo”, di sperimentare attimi di pienezza legati al tabù della ferita, del sangue versato e dell’omicidio rituale. Assistere alla tauromachia, magari a distanza ravvicinata4 permetterebbe di avere il privilegio di osservare da vicino quel dettaglio che sfugge alle categorie e corrisponde alle perturbazioni segrete, intime, della materia che si agita “sotto” la forma; e sperimentare quel tanto di morte, di opacità, che attraversa, da sempre, la vita, rendendola più ricca, e, forse, più degna di essere vissuta. Come scrive Keats, «di niente son certo se non delle affezioni del cuore e dell’immaginazione».
L’ultimo trittico mostra, le fasi finali della corrida: il toro riverso, senza vita, e il suo trascinamento fuori dall’arena ad opera della pariglia isterica dei cavalli. In mezzo, in rima con quanto mostrato all’inizio, le tracce di sangue rilasciate dal toro e la loro cancellazione.

Trittico 13: La traccia cruenta

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Fig. sx: Toro riverso. N.B. la densa traccia di sangue sull’arena.
Fig. dx: Il toro viene trascinato via dalla pariglia. È la fine della corrida.
Fig. centr.: Un attendente ricopre le tracce di sangue recente. N.B. la nuvola di polvere che nasconde-oblia la traccia cruenta.

La tauromachia finisce con due gesti emblematici: la trazione del cadavere dell’animale all’esterno dell’arena e la cancellazione del sangue versato con la calce. Si tratta di sopprimere ogni traccia del corpo morto, dopo la vasta sollevazione messa in mostra precedentemente. Nel frame centrale ritorna la figura dell’attendente in quello che si pone come un significativo rovesciamento dell’immagine centrale del trittico 1 con il quale questa esposizione è iniziata, ma se all’inizio l’uomo si limitava a livellare la superficie dell’arena, adesso il suo compito è quello di occultare, nascondere, attraverso una sovrapposizione, un’aggiunta, un secondo strato.
La cancellazione, segna, nello stesso momento, la conclusione del rito e la possibilità del suo (eterno) ricominciamento.

La tavola

Seq. 1 (figg. 1-4): L’arena
L’arena al suo apparire è una piece of waste land “curvata da un eterno ritorno” e divisa in due emisferi gemelli secondo la logica manichea della luce e dell’ombra. Alcune ellissi concentriche percorrono la sua superficie maculata come tracce di rasoio (figg. 1, 3), delimitando lo spazio che si fa sempre più compresso secondo la logica tragica e implacabile dei tercios. Sugli spalti, i veditori di mercanzia gridano «albanico para los toros» (letteralmente ‘ventaglio per i tori’), mentre, sotto di loro, i toreri si sgranchiscono le gambe, increduli e assonnati aspettando l’inizio della tenzone (fig. 2), e sapendo che saranno dannati al percorso circolare (come le figure di Bacon, fig. 4).

Seq. 2 (figg. 5-10): Il montaggio alternato. Vitalità/Uccisione
Il toro entra in scena come pura vitalità immanente.
Egli “non può far altro” che caricare la prima cosa che gli capita a tiro: la magnifica statua equestre del picador, bloccata nell’oggettivazione forzata di sé della posa plastica. Il cozzo è terribile (figg. 5-6) e riecheggia l’immagine dipinta sulle pareti di Lascaux, dove il bovide paleolitico si avventa contro il fianco del cavallo inerme.
In montaggio alternato (leggermente scostati in direzione opposta, come a sancire una sorta di dislivello di energia interno e la naturale attrazione fra la seq. 2 e la 5) seguono le tre immagini dell’uccisione del toro (fig. 7).
In fig. 8 il toro e il matador sono avvinti nel “terzo cerchio” del contatto ravvicinato: fine dell’erotismo, scrive Bataille, è l’indistinto, la confusione degli oggetti distinti (la  mescolanza, la perdita “sfocata” dei tratti). È la posizione per lo scatto, adottata dal reporter James Stewart5 sempre troppo “accostata all’oggetto” e, quindi, pericolosa; è la posizione del matador, che si lascia lambire dal corno, dalla sua ombra e dallo schizzo proveniente dal dorso ferito dell’animale. È il momento, se condotto con coraggio e grazia, durante il quale si realizza per una frazione di secondo la copulatio fra uomo e animale (fig. 9, la cappa che ricopre il corpo del toro come un drappo funebre, come una membrana, emblema della tragica vicinanza fra uomo e animale). Si dice, in quel momento, che egli si trova rinchiuso, “solo di fronte ai roveto ardente delle corna”: egli è avvinto, insieme all’animale, in un “matar clus”.
Finale è il gesto che uccide, il colpo di grazia detto descabello che penetra fra la base del cranio e la prima vertebra dell’animale (fig. 10).

Seq. 3 (figg. 11-17): La dissolvenza della Veronica: il panno come muraglia del divenire
Ma cosa implica la messa in scena del rapporto animale-uomo, e cos’è che li differenzia? Fra uno e l’altro vi è una frontiera mobile, il passaggio col panno detto “Veronica”.
Veronica (fig. 11), pia donna di tradizione apocrifa compare per la prima volta negli Acta Pilati con il nome greco di Berenice, l’emorroissa del vangelo di Luca che viene guarita toccando una frangia del vestito di Gesù; in latino il suo nome è in realtà un’espressione che indica la natura miracolosa del panno, “vera icona” del volto di Cristo. Sempre negli apocrifi, è presente anche nel Ciclo di Pilato (scritti relativi alla condotta di Pilato durante il processo e dopo la morte di Gesù) dove risponde così ad un inviato dell’imperatore:

Quando il mio signore andava in giro predicando, poiché io soffrivo troppo a rimaner privata della sua presenza, volli farmene dipingere il ritratto, di modo che, quando fossi priva della sua persona, mi offrisse almeno il conforto della sua immagine. Ma mentre portavo una tela ad un pittore perché la dipingesse, il mio Signore mi venne incontro e mi domandò dove andavo. Io gli confessai il motivo per cui mi ero messa in cammino mi ero messa in cammino ed egli allora mi chiese il panno e me lo restituì segnato dall’impronta del suo venerabile volto. Perciò se il tuo signore guarderà devotamente questo ritratto, immediatamente godrà del beneficio della guarigione.

Secondo la tradizione il panno è invece stato usato dalla donna per asciugare il volto madido di sangue di Gesù durante la Passione: l’immagine del volto sarebbe il risultato di una miracolosa impronta sulla stoffa. La Veronica è quindi, nel primo caso, uno di quei manufatti che servirebbero a scongiurare gli effetti di una mancanza, e si comporta come un’icona che lavora per somiglianza a distanza. Nel secondo, invece, è un’impressione miracolosa, un indice che opera per contiguità e contatto.
La serie di opere che Francisco de Zurbaràn ha dedicato al tema, (undici tele di dimensioni pressoché identiche che coprono un arco temporale che va dal 1631 al 1664), mostrano tutte un panno naturalisticamente sospeso grazie all’ausilio di alcune spille, sul quale al volto ben disegnato delle prime versioni (fig. 12) fa seguito, in quelle più tarde, non solo l’aggiunta di particolari aneddotici (la corona di spine, fig. 14) ma soprattutto la progressiva evanescenza del volto fino al limite della scomparsa (fig. 15). Come spiega Omar Calabrese, «c’è insomma una specie di scala di iconicità, che parte dalla chiarezza dell’immagine ritratta per giungere al minimo di riconoscibilità della stessa» (Calabrese in Corrain 1991). Il risultato è quanto di più simile al progressivo e triplice movimento di apparizione- affievolimento dei tratti-sparizione operato dalla dissolvenza cinematografica che consiste «in una interruzione deliberata della continuità fotografica», fino a raggiungere «un istante di non visione, un silenzio visivo» (Metz 1995). Mistero del panno della Veronica di Zurbaràn, che nella progressiva deliquescenza del volto santo sul panno sembra virare verso il silenzio del bianco, compiendo un vero e proprio balzo eidetico: l’immagine scompare perché viene interiorizzata nella “bocca del cuore” del fedele. «Cioè il paradosso della visione: più vediamo il mondo, che è materiale, e meno vediamo il divino, che è spirituale; ma meno vediamo il divino materialmente, più riusciamo a vederlo spiritualmente» (Calabrese in Corrain 1991)
Terminano la sequenza una meravigliosa Veronica (fig. 16) dove il panno lambisce l’animale e si distende nelle «pesanti scanalature di tende pieghettate» (Leiris 1999) e un’installazione di Christo (Valley Curtain, 1972): il panno è una muraglia posta dal principio d’ordine incarnato dal matador contro l’opposto principio del divenire incarnato dal toro.

Seq. 4 (figg. 18-22): Preghiera e morte. Aprile è il più crudele dei mesi
L’incipit della sequenza (fig. 18) mostra il giovanissimo matador Manuelito (appena dodicenne) inginocchiato dinanzi ad un altare con numerose immagini sacre. Egli prega per la buona riuscita della tenzone, e affinché il toro, al termine della sequenza dei tercios, muoia come accade nell’immagine sottostante, accostata a quella del cristo morto, agnus dei messo a morte al termine di una serie di stazioni penitenziali (figg. 19-20).
Nella parte sottostante, il bisonte paleolitico attraversato dalle frecce acuminate (fig. 21) sottolinea nuovamente l’aspetto sacrificale della sequenza, che termina con il frame del Mese di Aprile secondo l’interpretazione ferrarese di Francesco del Cossa a Schifanoia. Aprile è il mese posto sotto il segno del toro, che ha come nume tutelare Venere. Nel registro superiore la dea dell’amore è seduta sul suo carro trionfale con Marte inginocchiato accanto a lei. Ella sembra voler incarnare la forza dell’elemento femminile della virtù amorosa che doma quello maschile della violenza guerresca. Sulle due rive alcuni giovani si abbracciano: un ragazzo bacia dolcemente una fanciulla che risponde ai requisiti della donzella agghindata, mentre un’altra coppia, di spalle, sembra impegnata in un discorso amoroso; altri hanno strumenti musicali. In alto, le tre Grazie rimano con tre giovani sul lato opposto: una volta domato l’elemento guerresco-conflittuale incarnato da Marte, il mondo può aprirsi alla gioia aggregante dell’amore condiviso.

Seq. 5 (figg. 23-33): Il Sacrificio
La sequenza si apre con il dittico panno-taglio (figg. 23-24, dettaglio del dipinto di Manet Mademoiselle V. en costume de espada del Metropolitan, accanto ad un Concetto spaziale di Fontana): il panno prepara-posticipa il momento del taglio provocato dalla spada (fig. 24).
Nel film L’impero dei Sensi (Ai no Korida, 1976) Nagisa Oshima fa dell’amore adulterino fra una serva e il suo padrone una tauromachia, con tanto di divisione della diegesi in tre parti: spoliazione (della donna che mostra all’uomo una serie di panni che coprono il livello soggiacente della carne), copula (momento dell’atto erotico vero e proprio, secondo una logica di aumento del grado di intensità), messa a morte (durante la quale l’uomo viene soffocato ed evirato).  La sequenza mostra in montaggio alternato il matador José Tomas con la spada lorda di sangue, la donna accanto al corpo morto ed evirato dell’amante e, quindi, i due dettagli dell’orecchio del toro e del pene dell’uomo, che rovesciano simbolicamente il denso sangue graveolente (figg. 25-29) sulle quattro immagini sottostanti. Il sangue proveniente dal quarto di bue di fig. 30 (da un’Aktion di Nitsch) si deposita in basso sul set ricoperto di tela bianca, formando una macchia che si ritrova, per rima plastica, sull’asse di legno in prospettiva nel quadro di Bacon (fig. 31), «sangue di spodestato raccolto in pozza [che] s’incollerà forse, per scarsità di sabbia» (Leiris 1999). A saldare questi ultimi due frame e l’intera sequenza 5 con la sequenza 2 della messa a morte intervengono i frame 23 (tenda rossa-mnestica di Twin Peaks, affiancata alla muleta che si distende sul toro nascondendolo di fig. 9) e 22 (Burri, buco nero all’interno del formante rosso, affiancato al frame che mostra il momento nel quale il matador finisce il toro accucciato di fig. 10).
Incipit ed explicit, infine, sono emblematicamente speculari. Alla forma dell’arena corrisponde l’analogo formante circolare del buco e del sangue versato, e, come nei trittici, allo spazio vuoto dell’arena segue l’iscrizione violenta del sangue versato.
Nonostante il gusto favoloso dei costumi, l’irrigidimento del rito e delle sue convenzioni, e la crescente indifferenza dei giovani, la tauromachia continua ad offrirci l’esempio di un’arte dell’immediato, dove nulla ha valore se non nell’attimo presente e dove la catastrofe aleggia durante l’intera serie delle peripezie: l’irreparabile può avvenire in ogni momento.
Ma, come scrive Michel Leiris: «di fronte a quel toro eternamente rinascente ci sarà sempre, per suo trionfo o disfatta, un nuovo torero» (1999).


Note

1 In Messico prima della corrida vera e propria viene spesso inserita, a mo’ di prologo, una analoga “tenzone singolare” fra un uomo a cavallo armato di lancia e il toro. Si tratta del rejoneador (che può essere anche una donna, come la splendida Monica Serrano).

2 In Messico invece un tercio (una delle tre parti in cui è divisa una corrida) può durare tranquillamente anche più di trenta minuti. Se il pubblico cerca di affrettare troppo le cose al grido «un, dos, tres mata il toro!» o con urla di disapprovazione, non è infrequente che il matador si volti predicando la calma. È successo anche quest’anno, ad esempio quando l’esperto torero Eulalio Lopez “Zocoluto” alle prese con un toro nervoso, si è voltato verso il pubblico facendo segno con le braccia di avere pazienza, mentre il toro gli fissava le spalle.

3 I’m Waiting for the Man, The Velvet Underground, 1967.

4 È possibile nei posti più costosi, che “rodeano”, circondano l’arena, chiamati Barrera.

5 in La finestra sul cortile di Hitchcock.


Bibliografia

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Filmografia

La finestra sul cortile (Rear Window) (Alfred Hitchcock 1954)

L’impero dei Sensi (Ai no Korida) (Nagisa Oshima 1976)

Manolete (Menno Meyjes 2008)

Sangue e Arena (Blood and Sand) (Fred Niblo – Dorothy Arzner 1922)

Sangue e Arena (Blood and Sand) (Rouben Mamoulian 1941)

Twin Peaks (David Lynch – Mark Frost 1990-91)