Se il cinema è morto, non resta che inscenarne la ricognizione e l'autopsia. Le immagini sulle quali scorrono i titoli di testa di The Canyons sembrano confermare l’assunto di partenza: sale cinematografiche abbandonate, seggiolini consumati dall’incuria, schermi vuoti e sfondati, relitti di un’apocalisse che non ha risparmiato nulla, neanche l’umano, salvo l’occhio che registra i postumi della catastrofe. Paul Schrader assume il punto di vista del superstite che non può nulla se non chinarsi sul corpo ancora caldo della vittima e cercare tracce che conducano all'assassino, e al movente. Ma l'occhio indagatore non giunge ad alcuna conclusione razionale, anzi, le tracce visibili sono solo apparenze, fatte apposta per cogliere in fallo il raziocinio, frammenti e frame residui di uno specchio immaginale rotto.


Il film si pone come oggetto insondabile, come se immagine, ovvero la pura superficie priva di profondità, e Canyon, profondità incommensurabile, coincidessero: la superficialità della trama viene resa dai crepacci che segnano e frantumano ogni significato. Il cinema, attraverso la logicità della trama, era riuscito a supplire alla mancanza di senso del reale, ed affascinava il pubblico stanco del quotidiano. Nel momento attuale il reale esonda incontrollato da un'infinità di schermi sotto forma di flusso immaginale, il cinema perde di senso, defraudato della potestà che aveva nella produzione di desiderio, di sogni e quindi di immagini. L'inondazione del reale ha spazzato via tutto, lasciando solo il riflesso del nulla che si celava dentro di sé, riflesso che viene catturato dall'occhio e ripetuto, riproiettato sullo schermo, in un eterno rimando a se stesso. Le forme che il reale assume sono quelle dell'immaginale e viceversa, siamo in pieno eccesso del reale (o iperreale). L'autore si nasconde fino a dover mettere in scena un assassinio che valga come transfert della sua messa a morte da parte di attori e produttori. Ecco allora che verso la fine vittima e carnefice si scambiano di ruolo, o forse sono la stessa persona che cambia di segno: abbiamo assistito così solo a un lungo e inevitabile suicidio. E come unico testimone oculare del delitto e al tempo stesso complice più o meno inconsapevole (colpevole almeno di accidia) lo spettatore, che si fa pubblico e che dissolve il suo sguardo fino a vedere con gli occhi dei suoi vicini di posto e abbandonarsi a una non esistenza. Indossa una maschera sorridente, ride delle maschere.

In Italia il pubblico, quando c'è, va a vedere Sole a catinelle, e ride a crepapelle, ride del sogno, ride dell'ottimismo, ride della sequela di luoghi comuni che tengono prigionieri un intero paese. Checco Zalone non rappresenta l'uomo medio, è contemporaneamente un po' oltre e un passo prima. È oltre perché riesce a decostruire ognuno dei tipi fortemente caratterizzati che incontra nel corso del film (la vecchia zia taccagna, l'imprenditore-squalo, la psicologa radical-chic, il regista pseudo intellettuale e così via) limitandosi a spingere leggermente i loro difetti, già prossimi al limite dell'autoparodia, verso lo scivolamento nel nonsense attraverso dei semplici rovesciamenti linguistici o comportamentali: ed è di questo capitombolo dei significati che il pubblico ride in prima istanza.
Ma Checco non arriva allo stesso livello di mediocrità che di solito si attribuisce allo spettatore che lo guarda (attribuzione del resto snobistica e spesso mal argomentata), si arresta un po' prima: è l'uomo senza qualità che può indifferentemente indossare qualsiasi divisa (dal maglioncino rosa annodato sulle spalle alla maglietta di Che Guevara, dalla mise da uomo delle pulizie al gessato da manager) riducendola a mero travestimento, che sottrae a qualsiasi oggetto il suo valore simbolico (un letto su cui ha pisciato Checco da piccolo ha lo stesso valore d'uso di quello sul quale ha dormito Hegel, e si può maneggiare con noncurante destrezza sia una mazza da golf che una bandiera rossa con falce e martello): ed è anche di questa liberazione da ogni gabbia di significati sclerotizzati che ride il pubblico, stavolta di sollievo.
Il meccanismo di rovesciamento che faceva ridere in prima istanza coincide così con un processo di disvelamento: dicendo esattamente quello che pensa, Checco ridefinisce oggetti, persone, situazioni, riconducendole ad una dimensione di completa asignificanza che viene percepita come più vera, di una verità non assoluta o trascendente, bensì, in maniera più banale, aderente con il comune modo di pensare. Ad esempio, quando riduce l'icona di Che Guevara a un brand simile e fungibile con altri, ne definisce la fine come simbolo, e lo fa sinceramente, senza malizia, confortato dal fatto che il pubblico la pensa come lui e che a sua volta si sentirà rinfrancato dall'atteggiamento di Checco, il cui unico talento è di riuscire a dire quel che molti pensano ma non dicono, per timore del giudizio morale.

Una volta stabilita l'asignificanza come vero comune modo di pensare, è possibile un approccio apoliticamente corretto nei confronti di ciò che è considerato inviolabile: si può ridere dei bambini e dei loro (presunti) disturbi comportamentali, per liberarli dalla rappresentazione che di loro viene data dalla maggior parte dei film italiani (ovvero dell'infanzia come fase problematica ma innocente) e restituirli ad una dimensione più giocosa e lieve; si può ridere dell'eutanasia, sia della sua rappresentazione che di tutti i dilemmi morali che comporta, e ridurla ai capricci di una vecchia zia; si può ridere della crisi economica e delle proteste dei lavoratori, risolvibili con un "rimbocchiamoci le maniche e volemose bene"1. Questa semplificazione reazionaria, che mira a depotenziare ogni conflitto, auspica un mondo finalmente e facilmente intellegibile, dove ad ogni cosa corrisponde un solo nome e una sola definizione, un mondo in cui sostituire l'ottimismo plastificato del debito contratto per più consumare con l'ottimismo concreto dei legami affettivi e sociali. Il sogno consumistico che era stato deriso sin dall'inizio viene sostituito dal quadretto familiare felice come massima aspirazione possibile, un sogno meno luccicante ma più consolatorio e, a prima vista, più alla portata di ognuno, un sogno medio, che ha nell'equilibrio il suo valore di riferimento.
Ma il reale, col quale il sogno di Checco gioca, sfugge ancora, e si riprende la sua rivincita quando viene svelata la natura posticcia del film: una resa alla realtà quindi, un'ammissione di impotenza dinanzi all'irrisolvibile problematicità del mondo delle apparenze.

Le apparenze si danno come percezioni delle cose: vaghiamo in un ambiente antropizzato, rigurgitante di oggetti costruiti dall'uomo che compongono un'enorme scenografia in cui inscenare le nostre azioni. Ma la relazione con l'oggetto è prima di tutto visuale e molto spesso è solo di questo tipo. Così gli adolescenti di Bling Ring che entrano nelle residenze private delle star paiono voler soddisfare primariamente il desiderio di vedere e poi quello di essere visti con oggetti che appartengono a un mondo fatto di puro desiderio. Il rischio che corre un autore in questi casi è quello del facile moralismo, di dar forma, cioè, all'ennesima storia di cattiva formazione con tanto di insegnamento finale.
La Coppola tenta di sottrarsi alla dualità cui è abituato il pensiero valutativo occidentale (riassumibile nella contrapposizione Bene/Male) cercando non tanto di assumere un punto di vista oggettivo, quanto piuttosto di far venir meno il più possibile il suo essere presente al di qua dello schermo: predilige la camera fissa, posta spesso all'altezza dello sguardo di uno spettatore che si trova a passare dinanzi alla scena quasi per caso; se proprio deve muoversi, lo fa con movimenti che ricordano quelli umani, non tanto per partecipare alla vicenda quanto per seguirla da un punto di vista che si potrebbe definire del casuale testimone curioso, come se la vicenda filmica si facesse da sé, fluisse davanti allo sguardo autoriale in automatico, senza alcuna intromissione esterna2.

La scelta stilistica di evitare un qualsiasi coinvolgimento autoriale induce la Coppola allo stesso tempo a non subire la fascinazione dell'immagine delle star che vengono evocate (e quasi per nulla riprese, se non attraverso immagini riportate da TV o altri media) nel corso del film, come se volesse preservare lo sguardo dalla vista diretta dell'aura dei divi. Evitando quindi di riprodurre la visione aurorale dell'icona pop, dobbiamo quindi cercare di arrivare per deduzione ad aderire allo sguardo degli adolescenti che compongono la gang del Bling Ring. Partiamo da un presupposto banale: è una tensione naturale dell'umano aspirare alla gloria, e la gloria, nella società dello spettacolo in cui viviamo, è quell'aura che circonfonde le star, le cui immagini vengono riprodotte dai media (e al tempo stesso rese perfette dai ritocchi del photoshop sino ad assurgere a un'assoluta intangibilità angelica). Non sorprende quindi che un gruppo di adolescenti desideri in qualche modo far parte dell'aura, a costo anche di profanarla.
A stupire sono invece altre due cose nel film: l'estrema accessibilità delle ville e la naturalezza con cui gli adolescenti condividono e diffondono le immagini della refurtiva. La villa di Paris Hilton appare nel suo interno un tempio costruito allo scopo di adorare la sua immagine. Il santuario, tradizionalmente, era luogo che custodiva l'invisibile nella sua parte inaccessibile. Mentre la scala di Giacobbe conduceva dal visibile all'invisibile, quella della villa Hilton porta dal tangibile all'intangibile. E se l'invisibile trascendente è in sé inaccessibile alla sensibilità esterna, di contro il desiderio di massima visibilità della propria persona fisica implica anche una propensione delle star all'accessibilità nel loro privato. Il tempio da lei costruito per l'adorazione della sua immagine è facilmente accessibile sin nella sua parte più sacra (il guardaroba) e conduce alla pura contemplazione dell'icona della star, alla stella e alla sua luce. Ma la divinità della diva sta nell'essere al tempo stesso visibile e intangibile, carnale e immaginale: il rito che gli adolescenti celebrano nelle sua villa è la consustanziazione della sua aura in oggetti fashion, oggetti da portare con sé fuori, per poter scintillare della stessa luce. È l'affermazione di una comunione con l'aura che li induce a una separazione dal mondo fisico e tangibile e dalle sue leggi.

Gli adolescenti, ridiscesi nel mondo, custodiscono gli oggetti della refurtiva come fossero reliquie per poi mostrarli come se indossassero paramenti iconici fortemente simbolici. Per loro l'apparenza coincide con l'essenza. Credono di essere imprendibili dalla legge perché intangibili come immagini. Privi di morale, pensano di essere irraggiungibili al giudizio esterno o, molto probabilmente, neanche percepiscono la presenza di un organo giudicante. Vivono in una dimensione separata, tutta virtuale (nel senso di immaginale, più che cibernetica). L'unico valore è la visibilità, quantificabile nel numero di “amici” e di “like” su Facebook.
A distinguere i fan dalla diva è l'inverso movimento che hanno compiuto per divenire visibili: mentre la diva si concede, proveniente da un iperuranio inattingibile, gli adolescenti di Bling Ring invece tentano di salire verso il mondo delle star. Di questo vengono puniti, del loro tentativo di divincolarsi dalla realtà cui appartenevano e che, una volta scoperti, li ha reclamati a sé con la forza. Il carcere in cui vengono imprigionati è proprio la realtà tangibile, la corporalità.

Il loro scopo è l'epifania, non importa in che maniera, a costo pure del carcere. L'epifania, nonostante sia legata al carattere transeunte del momento in cui la visione si dà, ha in sé la promessa di lasciare un segno, fugace (durevole il celebre quarto d'ora warholiano): è la durata del presente dello spettacolo, differente dal presente inteso tradizionalmente. È un distacco dalla temporalità lineare, l'adolescente esprime nel presente spettacolare il suo rigetto per il ruolo per lui pensato da altri per lui. Questa sorta di adolescentizzazione del tempo coinvolge tutti, anche gli adulti nominali, in primo luogo i genitori dei componenti della gang, che avvertono il rischio di essere fuori tempo, o meglio, fuori dal tempo spettacolare.  I personaggi di Bling Ring non sono più interessati allo spettacolo del mondo, anzi, lo percepiscono come un impedimento (o addirittura un infingimento) che non li lascia accedere all'unico spettacolo inteso come tale, il solo vero proprio perché virtuale e intangibile, perfetto e fatto di pura luce.

L'immagine, essendo intangibile e quindi irraggiungibile, agita la fantasia e il desiderio. Nel momento in cui si tocca e si viene toccati si attesta la presenza di due corpi, e la percezione puramente immaginale che si aveva dell'altro termina. Forse per questo in Venere in pelliccia il contatto fra il regista e l'attrice viene ritardato il più a lungo possibile, per estenuare il desiderio sessuale. Sono gli unici personaggi in scena per tutto il film, dove la scena è letteralmente un palcoscenico teatrale desertificato dal quale affiorano come relitti oggetti scenografici provenienti da spettacoli precedenti, da altre fantasie: tutto il reale sembra essere stato sgombrato per lasciare sole le due figure archetipo, lui e lei – in subordine i loro ruoli, regista e attrice. Il dramma da allestire è l'adattamento teatrale della Venere in pelliccia di Masoch, autore che nella sua opera ha sempre evidenziato come dietro ogni relazione interpersonale sia sotteso un rapporto di potere, rapporto che nella finzione delle prove teatrali si concretizza nella stipula di un contratto3.
Il contratto è un oggetto ricorrente nelle pratiche masochiste, è uno strumento che serve per rimarcare la natura violenta della razionalità: è il ragionamento, con la sua calma e la sua freddezza, ad essere crudele – e Polanski ce lo aveva mostrato nel massacro verbale del suo precedente Carnage (2011). Attraverso la dialettica, i due iniziano a sperimentare gli assunti del testo di Masoch, nel tentativo di ridurre l'altro a personaggio. Allo stesso tempo, ognuno dei due soggetti lavora su se stesso per divenire sub-jectum, ovvero oggetto sottomesso più facilmente manipolabile. I continui travestimenti non servono a sottrarsi alla pratica di asservimento, quanto proprio a negarsi come identità uguale a sé, come individuo capace di esprimere una volontà.
A cadere, infine, è proprio il carattere sessuale, sostituito dal feticcio. Il feticcio, nella pratica masochista, appare come un disconoscimento del reale che serve a sospendere la realtà: è attraverso l'ideale che è possibile fissare il corpo in un'immagine, e tale fissità è possibile solo se si sospende il corso reale del tempo. Sul palcoscenico è la donna a divenire figura, impronta visiva di un'idealità (prima ottocentesca, poi classica e infine primordiale e baccante), mentre l'uomo resta legato al feticcio del suo pene, più grande di lui, ai cui desideri deve soggiacere.

Uno sviluppo ulteriore si potrebbe ottenere riducendo a feticcio il corpo dell'altro nel suo insieme: è quanto succede in Dietro i candelabri, nel rapporto sin dall'inizio sbilanciato tra mentore e protetto, possidente e mantenuto, tra chi detiene una ricchezza di mezzi della quale non si intravede il fondo e chi ha come  unico capitale il proprio corpo. È l'avvizzita star Liberace ad avere il controllo assoluto del suo boyfriend, biondo giovane e belloccio, riducendolo a bambolotto, a orpello tra gli orpelli sfarzosi della sua villa, arredata secondo il discutibile e ironico stile del “kitsch imperiale”, con il quale lo scarto, l'inutile, il superfluo, il contraffatto grossolano vengono elevati a contrassegni maestosi e regali. Una maestosità che proviene dall'aura dell'immagine di Liberace, la quale si rispecchia nello scintillio che gli oggetti riflettono di rimando. Allo stesso modo, il toyboy opera su di sé un lavoro di reificazione per poter anche lui riflettere l'aura, per appartenervi: il suo fine è quello di rientrare nel sistema codificato delle suppellettili, di svuotarsi dell'illusione di possedere un interiorità depositaria di un carattere originale. Mettendo a valore il proprio corpo, consente al suo nuovo padrone di appropriarsene, fino a cedergli il suo volto: e se l'idea è il volto della cosa4, qui coincide con la cosa stessa, ovvero con il volto ringiovanito di Liberace (una sorta di Dorian Gray al contrario, che vede il suo corpo avvizzire e la sua immagine, riflessa sul volto di un altro, rifiorire).
Tutto il film si presenta come il tentativo di creare un'immagine, ogni volta più aderente all'ideale, tant'è che
i nessi narrativi all'interno del film sono praticamente inesistenti e si ha l'impressione che lo sguardo scorra,  in una lunga carrellata, da un quadro sull'altro. Le tonalità ricorrenti in questa pinacoteca sfarzosa sono il bianco, simbolo della purezza (dove l'impurità è la vecchiaia) e il dorato della gloria (che è l'aspirazione di fissare la propria immagine nella memoria): entrambi i colori si oppongono al passar del tempo, ma il nero, fatale e mortale, incombe, sino all'ineludibile quadro finale: sipario.


Note

1. Altro film italiano dello stesso tenore è L'intrepido, dove il falso valore della flessibilità contrattuale, che si traduce in imposizione o addirittura in ricatto ai danni del lavoratore, viene rovesciato in straordinaria attitudine alla mimesi. Antonio Albanese è l'uomo senza progetto esistenziale per se stesso che, pur di lavorare, accetta di buon grado qualsiasi impiego, riuscendo miracolosamente a svolgere ognuno di essi in maniera egregia. I lavori nei quali si cimenta sono per lo più manuali, come a voler significare che chiunque, posto in quelle condizioni, sarebbe capace di eseguirli. Un tale misconoscimento per il lavoro operaio trova la sua antitesi nell'esaltazione del lavoro artistico e del talento musicale del figlio, nel quale il padre riversa le proprie aspirazioni. Siamo ancora dalle parti del rapporto padre-figlio tanto abusato nella filmografia contemporanea italiana, dove il padre sacrifica se stesso per trovare riscatto nella realizzazione del figlio. Ma quando il figlio potrà liberarsi di un simile ricatto? Il merito di Sole a catinelle è di porre il rapporto padre-figlio in maniera biunivoca, come scambio (dove l'unico scambio possibile è quello che implica una perdita): il figlio, a contatto col padre infantile, abbandonerà le vesti del genio precoce e diventerà finalmente un bambino, sebbene a costo di una leggera “cozzalizzazione” (cozzalo, in Puglia, è sinonimo di triviale, cafone, da cui deriva il gioco linguistico “Che-ccozzalone”) mentre Checco, attraverso l'esperienza con il figlio, diventerà un po' più maturo e responsabile, accettando di perdere qualcosa di sé, di lievemente “decozzalizzarsi”.

2. Ci sono ovviamente nel film della Coppola delle eccezioni a quanto scritto finora.  Ad esempio percepiamo la presenza della macchina da presa nella sequenza in cui i due adolescenti penetrano in una villa quasi completamente trasparente: la camera è posta all'esterno e compie un lento zoom, mentre i due, correndo, entrano ed escono dalle varie stanze, salgono e scendono scale, aprono e chiudono porte, come potrebbero fare in una house keatoniana. Ancora, si nota la costruzione della scena quando entriamo per la prima volta nella sala da pranzo di una ragazza della gang, con lei, seduta di profilo, che è posta al centro e più vicina alla camera, poco più indietro il padre, sulla sinistra, anche lui seduto e di profilo, ma con lo sguardo volto in direzione opposta a quella della figlia mentre legge il giornale  con i cagnolini ai piedi, più in là sulla destra la madre che parla senza essere ascoltata e in fondo la cameriera, ripresa di spalle, che fa le pulizie: ognuno dei personaggi occupa un proprio livello prospettico parallelo a quello degli altri, in modo tale da non incontrarsi, neanche all'infinito.

3. Il momento della stipula è anche quello più “cinematografico” di tutto il film (forse l’unico veramente girato con l’intento di fare cinema): Polanski conferma lo stile sobrio che dal Pianista in poi ha adottato nei suoi lavori, con l’intenzione di cancellare se stesso e per dare allo spettatore l’impressione di non guardare un film (e in questo senso Venere in pelliccia sembra il remake di Luna di fiele (1992), altro dramma masochista, questa volta però rigirato nella continua negazione di dover fare cinema). Quando però il regista firma il contratto, oggetto immaginario che esiste solo nella finzione del dramma, la sua mano prende una penna invisibile e firma un foglio invisibile; deve poi far firmare l’attrice, e le porge il contratto con il gesto classico che si vede al cinema, ovvero ruotandolo sul tavolo in sua direzione: si pone qui un problema strettamente cinematografico, ovvero come rendere visibile qualcosa di invisibile. Polanski adotta un escamotage semplice ed efficace: nel momento in cui la mano del regista mima la rotazione del contratto, la camera ruota con il gesto, assecondandolo. In questo modo, l’unica cosa reale, lo sguardo, seguendo il movimento di camera, riconosce e conferisce uno status di realtà a un oggetto del tutto irreale.

4. E qui si potrebbe fare un confronto su come il volto venga ripreso ne La vita di Adele. Kechiche sta addosso ai visi dei personaggi, ne scruta negli ossessivi primi piani ogni secrezione, lacrima moccio saliva sudore bolo, e questo schiacciamento dello sguardo non fa che allargare a dismisura la distanza dalla rappresentazione, come se l'estrema adesione al volto non fosse altro che un disperato tentativo di coglierne un dettaglio, una posa, un'espressione, che facesse trapelare un qualcosa al di là dell'immagine sullo schermo: ma una tale insistenza (tre ore sature di primi piani) è già la spia di un fallimento, di un'inattingibilità di qualcosa che non esiste se non, presumibilmente, dall'altra parte della macchina da presa, nell'animo di chi filma. Nel film si mangia, si scopa, si chiacchiera ed ogni azione è ripresa spesso dall'inizio alla fine, nel suo fluire senza scopo e senza senso, come se le macchine da presa fossero poste lì per caso e puntate ognuna sui volti dei personaggi. Una sorta di reality, più che un'indagazione sulla realtà, con un effetto riflettente simile: si assiste a un quotidiano che potrebbe essere proprio, si gode della sua messa in scena, si torna a casa rinfrancati su come si conduce la propria esistenza, evidentemente degna di essere filmata (e quindi vissuta), e rinforzati nei propri valori (l'affermazione del sé, la tolleranza, il primato dell'amore uber alles). A costo di passare per retrogradi, si verrebbe tentati di definire La vita di Adele un film "borghese"...


Filmografia

Bling Ring (The Bling Ring) (Sofia Coppola 2013)

Dietro i candelabri (Behind the candelabra) (Steven Soderbergh 2013)

La vita di Adele (La vie d’Adèle) (Abdellatif Kechiche 2013)

L'intrepido (Gianni Amelio 2013)

Sole a catinelle (Gennaro Nunziante 2013)

The Canyons (Paul Schrader 2012)

Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure) (Roman Polanski 2013)