La narrazione inizia con dei corpi che, nell’essenza di corpi, non possono far altro che stentare nel respiro. I sacchetti sulla bocca si riempiono e si sgonfiano nell’attesa che il pubblico si sieda. Il corpo, come sempre, negli spettacoli di Ricci/Forte (Grimmless, Still Life e Imitation of Death andati in scena all’interno della cornice del Teatro Kismet Opera), cattura l’attenzione e si espone. In Imitation of Death, il corpo vuole mostrarsi diverso dall’oggetto, il soggetto si costituisce come qualsiasi cosa non sia morte, non sia cosa, appunto. La costruzione dell’essere vivente passa poco per volta, di grado in grado, dal respiro al movimento, prima difficoltoso, doloroso, poi, in fine, agevole nella musica, terzo e ultimo passaggio fondamentale.

La trasformazione dei corpi, da oggetti quasi animati a soggetti in movimento si fonda sulla musica, infatti, più che sulla parola, sul movimento danzante, più che sulla stasi e sulla quiete.
Il pubblico, seduto e comodo, si trova davanti molti corpi che sembrano agire per contrasto: forse solo chi è fermo può guardare il movimento e forse nemmeno basta esser fermi come quando le luci si spengono e non è possibile nemmeno più guardare lo spettacolo se non attraverso rapidi flash di luce, piccoli squarci nell’oscurità.
Come sempre negli spettacoli di Ricci/Forte tutto conturba, l’obiettivo non è sicuramente far sentire a proprio agio lo spettatore, ma smuoverlo e questo tipo di impatto è la cifra caratterizzante della grammatica di Ricci/Forte e, come spesso loro hanno dichiarato, Imitation of Death trae parte della sua forza, della sua ispirazione, da una grammatica molto simile, come impatto sullo spettatore, a quella di Palahniuk. Dilaniare i corpi (in Palahniuk molto spesso vengono distrutti, macerati, ammazzati) è un passaggio decisivo per fondare una lacerazione, attraverso il visivo in questo caso, degli schemi mentali; ancora una volta gli attori si consumano scrivendosi addosso, ricoprendosi di mollette, spogliandosi e trascinando altri corpi afferrando solo i capezzoli o il pene o pinzando la vagina con due dita. Il corpo è ancora la cifra estetica di una corrosione interna di contrappasso.

Questo tipo di struttura ottiene un impatto disarmante: l’(auto)interrogazione diventa il mezzo attraverso il quale interpretare il visivo ad una prima impressione. L’alternanza monologo-musica mantiene il ritmo alto nel pubblico senza chiedergli uno sforzo eccessivo. Ad un secondo, terzo spettacolo, però, l’alternanza tra un certo tipo di musica e i monologhi, che è decisamente, come abbiamo già detto, la cifra stilistica caratterizzante del teatro di Ricci/Forte, viene assorbita e compresa, non mantiene più l’effetto sorpresa della prima volta portando lo spettatore a chiedersi (e a chiedere ai due registi) sino a che punto sia possibile l’interazione.
Presentando, in più, un teatro privo di protagonisti (infatti le storie non si fondano sulla narrazione univoca di una voce; ci sono più voci che confluiscono su un impatto emotivo e non su un messaggio: talvolta i messaggi sono nascosti, talvolta ci sono, talvolta non sono presenti) lo spettatore arriva a chiedersi se non sia possibile anche un dialogo, oltre che una alternanza di monologhi, non solo tra l’attore e gli spettatori, ma all’interno della narrazione; più che una eliminazione del protagonista, come dichiarato da loro stessi al termine dello spettacolo, sembra esserci una proliferazione di protagonisti, chiusi nelle proprie vite, disposti a narrarle, ma mai aperti a modificarle.
Tutto questo porta comunque il teatro di Ricci/Forte ad essere necessario per comprendere l’indirizzo di un certo tipo di teatro italiano, e lo spettatore, al contrario di altri spettacoli creati fondamentalmente sulla stessa struttura narrativa basata sull’alternanza tra musica e monologhi, uscendo dal teatro non può rimanere indifferente all’esperienza vissuta.

Assistendo, invece, allo spettacolo di Babilonia Teatri, Lolita, fondato sulla stessa struttura, i ritmi sono risultati lenti, l’ostentazione del mixer, PC e amplificatori inutile al fine della narrazione, la lettura delle parole proiettate sul fondo troppo lunga e gli spazi musicali sono risultati privi di forza perché far ballare una bambina sola all’interno di un palco troppo grande fa perdere ogni impatto al movimento corporeo. Al contrario nonostante Ricci/Forte ci abbiano abituato ad una medesima struttura, sono sempre in grado di imprimere una forza fuori dal comune ad ogni loro spettacolo.

Still Life, ad esempio, apre un capitolo a parte, è uno spettacolo che sembra uscire dal loro percorso, sembra collocarsi al di fuori di un progetto, pur mantenendone le caratteristiche essenziali. Il messaggio diventa chiaro e diretto, ma non per questo noioso e univoco. La richiesta di coinvolgimento del pubblico è decisamente più chiara (gli attori arrivano a baciare gli spettatori), la struttura snella e i monologhi diretti. Still Life sembra essere stato costruito con una forza differente, sembra esser stato gettato sul palco da una notte di sesso, è pregno di desiderio, un desiderio ovviamente erotico e privo di ogni connotazione sociale. Il desiderio emerge e deve emergere in tutte le sue forme, senza fermarsi, sino ad esser accettato in ogni sua forma, quasi come se la richiesta fosse quella di tutto il teatro di Ricci/Forte, un teatro che si fonda stabilmente sulle macerie etiche della storia alle quali gli spettatori non devono rimanere aggrappati.





Titolo: Imitation of death

Regia: Stefano Ricci

Assistente regia: Elisa Menchicchi
Movimenti: Marco Angelilli
Direzione Tecnica: Stefano Carusio
Performer/Attori: Giuseppe Sartori, Francesco Scolletta, Marco Angelilli,  Fabio Gomiero, Blanche Konrad, Piersten Leirom, Cinzia Brugnola, Michela Bruni, Desiree Giorgetti, Chiara Casali, Ramona Genna, Liliana Laera, Mattia Mele, Silvia Pietta, Claudia Salvatore, Simon Waldvogel.
Produzione: Ricci/Forte in coproduzione con Romaeuropa Festival | Teatro stabile di innovazione del FVG | Festival delle Colline Torinesi | Centrale Fies

Visto domenica 23 febbraio 2014 al Teatro Kismet Opera