Non perdo occasione per tornare a occuparmi di Francesco Rosi. Anche in questo caso. Per «Uzak». Il primo pensiero per un articolo che probabilmente vedrà la luce tra la fine dell’anno e l’inizio di quello nuovo data la concomitanza di lungo termine con la Shoah è stato infatti La tregua di Rosi. Sempre Rosi.

Citando il titolo del suo ultimo film, La tregua, tratto dall’omonimo romanzo di Primo Levi, mescolato a quello invece banale italiano dell’innovativo noir di John Boorman, Senza un attimo di tregua anziché Point Blank, ugualmente di derivazione letteraria, in Italia Anonima carogne e in originale The Hunter, di Richard Stark, pseudonimo di Donald E. Westlake, ebbene posso dire a ragion veduta che il discorso cinematografico sulla Shoah riconduce a Rosi. Senza un attimo, appunto, di Tregua.

Perché con lui ho un debito di riconoscenza anche intellettuale. Non l’ho mai voluto chiamare Franco, come lui spesso mi sollecitava a fare, poiché tutti i suoi amici lo chiamavano Franco, non Francesco. Ma per chiunque sia cresciuto con i suoi film che costituivano un impegno supplementare rispetto al piacere di stare davanti allo schermo, lui è stato e resterà, nel ricordo, come l’ho sempre letto sullo schermo, nelle scene dei titoli di testa o sulle copertine dei libri che l’hanno riguardato, Francesco Rosi. Ogni volta Francesco è stato motivo, da spettatore, per andare più a fondo nelle questioni reali, cercare dietro le apparenze e acuire i criteri di analisi, documentarsi, non dimenticare. E quando, all’età di trent’anni, mi è stato chiesto di completare una monografia su di lui, che Sandro Zambetti, allora il mio direttore alla rivista «Cineforum», aveva scritto negli anni ‘70 fermandosi al 1976, a Cadaveri eccellenti, ecco che mi sono posto il problema.

Di metodo e di merito. Il problema di come proseguire lungo la strada della filmografia di Rosi, che conduceva al suo ultimo film, La tregua. Zambetti sui film precedenti, seguendo la linea della lettura politico-ideologica tipica dell’epoca era stato spesso molto severo con film, compreso l’ultimo di cui si era occupato, appunto: Cadaveri eccellenti, ai quali oggi nessuno negherebbe lo statuto di grandi capolavori della storia del cinema mondiale, a me invece sarebbero toccati molti altri titoli della fase successiva, da Cristo si è fermato a Eboli a La tregua, su cui il consenso critico non solo non era stato unanime ma anche, molto ingiustamente, sbilanciato a sfavore. Penso, se non a Tre fratelli e Carmen, piuttosto a Cronaca di una morte annunciata, Dimenticare Palermo, Diario napoletano. E penso soprattutto a La tregua. Ho dunque scelto una strada che oggi mi rendo conto a maggior ragione essere stata la più corretta e sostenibile: mantenere l’impostazione del precedente libro che andavo a integrare e aggiornare nella scelta dei titoli dei singoli capitoli, ma nel frattempo, sui singoli film a me restanti, applicare rigorosamente quella che in gergo si definisce la “politica degli autori”. Rosi era ed è uno dei massimi autori del cinema mondiale e non c’è né c’era alcuna necessità, in un libro che avesse lo scopo di restare e non lasciare il tempo che trovava, di dar conto dei giudizi infelici, negativi, spesso gratuiti. Piuttosto occorreva spiegare tutti quegli altri film, concatenarli, farne brillare l’aspetto centrale, investigativo, di restituzione leale, intellettualmente onesta e puntigliosa della verità.

Ed è questo che ho fatto, specialmente con La tregua. Scrivere un libro su Francesco Rosi mi ha responsabilizzato, come spettatore e come studioso, a tempo indeterminato. Posso dire che c’è un prima e c’è un dopo questo libro che mi riguarda e ha condizionato tutte le scelte e la linea di studio dei decenni successivi. In particolare ho compreso qualcosa, studiando e non soltanto vedendo La tregua, di cui mi rendo conto ancora di più oggi. Qualcosa che mi sembra opportuno restituire a studenti, colleghi, studiosi della Shoah in generale e di cinema e Shoah in particolare. Un criterio distintivo, semplice, comodo, pratico. Ho compreso tutto questo, mettendolo a fuoco nel corso degli anni progressivamente, dopo una telefonata di Francesco. Una sera di quasi vent’anni fa, ormai.

Il libro era uscito da un anno all’incirca e l’amicizia, oltre all’abitudine di sentirsi, aveva preso il sopravvento. Chiaramente ero io a chiamarlo ogni qualvolta si presentava l’occasione, anche con una scusa qualsiasi, con timida insistenza. Se qualcuno mi avesse detto quando ero giovanissimo che un giorno avrei avuto la possibilità di sollevare la cornetta del telefono, comporre un numero e parlare con Francesco Rosi in persona, così, di tutto, non solo di questioni di cinema e di politica, che nel suo caso erano inseparabili, comprese le preoccupazioni familiari quotidiane, anche da genitore a genitore, nonostante la distanza d’età di quarant’anni che ci separava, non ci avrei mai e poi mai creduto. Eppure, ecco che questo accadeva, più o meno di frequente, normalmente. Solo che quella sera la telefonata era in arrivo, non in partenza.

E soprattutto mi arrivò presso l’ufficio della cooperativa sociale di cui ero e sono ancora socio in un quartiere molto “a rischio” della periferia di Bari dove con la mia attuale moglie ci siamo occupati e ci occupiamo, soprattutto lei, di minori altrettanto “a rischio” ma anche in generale di minori di qualsiasi fascia sociale attraverso l’uso dei mezzi audiovisivi, insegnando loro l’importanza del linguaggio cinematografico, realizzando cortometraggi e documentari. Era insomma un luogo in cui svolgevo quotidianamente e su un fronte più avanzato e utile la mia attività di critico cinematografico, che procedeva in parallelo su quotidiani e riviste e che poi sarebbe approdata all’ambito accademico. Un luogo in cui le telefonate erano all’ordine del giorno, a tutte le ore. Di tutti, o quasi. Quando mi sento però passare al telefono Francesco stento a crederci. Non soltanto per la circostanza, ma per il fatto stesso che avesse quel numero e che mi stesse cercando proprio lì. Di sera. Cosa poteva essere accaduto? Mi spiegò subito, figuriamoci: addirittura scusandosi, il motivo della telefonata. Aveva già telefonato a casa e gli aveva risposto mia madre, dicendogli dove ero rintracciabile.

«Tua madre ha una bella voce».

«Glielo dirò, le farà molto piacere».

«Sai, ti ho chiamato per dirti che ieri sera La tregua è stato trasmesso in prima serata dalla Rai…». «Sì, lo so, l’ho rivisto con piacere. Più lo vedo e più colgo cose che mi erano sfuggite».

«Ecco, e ha avuto un indice di ascolti altissimo».

«Molto bene, sono davvero contento».

«Volevo che tu lo sapessi».

«Ti ringrazio molto, anche della telefonata. Non mi sarei mai immaginato…».

«I tuoi colleghi critici non l’hanno mai amato. Non l’hanno capito».

«Hai ragione e di questo mi dispiace ancora molto».

«Sai, quello che penso è che da me si aspettavano Se questo è un uomo, mentre io ho fatto La tregua».

La telefonata è chiaramente proseguita, prendendo altre strade, altri argomenti, ma questo passaggio fondamentale è – ripeto – all’origine di tutto quel che ho oggi da dire sulla materia specifica di questo intervento, che mi spiace di dover introdurre in chiave autobiografica, ma a ragion veduta. Poiché sentivo già in quell’istante di aver afferrato un aspetto centrale del rapporto tra cinema e Shoah. E che forse non avevo considerato lì per lì in maniera chiara. Ma l’aver già impostato il libro per intero e in capitolo su La tregua guardando oltre le critiche irricevibili che gli erano state mosse all’epoca, mi aveva messo sulla buona strada. L’indizio più significativo era contenuto nell’incipit, in cui l’autore – del film, Francesco Rosi, in autonomia rispetto al testo di partenza di Primo Levi – aveva inserito una didascalia che sottolineava come, prima di abbandonare il campo di Auschwitz-Birkenau-Monowitz, i nazisti avessero avuto tanta premura di dare alle fiamme, oltre alle persone fisiche raggiungendo un bilancio spaventoso, il maggior numero di documenti. E a fare la stessa cosa, tra la fretta e l’impeto di andarsene, fucilando e uccidendo ancora altra gente. Quella didascalia, tipicamente rosiana, mi è rimasta in testa a lungo e mi ha indotto a elaborare, come accennavo, uno schema distintivo, tra film sulla Shoah, e non. Per avere ulteriormente le idee chiare, ho fatto riferimento a un altro scambio di battute privato.
Facciamo un altro passo indietro.

Durante la stesura della sceneggiatura di Eyes Wide Shut Stanley Kubrick non faceva altro che punzecchiare lo sceneggiatore e scrittore Frederic Raphael il quale giustamente ha poi voluto aprirsi letterariamente: rivelare, far sapere ciò che per prassi sarebbe dovuto restare segreto, dietro le quinte, pura aneddotica. Ha deciso dunque di rievocare l’esperienza scegliendo lo stile e l’impianto della sceneggiatura cinematografica. E le pagine più belle di questa sorta di script, un po’ diario, un po’ saggio, un po’ tutto e il contrario di tutto, dal titolo Eyes Wide Open, restituiscono il duetto in cui Kubrick lo provoca sul tema della Shoah, rimasta a suo avviso senza riscontri cinematografici. Ecco, vedendo Il figlio di Saul di László Nemes, che ascriverei da subito alla categoria dei film sulla Shoah, mi è tornato in mente proprio questo stralcio di lista dei dialoghi tra i due illustri interlocutori, come in un film.

Kubrick inizia chiedendo: «E allora l’Olocausto? Che cosa ne pensi di quello?». E Raphael: «Cosa ne penso? Penso che ora forse non abbiamo il tempo di…». Kubrick: «Come soggetto per un film, è fattibile?». Raphael: «Ne hanno già fatti di film sull’Olocausto». Kubrick: «Ah sì? Non lo sapevo». Raphael: «Hai mai visto quel film di Munk incompiuto, La passeggera?». E Kubrick: «Ok, e quali altri hanno fatto?». Raphael: «Notti e nebbia. Che era una specie di documentario». Kubrick non si dà per vinto: «E poi?». Raphael, annotando tra parentesi come in un copione che si rispetti: «Sapendo benissimo che è a questo che [Kubrick] vuole farlo arrivare», non esita a tirar fuori il titolo del film innominabile: «Beh, c’è Schindler’s List». Kubrick, evidentemente contento di essere riuscito a far pronunciare quel titolo: «E ti sembra un film sull’Olocausto?». Raphael, ormai messo in mezzo: «No? E su cos’è?». Kubrick: «È un film sul successo. L’Olocausto riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate. Schilndler’s List parla di seicento persone che non vengono ammazzate. Altri?».

Ecco, la risposta a questa provocazione, più che una domanda, potrebbe essere oggi Il figlio di Saul, senza dimenticare nel frattempo il contributo attivo sull’argomento fornito da Claude Lanzmann (Shoah, Sobibor, L’ultimo degli ingiusti), Roman Polanski (Il pianista) e Paul Schrader (Adam Resurrected). Ci sono insomma film sulla Shoah, come quelli suddetti, cui va ad aggiungersi La passeggera di Munk, citato apposta da Raphael, e film non sulla Shoah. La tregua di Rosi, ad esempio, non è un film sulla Shoah, ma sui sopravvissuti, come la maggior parte dei film che oggi erroneamente vengono invece considerati sulla Shoah. Come Jona che visse nella balena di Roberto Faenza o Shindler’s List, e tantissimi altri, cioè la stragrande maggioranza di quelli che vengono prodotti e arrivano sugli schermi. Un film sulla Shoah, per definizione, invece non può che essere un film sulla morte. La morte al lavoro. Sul buon risultato in termini di fatturato della morte, di industria organizzata della morte. Senza testimoni. Poiché i testimoni fanno riflettere, soprattutto commuovono, indignano, fanno piangere. Commuoversi o piangere vuol dire superare l’orrore. Che è il compito dei film che parlano dei vivi. Per dirla con Kubrick, spiace ammetterlo, sul “successo”.
Confrontiamo due casi.

Quello di László Nemes è però un esemplare più unico che raro di film sulla Shoah o sull’Olocausto o per meglio dire sulla Shoah, nella molto selettiva e severa accezione kubrickiana. Per la semplice e inconfutabile ragione che – ancora secondo Kubrick – «riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate». A quindici anni dalla memorabile conversazione appena trascritta, sarebbe quindi interessante provare ad aggiornarne la sostanza partendo da Il figlio di Saul, autentico punto di non ritorno del rapporto tra cinema e Shoah. Che ci ricorda, semmai ce ne fosse bisogno, come sull’argomento il cinema abbia sempre da sempre avuto un problema grosso, di rappresentazione. Che cosa rappresentare? E soprattutto come rappresentare quel qualcosa di indicibile. Problema spesso insormontabile, nonostante i numerosi film e telefilm – inutile e controproducente la distinzione esteriore tra film di finzione e documentari – che di anno in anno accrescono il numero già oggi cospicuo di esemplari, non tutti indispensabili, di un patrimonio considerevole: un patrimonio di immagini ricreate o recuperate in cerca di una sintesi dell’evento, di una documentazione congruente, di una risposta morale, storica, civile, psichica. Ebbene, come ha spesso sottolineato Jean-Luc Godard, il problema con la Shoah è sempre lì.

Sembrerà strano, e lo è maggiormente alla luce dell’impatto rivoluzionario sul piano audiovisivo di Il figlio di Saul, ma più film vediamo e più cresce la sensazione che manchi l’essenziale. Il film d’esordio di Nemes al contrario ci ricorda l’horror vacui rispetto a ciò che è stata la Shoah. O per meglio dire la sensazione di un horror vacui al quadrato, l’horror vacui riferito all’orrore stesso, l’incapacità di restituire per immagini l’inimmaginabile. La posta in gioco è il trionfo assoluto, valga la pena di ribadirlo: della morte, su scala industriale. Non esistono vie di mezzo, come dimostra questo fulmine a ciel sereno, questo film a lungo atteso e ora finalmente divenuto reale, possibile, concreto: l’equivalente straniante ma verosimile e strutturale sul palcoscenico mostruoso della Shoah del celebre «strappo nel cielo di carta» che paralizza l’emblematico attore pirandelliano in Il fu Mattia Pascal. Il figlio di Saul è un di film di altro tipo e spessore, rientra nella sguarnita categoria di quelli che più si avvicinano al cuore atroce del problema. Problema appunto di senso, di intelligibilità, di espressione. Perché a conti fatti, concordando con la griglia molto restrittiva di Kubrick, il film per eccellenza sulla Shoah dovrebbe essere una specie di documentario industriale che dia conto di come l’operazione dello sterminio abbia funzionato in quegli anni (pur)troppo bene, a pieno regime, con un margine di errore tecnico infinitesimale, molto trascurabile.

I sopravvissuti in questa cornice di efficienza lugubre, scientifica, impeccabile, finirebbero nel computo per essere appena un’appendice insignificante dei fatti, un ramo cadetto di una pratica discorsiva molto corposa che trova paradossalmente nei pianificatori e negli esecutori a qualsiasi livello della eufemistica “soluzione finale” la vera prospettiva sostenibile. Parlare, o meglio rappresentare la Shoah, partendo dai vivi, cioè dai “salvati”, per usare l’espressione di Primo Levi, e non dai morti, ovvero i “sommersi”, diventa ogni volta un modo per sviare. Scelta quest’ultima comprensibile, fragile, commovente, ma non sufficiente. Specialmente dentro un meccanismo perfettamente funzionante in cui gli unici titolati a parlare dovrebbero essere, per colmo di paradosso, i carnefici. Possibilmente nemmeno quelli che hanno scelto per convenienza di nascondersi, mentire, minimizzare, bensì gli altri, gli entusiasti. Quelli fin troppo soddisfatti dei risultati, convinti delle proprie azioni, orgogliosi del lavoro svolto. Oppure le vittime, soltanto quelle che però – ed ecco il paradosso tornare a configurarsi – non possono testimoniare, poiché nell’incubo storico e concreto della Shoah anche solo aver vissuto un istante di libertà, guadagnato un giorno, un mese, un anno di vita, o addirittura un’intera vita dopo quell’esperienza vuol dire in prima istanza essere stati, per fortuna incalcolabile o per caso incomprensibile, tagliati fuori dalla Shoah.

Il figlio di Saul ci pone di fronte a questo ignobile dilemma, che investe la sfera dell’audiovisivo più di ogni altro canale comunicativo o mediatico. Cosa/come far vedere e sentire per dar conto di un progetto di morte attuato con così grande solerzia, puntualità, accanimento, in cui la morte è la regola e la vita appena l’improbabile, ironica eccezione? László Nemes compie una scelta davvero impressionante. Mette disperatamente e maniacalmente a fuoco il soggetto che guarda, resiste, si muove, si dà da fare, mentre attorno a lui tutto il resto è evidente, ma sfocato. Il che non comporta affatto che lo spettatore non veda. Anzi, è proprio ciò che resta fuori fuoco, ma pur sempre a portata di sguardo a irretirlo, a sconvolgerlo. Quanto più l’autore non vuole mostrare, tanto più costringe lo spettatore a cercare con gli occhi l’eccesso nel difetto, a superare mentalmente la ridotta nitidezza delle immagini di contorno, che a maggior (s)ragione diventano centrali, incancellabili, nitidissime. Il figlio di Saul è dunque un film che sfida le consuetudini dello spettacolo, rendendo esemplare e centripeta/centrifuga la coscienza del soggetto singolo, l’ungherese protagonista che cerca mentalmente scampo dandosi un compito ossessivo, seppellire un presunto e indimostrato figlio, il filtro di una persistente e interminabile rassegna completa degli orrori.

Orrori che si consumano a ciclo continuo davanti, dietro, accanto al “folle”, sedicente genitore di un giovane cadavere, ovunque. Non c’è speranza, né sosta in questo massacro inarrestabile: né speranza che qualcosa accada e modifichi il corso nefasto degli eventi, né speranza di poter distogliere lo sguardo dai modi, dai tempi delle esecuzioni. Nessuno si salva in Il figlio di Saul, né il ragazzo che miracolosamente o per inspiegabile costituzione fisica, sopravvive alle esalazioni mortali della camera a gas, né lo stesso personaggio centrale, cui spetta il terribile e ingrato compito, assecondato dalla macchina da presa, di focalizzare/sfocare l’esistente, così come ai sonderkommando spetta quello di occuparsi dei cadaveri potenziali o effettivi. La figura del membro oramai in preda a un delirio salvifico, paternalista, del sonderkommando rende molto bene il senso della parabola, che non permette “tregua” o scorciatoie. Né “soluzione” alcuna che non sia iscritta nel devastante bilancio milionario della “soluzione finale”. Non c’è spazio risolutivo credibile e pertanto risarcibile, sia pure per motivi di umana pietà, salvo quello dello stress da lavoro, lavoro che si accumula, lavoro talmente debordante da mandare spesso in tilt la macchina nazista. E come sbanda la macchina del delitto seriale, massificato, così la macchina-cinema si aggrappa all’espediente del dirottare a latere le sistematiche atrocità.

Ai ritmi di produzione della fabbrica dello sterminio, oltre il principio del cottimo più crudele, corrispondono le prerogative audiovisive della macchina-cinema, il rapporto dialettico tra messa a fuoco e sfocatura, ripresa ravvicinata e distanziata, immagine fissa e in movimento, montaggio esterno ed interno, inquadratura breve e lunga. A partire dal piano sequenza inaugurale che non è soltanto uno dei macro-segmenti di cui si compone il film, ma la dimostrazione pratica, in tempo reale, ineludibile, del tempo standard concesso alle vittime appena sopraggiunte in treno direttamente dentro Auschwitz-Birkenau per raggiungere la camera gas e di lì, senza perdere tempo, direttamente finire dentro i forni per essere trasformate in cenere, dissolversi fisicamente affinché non venga serbata la memoria dei corpi. Il figlio di Saul è forse il film più estremo e ad oggi definitivo sulla “soluzione finale” poiché adotta strategicamente il concetto di “dissoluzione” anch’essa finale, definitiva. Dissoluzione delle immagini, del racconto, della visibilità, di cui ne accentua la potenza, l’acquisizione immediata, l’impossibilità di procedere ad una rimozione o a un ridimensionamento emotivo, sentimentale, affettivo della portata massiccia della strage.

Lo stesso formato dello schermo, con il suo rapporto 1:1,33, rispetto ai convenzionali formati panoramici o orizzontalmente oblunghi, non fa che confermare la scelta di campo: restringere la visuale per allargarne e moltiplicarne l’impatto diretto, non allusivo né elusivo. In questo film di (già) morti che si arrabattano per far qualcosa di utile o di irrazionalmente etico e giusto in una situazione disperata, amorale e abissale, l’unica “soluzione” (della scena) “finale” ragionevole e logica è il raid conclusivo, a pochi passi da un bambino e testimone oculare capitato lì per caso e delicatamente invitato ad allontanarsi, delle zelanti SS che sparano sui non meno sventurati fuggitivi, approfittando della “tregua” e del loro ristoro breve, in un angolo di bosco. Gli addetti ai lavori del sonderkommando, quelli eliminati prima o quelli cancellati in chiusura del film, non fa differenza, non sono più fortunati dei loro equivalenti che transitano dalle camere a gas ai forni o dagli obitori o dalle fosse comuni ai corsi d’acqua. Sono semplicemente ex umani o ex persone da impiegare per la morte altrui prima di destinarle ugualmente all’unico alveo concepibile: la morte totale, indifferenziata.

Sono appena esemplari modulari e intercambiabili di volta in volta di una specie, di una razza, di un popolo, di un’idea di umanità in esubero da distruggere per intero, senza eccezioni, seguendo appena programmi di priorità. Non importa perciò se quell’uomo un figlio l’ha (avuto) davvero, o se la sua sia né più né meno che una fissazione per tenersi occupato e mantenere un equilibrio psichico contingente. Né importa capire se quello che ha scovato tra i tanti sia un vero rabbino o semplicemente un altro morituro che ha trovato uno spiraglio di sopravvivenza momentanea. Importa il limite intrinseco di poter vedere, capire, contemperare tutto, attraverso inquadrature che fanno, compongono e contengono quel che possono. Importa la fatica di reggere anche nella sala cinematografica la routine omicida, la pressione della morte che non conosce pause, istanti di riposo, angoli di riflessione e di comprensione di quanto accade, si ripete, non finisce perché non può.

Si potrebbe dire, in ultima analisi, che László Nemes abbia in qualche modo applicato alla Shoah il medesimo criterio che Giovanni Pascoli prediligeva per fissare dettagliatamente, con perizia onomastica e linguistica, impressioni circoscritte di un mondo altrimenti incomprensibile, sfocato, funesto. La nota lettura di Gianfranco Contini contenuta nel saggio Il linguaggio di Pascoli è forse l’esempio per dar conto del tragico e spaventoso crinale della “dissoluzione finale” lungo cui si muove Il figlio di Saul: «La determinatezza di Pascoli – scrive Contini – si accampa sempre sopra un fondo di indeterminatezza che la giustifica dialetticamente. […] Significa che l'indeterminatezza, questo fondo che dialetticamente sorregge il determinato, è esposta in una parola semanticamente sfuggente, artisticamente quanto mai precisa. […] Più il Pascoli è chiaro […] e più radicalmente è irrazionale».
Facciamo ora sia un passo avanti, con il senno di poi, che uno indietro. Torniamo a La tregua, il film, così come nel scrissi nel 1998, relazionandolo al romanzo. E alla telefonata in parte, sulla base di ricordi, trascritta poc’anzi.

Lasciamo la parola a Primo Levi, intervistato da Philip Roth: «In Se questo è un uomo ho cercato di scrivere le cose più grosse, più pesanti e più importanti. Mi sembrava che il tema dell’indignazione dovesse prevalere: era testimonianza di taglio quasi giuridico, nella mia intenzione doveva essere un atto d’accusa non a scopo di provocare una rappresaglia, una vendetta, una punizione, ma sempre una testimonianza. Perciò certi argomenti mi sembravano un po’ marginali, allora, un’ottava più in basso; e li ho poi scritti molto tempo dopo». Levi, Primo, scrisse Se questo è un uomo per necessità, a ridosso degli avvenimenti, perché la sua vicenda di deportato ebreo ad Auschwitz sopravvissuto per puro caso, suonasse da monito e non andasse dimenticata.

Quando invece quattordici anni dopo, nel 1962, mise mano alle vicende che sarebbero confluite nel suo secondo grande romanzo, La tregua, pubblicato nel 1963, lo fece con uno spirito ben diverso: «La tregua è un libro più consapevole, più letterario e molto più profondamente elaborato, anche come linguaggio. Racconta cose vere, ma filtrate». Era una lucida analisi del dopo-Aushwitz, che celava l’intuizione che non si potesse considerare la sua tragica esperienza, in una prospettiva storica di lunga durata, come conclusa, era la rievocazione tragicomica del ritorno alla vita, che conteneva una più cosciente cognizione del dolore e una chiara rassegnazione a considerare la normalità come una condizione assolutamente precaria e fragile, e a portarsi dietro per sempre l’incubo della deportazione, un dolore rivissuto tuttavia in una dimensione nuova, a tratti persino ironica, comunque orientata verso l’istinto di sopravvivenza e di riconquista di una dignità umana.

Bisognerebbe far risalire l’intenzione di Rosi, Francesco, di portare sullo schermo La tregua probabilmente all’anno dell’uscita del libro. Ma è stato solo in tempi più recenti (comunque prima dell’uscita di Jona che visse nella balena e Schindler’s List, ricordiamo: rispettivamente nel 1993 e nel 1994), per la precisione nei primi mesi del 1987, che Rosi decide di parlarne allo scrittore. Si sente rispondere: «La sua richiesta è una piccola luce in un momento buio», frase che all’indomani del suicidio dello scrittore, avvenuto l’11 aprile dello stesso anno, acquista un inequivocabile significato. Rosi nel frattempo realizza Dimenticare Palermo e Diario napoletano, dopodiché si rimette in attività per concretizzare il progetto de La tregua, riuscendovi soltanto nel 1995, avendo racimolato, attraverso una fitta rete coproduttiva internazionale (ci sono dentro finanziamenti italiani, francesi, tedeschi, svizzeri e inglesi), l’intero budget per avviare le riprese, che partiranno nei primi mesi dell’anno successivo. Si è anche assicurato la presenza di John Turturro che impersonerà Primo Levi, e che nel frattempo, entusiasmato dall’idea e incoraggiato da Martin Scorsese, che ha provveduto a fargli vedere film come Salvatore Giuliano e Le mani sulla città, si documenta sulla vita e l’opera dello scrittore torinese e sull’Olocausto.

Non possono sfuggire, anche a prima vista, l’analogia con Cristo si è fermato a Eboli e le ragioni dell’interessamento di Rosi alle opere dei due Levi, Carlo e Primo, al di là della banale omonimia. Al regista non stanno a cuore soltanto i libri in questione, ma le figure stesse degli autori, entrambi torinesi, testimoni in prima persona delle vicende e dunque direttamente coinvolti come protagonisti, i quali hanno concepito la scrittura in prima istanza come documento ineludibile di esperienze cruciali per la loro stessa esistenza. Non si tratta neppure unicamente di scrittori, hanno entrambi avuto una formazione scientifica (Carlo Levi aveva studiato medicina, Primo Levi era un chimico), nel corso delle singolari vicende vissute si sono improvvisati dottori e infermieri, e hanno maturato la vocazione letteraria alla luce di fatti storici precisi di portata universale. Rosi fa riferimento a La tregua come a Cristo si è fermato a Eboli in quanto testi essenzialmente autobiografici e perciò immediatamente aderenti alle cose narrate, quasi la loro letterarietà fosse un elemento incidentale, aggiunto e non indispensabile per la stesura delle sceneggiature.

Siccome l’ottica sembra essere stata quella di considerare Carlo Levi e Primo Levi i veri “soggetti” dei due film, come nel Cristo anche ne La tregua Rosi non si attiene soltanto ai singoli libri, ma ne contamina le rispettive trame, ampliandole con materiale contiguo e coerente, servendosi di brani, dialoghi e suggestioni tratte da altri libri degli stessi autori: in particolare L’orologio per il Cristo e Se questo è un uomo per La tregua. Accantonando a questo punto il Cristo, ci si può da subito accorgere che La tregua, così come l’ha concepito il regista, non equivale se non in superficie al romanzo, bensì si trasforma nella genealogia di Se questo è un uomo. Non per niente il film si chiude con l’immagine di Primo Levi che, appena tornato a casa, senza neanche darsi il tempo di ambientarsi nella ritrovata “normalità” civile domestica, comincia a scrivere e, mentre la sua voce narrante recita le celebri parole che inaugurano Se questo è un uomo, alza lo sguardo verso la macchina da presa e resta immobile a fissare lo spettatore. Ha dunque rimesso mano a quel quaderno in cui, secondo un’invenzione estranea alla pagina leviana, ma che qui trova una sua motivazione di fondo, aveva annotato pensieri e osservazioni destinati ad acquistare forma compiuta nel romanzo del 1946.

Pur avendo scelto quale fonte di ispirazione privilegiata la seconda opera di Primo Levi, quella più mediata dall’istanza letteraria e per così dire dall’ottimismo, Rosi avrebbe in sostanza fuso i due testi. Indubbiamente ha condiviso lo spirito di fondo del libro del 1963: «Ciò che mi stimolava maggiormente era, più che mostrare la sofferenza nei campi di sterminio, tentare di raccontare sullo schermo quello che sembrava essere riuscito così facilmente, oltre che felicemente, a Levi ne la tregua, e cioè, attraverso i ricordi di quelle straordinarie avventure sue e dei suoi compagni, aver dato la sensazione della riconquista della vita, il ritorno della speranza, attraverso le naturali, piccole e gioiose occasioni di ogni giorno che finiscono per affermare la superiorità della vita sulla morte». Da questo proposito derivano certamente soluzioni come quelle di trasformare i protagonisti, e in particolare il romano Cesare, interpretato da Massimo Ghini, e il milanese Unverdorben, affidato a Claudio Bisio, in tipici rappresentanti dell’italica furfante e cialtronesca arte di arrangiarsi, accentuandone la caratterizzazione e le battute sul versante della commedia, in modo da fornire un contrappunto più leggero alla drammaticità della vicenda.

Drammaticità e propensione per la corda seria, anzi tragica dei fatti mostrati (forse accentuata anche dalla circostanza luttuosa della scomparsa durante le riprese due tra i più fedeli e preziosi collaboratori del regista, il direttore della fotografia Pasqualino De Santis e il montatore Ruggero Mastroianni), su cui Rosi non sembra affatto intenzionato a sorvolare, semmai rincarando la dose, sottolineando specie nei flashback in bianco e nero tutto il suo sdegno civile, rivendicando il primato della memoria incancellabile e condannando qualsiasi manifestazione di ignoranza o rimozione dei fatti scomodi (come risulta dall’episodio di Cracovia in cui Primo ci tiene a far conoscere la sua identità di ebreo ignorando l’improvvisa reazione scostante degli astanti, affrontato deliberatamente con maggiore gravità rispetto al romanzo). Ma sul Primo levi incarnato da John Turturro, pur assumendo su di sé il fardello di coscienza critica e di spettatore conturbato, eppure assorto in uno sguardo che è un atto di testimonianza e di condanna nello stesso tempo, vengono anche dirottate esibizioni comiche in origine, ovvero nel libro, attribuite ad altri personaggi (ad esempio l’imitazione della gallina per rendere il concetto agli abitanti di una sperduta casa russa, che sarebbe dovuta toccare a Cesare), oppure momenti di intimità e tenerezza (l’incontro nel bosco con la ragazza del lager). Insomma il film agisce su due livelli complementari. Ha dichiarato Rosi in un’intervista: «Come tutti sanno Se questo è un uomo è un libro rinchiuso nell’esperienza dell’orrore del campo di sterminio.

Primo levi, quattordici anni dopo, ha sentito la necessità di scrivere La tregua. Levi ha scritto di suo pugno: “Per divertirsi e per divertire i futuri lettori”. E io aggiungo: “per non dimenticare” … Io ho voluto cercare di fare le due cose… di creare la continuità tra il dolore dell’Olocausto e l’euforia del ritorno alla vita». Inoltre, avvalendosi della collaborazione degli sceneggiatori Rulli e Petraglia, Rosi avrebbe sviluppato un ulteriore tema non direttamente contemplato ne La tregua ma altrove negli scritti di Levi, come nota il critico Fabio Ferzetti,: «È il Levi agnostico, sul quale il film torna con insistenza. Quello che dice “Se c’è Auschwitz non può esserci un Dio”. Quello che si interroga sull’“atroce privilegio” dei sopravvissuti, e che gli sceneggiatori hanno filtrato attraverso le pagine de I sommersi e i salvati». In questo kolossal sul dolore e la pietà, pensato specialmente in funzione della divulgazione della materia trattata, soprattutto, spiega ancora l’autore, «per i giovani che non hanno vissuto in prima persona quegli avvenimenti.

Primo Levi ne era molto preoccupato e me ne sono preoccupato anch’io moltissimo durante il film», molte sequenze assumono una valenza emblematica: innanzitutto quella iniziale, con i soldati a cavallo dell’Armata Rossa che sbucano come fantasmi imprecisati dall’orizzonte a liberare le larve umane di Auschwitz, peraltro molto fedele alle indicazioni di Levi («A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi – la strada era più alta del campo – sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo»); il personaggio della deportata (Lorenza Indovina) messa all’indice dai suoi compagni di sventura per essersi data sessualmente ai tedeschi in cambio della sopravvivenza e di cui Primo prende le difese invocando una sospensione di giudizio di fronte alla gravità eccezionale delle umiliazioni subite; la parte riguardante l’arrivo del treno a Monaco, completamente reinventata e sviluppata nel film, in cui Primo scende dal vagone e mostra ad alcuni soldati tedeschi i panni indossati nel lager, ottenendo in tutta risposta da uno di loro un mettersi in ginocchio che è essenzialmente un gesto, rivolto anche al pubblico, di condivisione dolente e colpevole dell’Olocausto e della Shoah.

In conclusione, ripensando a tutto quanto è accaduto, alla telefonata, a Francesco, al film visto e rivisto, La tregua, che include Se questo è un uomo, ma non è – sia chiaro – Se questo è un uomo, dunque non un film sulla Shoah, ma sulla memoria della Shoah, la memoria di un sopravvissuto alla scientifica “anormalità” di Auschwitz e che però non è sopravvissuto al peso della “normalità” seguente, il ragionamento da fare è il seguente. Francesco Rosi è un autore responsabile, non un testimone diretto. Sceglie quindi La tregua, non Se questo è un uomo in prima battuta. Ma recupera il primo romanzo di Levi, innestandolo nel secondo, sottolineando dapprincipio la necessità di salvaguardare – come si dice in ambito processuale – le prove rappresentative, oggettive, dirette di Levi. Attraverso i flashback. Come in Salvatore Giuliano, Il caso Mattei e Lucky Luciano lavora sui documenti materiali disponibili. Ben sapendo e lasciando intendere con la succitata didascalia, ovvero responsabilmente, da autore di film politico-indiziari, come li ho spesso definiti in tutti questi anni, che c’è molto di più, fatti di cui non sapremo mai o mai completamente. E che la realtà della Shoah è un’altra e va oltre, oltre la vita e l’umana comprensione dei vivi. La tregua e Se questo è un uomo sono i suoi documenti, letterari. Quindi propendendo, per un film di finzione, per il più letterario dei due, La tregua, che incorpora al suo interno, il più documentale e testimoniale, Se questo è un uomo.

Da La tregua di Rosi si capisce senza equivoci di sorta che vivere, per Levi e gli altri compagni di ventura e sventura, più fortunati di quelli di assoluta sventura, è stato un privilegio provvisorio, a termine.
Un’opera di immaginazione realistica.
Una commedia. Pura finzione.

 

 

Bibliografia:

 
Levi, P., Se questo è un uomo, Torino, De Silva, 1947; Torino, Einaudi, 1958.

-, La tregua, Torino, Einaudi, 1963.

-, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.

-, P., Conversazioni e interviste 1963-1987, Torino, Einaudi, 1997.

Mancino, A. G., Zambetti, S., Francesco Rosi, Milano, Il Castoro, 1998.

Raphael, F., Eyes Wide Open, Torino, Einaudi, 1999.

Ciment, M., Dossier Rosi, Milano, Il Castoro, 2008.

Mancino, A. G., Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Torino, Kaplan, 2008.

-, Schermi d'inchiesta. Gli autori del film politico-indiziario italiano, Torino, Kaplan, 2012.

-, A. G., La dissoluzione finale, "Cineforum", n. 552, 2016.

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