Nell’indefesso proliferare di elucubrazioni, ripensamenti e rimemorazioni per immagini, parole e suoni che è la lunghissima carriera di Jean-Luc Godard, il regista francese non ha mai smesso di chiedersi in che modo il linguaggio cinematografico possa essere di volta in volta lavorato per continuare ad essere valido strumento di filatura del pensiero, del pensum, la lana grezza del cogitare umano. Lui, che una volta definì i film «arazzi in cui poter ricamare le proprie idee» e che si è sempre reputato – sin da una nota intervista, rilasciata ai Cahiers du Cinema nei primi anni Sessanta – un «saggista», uno che realizza «saggi in forma di romanzo» o «romanzi in forma di saggio», ma al posto di scriverli, li filma.

Chiuso nella villa-laboratorio di Rolle, nella quale da decenni s’è rintanato per poter esercitare in piena libertà e quiete la sua attività di sperimentazione intellettuale e artistica, Godard, le cui opere non sono certo mai state concepite per un consumo rilassato e acritico, ha portato avanti la sua impresa di “distruttore” (tale era la forza disgregante, ben oltre l’iconoclastia, che gli riconosceva Susan Sontag) e al contempo ricostruttore di cinema. Liberando l’immagine dal flusso ipnotico e illusorio del découpage classico e del suo montaggio invisibile, rifuggendo dalla melodia monodica della narrazione intesa come rappresentazione, per recuperare la discontinuità e l’incoerenza del reale (ma anche dell’immaginario) e affidarsi alla polifonia della composizione contrappuntistica. I cui punti (contro punti) sono materiali eterogenei (suoni, rumori, immagini, testi) stralciati dai contesti originari, accumulati, manipolati e messi tra loro in relazione e frizione, assonanza e dissonanza, nella piena trasparenza del processo poietico, di scrittura.

Acme di questo processo di traslazione e riconfigurazione sono sicuramente le Historie(s) du Cinéma e di qui bisogna partire per parlare di Le livre d’image, ultima rapsodia godardiana passata quest’anno in concorso a Cannes, dove le è stata assegnata una “palma d’oro speciale”. Come negli otto capitoli delle storie di cinema cominciate nel 1988 e terminate dieci anni più tardi, anche in questo “libro d’immagini” coesistono frammenti letterari e poetici, frame ed estratti della grande storia del cinema, voci narranti, quadri, suoni ed elementi grafici racchiusi in cinque capitoli (Remakes, Les Soirées de Saint-Pétersbourg, Ces fleurs entre les rails, dans le vent confus des voyages, L'esprit des lois, La région centrale). Cinque, come le dita della mano (che infatti appare subito, immediatamente dopo il bip tecnico del segnale di sincronismo da 1000hz che apre il film), dettaglio virato verso il bianco del San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci. Ma anche – come suggerisce lo stesso Godard in voice-over – cinque come «i cinque sensi, le cinque parti del mondo, le cinque dita della fede». Cinque falangi che compongono l’organo prensile, strumento del fare per antonomasia. Perché «la vera condizione dell’uomo è pensare con le mani» (una frase, appartenente a Denis de Rougemont, già utilizzata proprio nelle Historie(s) e dunque riciclata, rimessa in uso), passare dal pensiero all’azione, far filare la lana grezza del pensum, come dicevamo all’inizio, aiutati da quell’immenso opificio che è l’arte.

L’arte, appunto. Nel terzo capitolo, Ces fleurs entre les rails, dans le vent confus des voyages, rinominato con la musicalità e l’elegiaca figuratività di un verso d’ineffabile bellezza di Rilke, la voce fuori campo di Godard ne offre all’uditore una definizione che potremmo definire di matrice materialista, parafrasando una riflessione di Hollis Frampton, anch’essa presente in Histoire(s): «nel momento in cui due secoli si dissolvono l’uno nell’altro, alcuni individui trasformano i mezzi di sussistenza in nuovi mezzi. Questi ultimi sono ciò che noi chiamiamo arte».
Hollis Frampton, grande teorico dell’arte visiva, regista d’avanguardia e pioniere del video digitale, così simile a Godard, nel suo incandescente sperimentare, nel mettere le mani (di nuovo loro) nella struttura dell’opera filmica, nel magma dove avviene la fusione e modellazione degli elementi che poi diventano il film stesso (Frampton fu infatti uno dei massimi esponenti dello structural film, movimento di cui fece parte anche Michael Snow, il celebre avanguardista autore di La Région Centrale, di cui alcuni frammenti appaiono nell’ultimo omonimo capitolo di Le Livre d’image).

Non è un caso che un suo saggio, “For a Metahistory of Film: Commonplace Notes and Hypotheses”, giocò un ruolo chiave nel contestualizzare Histoire(s) du cinéma, circolando tra giornalisti e critici quando l’opera video ad episodi fu lanciata a Cannes nel 19971Per approfondire si veda Michael Witt, Jean-Luc Godard, Cinema Historian, Indiana University Press, 2013. Vi si teorizzava un’idea di cinema come di un grande apparato fatto d’ogni singolo fotogramma, immagine in movimento e suono mai registrati, a formare un mastodontico «film infinito», sempre in espansione. Non solo – e qui ci viene in soccorso Micheael Witt –  «ogni documentario e film di finzione realizzato, ma anche le innumerevoli ore degli home movies e dei filmati scientifici, educativi, promozionali e industriali che languono negli archivi e negli attici di tutto il mondo2Ib., p.109». Dato che per uno storico del cinema sarebbe del tutto impossibile fornire una storiografia accurata di cotanta mostruosità, Frampton coniò la figura del metastorico, qualcuno che avrebbe dovuto «inventare una tradizione, cioè un set maneggevole e coerente di monumenti indipendenti, incaricati di inseminare di una nuova significativa coerenza il corpo crescente della sua arte3Ib., p.110». Se opere del genere non fossero risultate reperibili, il metastorico avrebbe dovuto avere il dovere di realizzarle o, nel caso in cui fossero invece disponibili, di rifarle. Re-make, appunto.

Torniamo così a Le Livre d’Image e al suo primo capitolo. Non è possibile capire il senso di quest’ultima opera di Godard e delle sue histoire(s) di cinema se prima non si riflette accuratamente sul concetto di rapprochement che accomuna Godard e Frampton (ma anche Bresson, che spesso indicava questa forza magnetica come cardine del suo cinema, e altri cineasti ancora): l’avvicinamento di due oggetti, artefatti, persone o eventi non direttamente collegati tra loro.
Per JLG è, tout court, il cinema stesso ad essere «avvicinamento di cose che dovrebbero essere riportate assieme, ma che non sono predisposte ad esserlo4M.Temple, J. Williams (a cura di), The Cinema Alone: Essays on the Work of Jean-Luc Godard, 1985-2000, Amsterdam University Press, 2000, p.29». E se, come recita la nota formulazione di Pierre Reverdy, «l’immagine è una creazione pura dello spirito», allora «essa non può nascere da una comparazione, ma da un avvicinamento di due realtà più o meno lontane.

Più i rapporti tra le due realtà avvicinate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte – più essa avrà potenza emotiva e realismo poetico5Reverdy in G. Angeli, Tradizione e contestazione IV. Le avanguardie. Canone e anticanone. Ediz. Italiana e francese, Alinea, 2009, p.143.». È da questa combinazione per analogie che nascono opere simili a costellazioni, come Historie(s) du Cinéma e Le livre d’image. Il mezzo per ottenere il rapprochement è ovviamente il montaggio, che Godard intende non come mera giustapposizione, ma come contrappunto, alla maniera di Pelešjan, autore non a caso profondamente amato da Godard, altro grande riciclatore di immagini e suoni che diventano qualcosa di nuovo.
Del resto «il contrappunto – declama cavernosamente la voce di Godard nel suo libro illustrato – è la disciplina della sovrapposizione» e in questo turbine sincopato di entità fantasmatiche, composto dalla mente musicale di Godard con tempi plurali e ritmi composti, la Storia incontra le storie, il cinema il mondo, in un meraviglioso anacronismo che fonde immagine e tempo.