Luigi Abiusi

altSenza retorica: ma è cominciato il primo festival di Cannes della storia senza la presenza, sia pure latente, di Manoel De Oliveira. Non dirò nulla di economia cinematografica (e letteraria, filosofica) di questa scomparsa, appunto evitando il risaputo, e perché altri ne parlano in questo numero di Uzak, come sempre fitto di cose: su alcuni dei registi che più ci piacciono (Martin, Larrain, Frammartino, Soderbergh), su altri sempre controversi (Seidl, Haneke), tutto uno speciale dedicato a un film importante, tra i più importanti dell'anno, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson; e appunto una sezione rivolta a De Oliveira, che non può che straripare, anche rispetto al "genere", vista la forma ibrida, tra saggio e poema, usata da Bruno Roberti, già autore di un libro splendido Manoel De Oliveira. Il visibile dell'invisibile uscito appena un anno fa; e gli altri due articoli a firma di Cappabianca e Bruni, che riescono a delineare un profilo d'altronde irriducibile. Poi le interviste agli autori ospitati nella quarta edizione di "Registi fuori dagli sche(r)mi", tra maestri e talenti emergenti, poliedrici, come la Klotz, della quale attendiamo il nuovo film prodotto da Jacque Audiard.


Per arrivare così alla Francia e a Cannes, da cui giungeranno quotidianamente (o quasi) notizie, recensioni, diari: ma mi sembra che le cose migliori siano fuori dal concorso ufficiale, con Minervini, autore di un altro oggetto cinematografico a cavallo tra finzione e documentrario, cioè dentro un'ontologia dell'immagine fatta di trasparenze, lucentezze e dolorose, terragne, opacità; e Weerasethakul di cui si potrebbero dire le stesse cose se non fosse per una maggiore, voluta evenemenzialità, provvisorietà perseguita da Minervini, e per l'implemento filosofico-metempsicotico da parte di Apichatpong, che scaturisce di solito in alcuni tra i più bei finali del cinema contemporaneo: penso alla dislocazione spazio-temporale del ballo di gruppo in Sang Sattawat (la più vertiginosa e straniante mai vista) e alla vibrante spersonalizzazione e spettralità dello Zio Boomee. Ma non dimentico neppure Miguel Gomes con il suo Le mille e una notte, altro, speriamo, esperimento di (non) tracciabilità della finzione, dentro l'inveterato germinare delle cose, fuori dal cinema.

E poi la curiosità per un Gaspar Noé in 3D, Love, che promette un erotismo estremo in tre dimensioni, cioè lo spettacolo (o l'arte: dipende dallo stato di forma di Noé; certo, mettiamo, Irreversible, a pensarci dopo tanto tempo, sembra più un'esercitazione ludica, plasticosa, che altro, ma forse mi sbaglio; così come gran parte della cosiddetta critica si sbagliò proprio a Cannes nel 2003 con un film straordinario come The Brown Bunny di Vincent Gallo o a Venezia con Twentynine Palms di Dumont. Ma, si sa, la critica esige coesione narrativa e abomini del genere) in cui (nel 3D), si direbbe, meglio si legittima questa tecnica: secrezioni lattescenti (quelle sfolgoranti nella locandina), schizzi che arrivano direttamente in faccia agli spettatori (così immagino), carni blandite strette, da dietro, coiti frenetici (di cui si parla già in un'accezione di scandalo), magnificazione di attriti sanguigni, a cui è necessario, ammesso che sia così, il massimo di spessore, di profondità, di luce. E del resto, mi viene da dire, non c'è cinema se non c'è eros e traboccamento, nietzschiano.