gifuni_preteAll’interno di questo zoom approfondito sul “caso” Kaspar Hauser, abbiamo voluto intervistare lo scrittore Giuseppe Genna, autore del monologo del prete (interpretato da Gifuni) particolarmente significativo per riflettere sul film specifico e sul cinema in generale.



Lei ha scritto che «il cinema italiano eietta prodotti, non opere. […] Sono storie elementari, trame infantili, fanno perno sull’amore finto, sulle corna, si accompagnano con colonne sonore dozzinali e semplicistiche». Come mai ha accettato di scrivere il monologo per il personaggio del prete, interpretato da Fabrizio Gifuni, nel film Kaspar Hauser di Manuli?

Proprio perché mi pare che, al pari di altri talenti nostrani che faticano a trovare sia la produzione sia la distribuzione, Davide Manuli crei l’Oggetto Cinematografico Non Identificato, una sorta di UFO del grande schermo. Ciò avviene utilizzando labirinti di segmenti narrativi che inficiano l’idea compatta e algoritmica della narrazione stessa, il che mi sembra sinceramente l’unico modo di lavorare, e non soltanto oggi, a un’opera d’arte. Non è l’incomprensibilità o il supposto surrealismo, qui, a essere evidenziato; è piuttosto l’incapacità della comunità di fruitori che si staglia gloriosa come trionfatrice di un presente che verrà valutato – io credo in maniera che oggi farebbe arrossire i viventi. Questo tempo occidentale non riconosce i suoi artisti e non sa cos’è l’arte. L’idea stilistica di Manuli, cioè un assetto vibratorio dell’oggetto d’arte, che scateni l’empatia e l’incanto attraverso la sollecitazione di tutti i sensi, compreso quello interno, è quanto di più refrattario possa esserci oggi a un cinema che ha in Scorsese che coistruisce la sua metafavoletta in 3D il campione del tempo e degli incassi. Siccome Fabrizio Gifuni è uno dei massimi attori e dei più importanti artisti e intellettuali, di cui l’espressione geologica detta Italia possa vantarsi, egli risulta congeniale al progetto di Manuli – credo di poter affermare che la sua interpretazione di Caronte in Beket sia, a oggi e per me, una delle cose più memorabili che mi ha dato il cinema nel tempo in cui ho vissuto: è l’INLAND EMPIRE italiano.


La letterarietà umanistica (l’umanismo è «l’ultima risorsa a disposizione per mantenere l’umano nell’umano», scrive nel suo Italia De Profundis) fa del cinema di Manuli-Kaspar un Teorema, un Enigma. Che differenza c’è tra persona e personaggio e quanto ha contato nella scrittura del monologo?

Non comprendo perché la letterarietà, che è anche extraumanistica, in quanto portato dell’umanismo faccia di un’opera d’arte e un Enigma e un Teorema. Mi permetto di chiedere, senza controllare la risposta, perché dovrebbe accadere questa che è una storia. Quale ruolo giocherebbe l’intero, la piattaforma umana, nella scrittura? E’ una domanda che a Gilles Deleuze o a William Burroughs avrebbe creato una rabbiosa indifferenza. Il personaggio è evidentemente vuoto, tanto quanto la persona è universale. Nessuno parla in assoluto, il piano del testo, per quanto esso sia vocale e rappresentato via sinestesie, è relativo, fotogrammatico, importante almeno quanto lo spazio tra fotogramma e fotogramma. Quest’ultimo è il non-detto che si tenta di dire per emblemi o analogie, irrimediabilmente fallendo. Al muro del tempo e del fallimento si misura a mio parere qualunque scrittura, e quelle cinematografiche – questo miracoloso plurintreccio di scritture, questi millepiani che sono in combutta per evaporare – a maggiore ragione.


Il prete-Gifuni non comunica, le sue imprecazioni sono rivolte a un Dio morto di cui non resta che un’icona da adorare. Da quella “strana legione straniera” (senza dentro e senza fuori: indefinibile) ciascun personaggio per essere deve autodefinirsi e restare fedele al proprio ruolo che si porta cucito addosso. Il prete non può fare a meno di predicare al vento, Kaspar l’ascoltatore non può che affermare la sua presenza tacendo, lo sceriffo difende un’idea di Bene e il pusher (entrambi interpretati da Vincent Gallo) è sensibile al Male, al peccato e al peccato supremo che è l’assassinio di un dio incomprensibile. Cinema e Letteratura hanno ancora qualcosa da “comunicare”?

Non solo non hanno nulla da “comunicare”: non l’hanno mai avuto. “Comunicano” le religioni (non le metafisiche), le parodie artistiche che oggi sono di casa dovunque nei lobi cerebrali delle nazioni unte, le agenzie di pubblicità che hanno preso il disperante ruolo dell’inesistente inconscio à la Freud. Quanto a ciò che Gifuni sembra dire, possiamo tentare di iscrivere in una tradizione dell’emblematica metafisica vedantina e gnostica, il che mi ha esplicitamente richiesto, a priori, il regista Davide Manuli, immagino per influenza dal finale da un mio “oggetto narrativo”, un libro intitolato Dies Irae. Si tratta di una performance apofatica, di un tentare di dire per negazione, laddove non è nessun dio, nessuna sagoma si staglia a limitare e opporre per riproporre il gioco della dualità. L’interpretazione circa parola/silenzio e Male/Bene può starci come piano relativo, ma non è assolutamente centrata sulla qualità vibratoria e del monologo per come è scritto e del monologo per come viene realizzato. L’assoluto che è uno e indiviso diviene un tema cristallizzato di una teologia fàtica, fallimentare, propalata dai preti che sono sceriffi, custodi di un ordine che si autonomina diritto, in senso giurisdizionale. Non esiste assassinio di un dio inesistente. Il che non significa predicare l’assoluto né in assoluto predicare. Si tenta, nell’enorme sforzo di un canto dell’essere che non ha oggetto, come certe onde sostanziali che i nostri apparati ricettori non colgono, dico che si tenta l’unica ricerca che ha senso in quanto è il senso: quella del significato di “è” e di “io”. Questo, mi pare, compia Manuli nelle sue strepitose rappresentazioni dell’imperfezione, della debacle di chi crede nella figura, nella durezza, nel ruolo, nel personaggio, nella storia.


Il cinema italiano da sempre rigurgita preti e santi, ma il personaggio di Gifuni non ci pare somigliare a nessun altro, se non forse al frate ventriloquo Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi. A dieci anni dalla morte di Bene, cosa resta del suo disdire il (già)detto?

Carmelo Bene è secondo me il padre fondatore di ogni possibile arte italiana, e non soltanto italiana, che parta dall’oggi. Mi pare certissimo che Manuli ne sia uno degli eredi più qualificati e Fabrizio Gifuni uno degli interpreti più sprofondati nel suo non-discorso, che non è il nulla: il nulla non può essere e quindi non c’è partita; ciò che è il non-discorso di Bene è proprio quell’”è”. “Io sono che Io sono” si dice nelle Scritture: chi è Io Sono? C’è forse un discorso permesso intorno a questo oppure c’è da realizzarlo, da svegliarsi alla sensazione “Io Sono”? Per riprendere un altro grande, non solo del teatro, e cioè Grotowski, possiamo dunque dire che il cinema di Manuli è “veicolare”: veicola all’intensificazione della sensazione “io sono”. Tutto qui.


E lei va al cinema?

Purtroppo sì. Non esiste più, il cinema. La distribuzione, autentico nodo politico della faccenda occidentale, sia distribuzione di informazione o di messaggi o di opere o di alimenti, ha debordato nella produzione dell’oggetto, piegando le volontà di presunti creatori. Chi resiste non esiste, sembra non avere diritto di esistenza. A volte c’è chi fa folk e dice di resistere, ed esiste (pensiamo alle performance suppostamente destrutturanti o “choccanti” di gente come Marina Abramovic, con contorno mediatico che enuncia il discorso del successo di una resistenza…). Oggi al cinema ho visto un film di Giovanni Giommi, Bad Weather, un capolavoro che è andato a Berlino: lo hanno proiettato alle 17 in un centro culturale. Si tratta di cinema purissimo, gli italiani non lo vedranno mai.