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L’opposta flânerie. Paterson è l’astrazione inversa dell’attraversamento dello spazio urbano baudelairiano, il disporsi – consapevole, presente – della figura al centro esatto della scena in cui confluiscono l’Idea e la Storia, la materia e lo spirito, il corpo e l’anima, la presenza e l’assenza, la poesia e la prosa...


Paterson sta nei suoi passi come i suoi passi stanno sul selciato della città da cui ha (o di cui è) nome. Il suo attraversare la linea dello sguardo cittadino è la corrispondenza tra l’identità vischiosa della folla indifferenziata e l’astrazione eterea dell’idea che ne scaturisce. Non è un flâneur, Paterson, non è il parigino Pierre Wesserlin del rohmeriano Le signe du lion, semmai ne è la visione inversa, la controfigura americana sull’asse che da Poe va a Baudelaire e giunge a William Carlos Williams.

La scansione atona del tempo, che segna da sempre il cinema di Jim Jarmusch, si applica qui alla locuzione afona dell’amore per l’esistenza e gli esistenti che permea l’espressione di Williams, il suo ricorso quasi arcaico a una parola che punta i piedi per terra, pianta l’asse delle cose nel suolo dei luoghi per dire la carne e lo spirito delle figure. In questo la coincidenza tra il regista e lo scrittore americano appare tanto libera quanto immediata: Jarmusch sempre così metafisico nel suo incarnare l’obliqua identità dell’essere (americano), Williams sempre così fisico nel suo astrarre la lineare identità dello stare (americano), dell’occupare un posto nelle vene dell’America.

I grandi piedi di questo bus driver (ovviamente Adam... chi altri?... perché se il nome del personaggio è il nome della città, il nome dell’attore non può che essere quello della funzione del personaggio...), sì, insomma, i suoi passi percorrono la dimensione urbana, identificando i luoghi di un esistere che scorre nelle vene del tempo quotidiano: gioco d’astrazione tutto jarmuschano, che da sempre svuota gli spazi urbani, essicca l’umano brulichio della scena, e le città restano come visioni notturne e diurne allo stesso tempo, sprazzi asincroni di vita raffigurata e verità poetica, illuminazioni ai margini di identità malintese nella solitudine...

Paterson, insomma, «the city the man, an identity – it can’t be otherwise – an interpenetration, both ways», dice il poema (Paterson, Book 1, Preface) ... L’uomo della folla di Poe in senso inverso, perché non assorbe l’indifferenziato essere che è esistere diffuso, ma raccoglie in sé il senso nel tempo che attraversa, ne assapora i gesti, gli oggetti, le assonanze, riconosce le somiglianze, nota le differenze. Paterson è «un genio intimamente plasmato dal suo luogo e dal suo tempo», che poi è quello che dice di Poe William Carlos Williams (Nelle vene dell’America). È dotato della «solidità che ritorna alla terra, della convinzione che egli può giudicare dentro di sé» (sempre Nelle vene dell’America) che Williams riconosce allo scrittore.

Ed è – questa immanenza radicale di Paterson, questo suo ritornare alla terra, il suo essere piantato al suolo – l’espressione di una funzionalità concreta del gioco tra lirismo e realtà che poi illumina il film di Jarmusch. Il dire che sta nelle cose, non le nomina soltanto, ma al contempo le rende idee, astrazioni, illusioni liriche: «Say it! No ideas but in things. Mr. Paterson has gone away to rest and write. Inside the bus one sees his thoughts sitting and standing. His thoughts alight and scatter – (Paterson, Book 1, 1)».

È esattamente quello che fa Jarmusch in Paterson (e più o meno da sempre nel suo cinema...): gestire la tensione orizzontale dell’esistere che si incarna nella sacralità verbale dell’esserci (più o meno qui... più o meno ora...) individuale. Mentre il confronto (che è anche conforto) totemico della comunità verticalizza l’identità arcaica nella caduta dall’alto in basso delle acque del Passaic River: the Great Fall, la grande cascata di Paterson... Conversione liquida delle fiamme del falò attorno a cui si raccoglie la tribù, simbolo di una sacralità vaporizzata come il tempo dell’identità in cui riconoscersi: Paterson è immanente al luogo e trascendente a se stesso, disperso da un passato che non sappiamo (la foto in divisa da marines allude a qualcosa che si realizza nella reazione very brave che sfodera dinnanzi al finto innamorato suicida), inscritto nella duplicità sentimentale che lo abbina a Laura e lo oppone giocosamente al loro bulldog Marvin...

Come in ogni film di Jarmusch, anche in Paterson c’è come una dichiarazione sotterranea di libertà espressiva (esistenziale, lirica, filmica) che spinge sotto lo schema preciso: la ritmica che bacia la rima all’interno dei versi e non alla fine (come dice Paterson alla giovanissima poetessa incontrata tornando a casa), il riflesso dell’astrazione sulla scena concreta dell’esistere. Pochi registi tengono insieme l’idea e la realtà come Jarmusch: l’ipnotismo del suo filmare dissimula l’amore nella calda indifferenza di un’astrazione che libera la verità delle cose filmate.


Filmografia

Il segno del leone (Le signe du lion) (Éric Rohmer 1962)

Paterson (Jim Jarmusch 2016)