Il cinema, meglio di altre forme espressive, è in grado di «mettere in scena tutta una fenomenologia dell’atto dello scrivere: la preparazione dei materiali e del corpo, l’attimo magico del primo tocco dello strumento sulla superficie da inscrivere, il movimento ora lento e solenne ora nervoso e veloce della mano»1{R. Eugeni, Le peripezie della lettera, in «Bianco e nero», nn. 1-2, gennaio-aprile 2000, pp- 43-44}. Il processo più accreditato per trasferire sullo schermo il gesto della scrittura (e della lettura) sembra essere l’«audiovisualizzazione»2D. Tomasi, Lezioni di regia, Utet, Torino 2004, p. 84.: quando un testo scritto (o letto) implica dei fatti, il cinema sceglie di abbandonare le parole scritte per inquadrarne il contenuto attraverso richiami e anticipazioni diegetiche oppure tramite divagazioni oniriche.

Le parole (e con esse l’atto dello scrivere) si trasformano in pura azione, recuperando così la natura corporea della grafia3Sulla fisicità e sulla natura eminentemente corporea della scrittura insiste Roland Barthes nel suo Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1980.. Il rapporto fra testo e immagine è segnato nei casi più semplici dai modi della «consecutività» e dell’«adiacenza»4D. Tomasi, Lezioni di regia, cit., p. 90. (con il passaggio lineare dal testo alla sua audiovisualizzazione) ma può anche complicarsi attraverso il ricorso a soluzioni barocche, spettacolarizzate, con inquadrature dal basso, riprese in dettaglio, scavalcamenti di piano che tendono a enfatizzare il rapporto fra scrittore, macchina da scrivere e prodotto dell’immaginazione. Attraverso tali procedimenti il cinema rilancia con grande enfasi la specificità dell’«impennatura», ovvero «l’atto muscolare di articolare la scrittura […]: quel gesto con il quale la mano impugna uno strumento – punzone, calamo, penna – l’appoggia su una superficie, vi avanza premendo o accarezzando, e traccia forme regolari, ricorrenti, ritmate»5R. Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, cit., p.5 . Ben presto la penna sarà sostituita dalla macchina da scrivere o dal computer ma le dinamiche di rappresentazione dei corpi che scrivono continueranno a sottolineare l’effetto di durata e la complessità fenomenologica dell’atto. D’altro canto «la scrittura come prodotto altro non è se non il mezzo, e al tempo stesso la traccia, di una particolare esperienza di spazio e tempo»6R. Eugeni, Le peripezie della lettera, cit., p. 41., che il cinema cattura e rielabora anche per «dare corpo alla propria relazione con lo spettatore»7Ivi, p. 44..

Il cinema contemporaneo giunge a moltiplicare le formule di traduzione visiva della parola grazie alla ritrovata insistenza verso figure quali la metonimia, l’anafora, l’iperbole, che radicalizzano l’intreccio fra pattern poetici e istanze propriamente visuali. Basta scorrere alcuni titoli delle ultime stagioni per confermare un ritorno di interesse verso la costruzione di un cinema di poesia capace di far brillare immagini di parole: Neruda (P. Larraìn, 2016), Paterson (J. Jarmusch, 2016) e A quiet Passion (T. Davies, 2016), nonostante la profonda diversità di stili e inclinazioni registiche, testimoniano una certa tendenza a ‘incorporare’ sullo schermo il processo di invenzione poetica.

Il Neruda di Larraìn rinvia il discorso sulle forme della creazione artistica a un piano scopertamente metalinguistico e trova nel personaggio di Óscar Peluchonneau (Gael García Bernal) un elemento di forte asimmetria. Dedicato a un momento specifico della articolata epopea dello scrittore, i tredici mesi di clandestinità prima della fuga dal Cile, il ritratto vira fin dalle prime inquadrature verso i toni dell’allegoria, scardinando ogni principio di aderenza al vero: la rinuncia al realismo, la scelta di un punto di sguardo decisamente inconsueto8«Cambiare il punto di vista, vedere il mondo con i suoi occhi»: così Larraín descrive, a dialogo con Arianna Finos, l’idea di raccontare la vita di Neruda secondo la prospettiva di Óscar Peluchonneau, il poliziotto incaricato di arrestarlo, «ispirato al personaggio storico mai citato nel “Quaderno Otto” e in gran parte frutto dell’invenzione del regista e dello sceneggiatore Guillermo Calderón, nonché delle capacità attoriali di Gael García Bernal – a romanzare la storia della fuga del poeta» (M. Coviello, F. Zucconi, Io (non) sono Pablo Neruda, in Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín, Pellegrini Editore, Cosenza, 2017, p. 184). La voice off, che interviene a più riprese nel film complicando le traiettorie della diegesi, non appartiene quindi a Neruda ma proprio a Óscar Peluchonneau, e questa opzione fa sì che «la distribuzione del sapere e del potere narrativo» (ivi, p. 185) sia costantemente sotto assedio. Sugli effetti di questa dialettica fra voce off e narrazione si veda anche J. Lepastier, Neruda de Pablo Larraín. Auteur en quête de personnages, in «Cahiers du cinéma», n. 279, 2017, p. 37., l’estrema frammentazione compositiva9«Lo spazio viene dissezionato e ricomposto continuamente dal montaggio che sposta i personaggi da un luogo all’altro della scenografia» (M. Coviello, F. Zucconi, Io (non) sono Pablo Neruda, cit., p. 184): tale fluidità contribuisce a moltiplicare gli effetti di straniamento del racconto e a chiamare in causa l’attenzione dello spettatore, costretto a interrogarsi continuamente sullo statuto di verità delle immagini. mettono in scacco le regole del film biografico e librano un’energia creativa davvero straniante. L’arbitrarietà è l’ingrediente principale di questo interessante «labirinto meta-finzionale», all’interno del quale «tutti i personaggi – Neruda, il poliziotto Óscar e il narratore che narra se stesso – si creano a vicenda perché hanno bisogno l’uno dell’altro per raccontare la storia»10P. Larraín in A. Feinstein, Fast, loose and lyrical: Pablo Larraín’s Neruda antibiopic, in «The Guardian», 6 aprile 2017 (traduzione mia).. La discontinuità dell’impianto discorsivo ricalca intimamente la poesia dell’autore («We used his poetry to create the structure») e assegna all’opera uno statuto incerto per cui «nothing is entirely serious»11Ibidem. Lungo tutto l’arco del film è possibile individuare una vena di umorismo e anarchia che scorre sotto pelle: da una sequenza all’altra, «lo spettatore assiste alla continua infrazione delle regole dei generi e al fluire delle forme, dal carnevalesco al poliziesco»12M. Coviello, F. Zucconi, Io (non) sono Pablo Neruda, cit., p. 198..

Jim Jarmush, invece, con Paterson ribadisce la centralità dei nessi fra scrittura poetica e scrittura filmica, disegnando un tessuto visivo che, soprattutto nella versione italiana, assorbe e (ri)specchia la fisicità della parola. L’esistenza infra-ordinaria13Sul concetto di infra-ordinario cfr. Perec, L’infra-ordinario, Milano, Bollati-Boringhieri 1994. del protagonista (Adam Driver) si dispiega, infatti, nel ripetersi dei gesti e delle abitudini, nel giornaliero vagabondaggio sentimentale dentro lo stretto perimetro di una città che porta il suo nome ma che sembra lasciarlo ai margini, come uno dei tanti personaggi lunari inventati dal regista. A dare ritmo ai suoi giorni ci pensa però l’intima tensione per la poesia, l’urgenza di annotare sul suo taccuino versi strappati alla routine, che si caricano di risonanze segrete e richiamano «l’impalpabile rivoluzione» 14W.C. Williams, Poesie, a cura di C. Campo e V. Sereni, Torino, Einaudi, 1961, p. 13. del quotidiano cantata da William Carlos Williams nonché da tutta una linea americana – da Franck O’Hara a Ron Padgett, a cui si devono i poemi citati nel testo15Per un’intensa lettura del film in riferimento alla poesia americana si rimanda a S. Albertazzi, «Poesia come vita: da Paterson a Paterson», http://www.leparoleelecose.it/?p=25709.. La presenza costante della parola sulla superficie dell’immagine fa sì che il film produca l’«effetto di “poesia come vita” e “vita come poesia”»16Ibidem, secondo una reciprocità di forme molto convincente. Al di là del ritmo interno dell’opera e delle sue dinamiche di racconto, su cui molto si è scritto finora17Si segnalano soprattutto L. Abiusi, Imagismo, in «Filmcritica», nn. 671-672, 2017, pp. 37-38; P.M. Bocchi, Jim Jarmush. Paterson, http://www.cineforum.it/recensione/Paterson; A. Cappabianca, Paterson o delle immagini-poesia, in «Filmcritica», nn. 671-672, 2017, pp. 34-36; M. Marelli, No Adult Land, in «Cineforum», n. 561, 2017, pp.12-13; M. Pierini, «Segnocinema», n. 204, 2017., quel che qui si vuole sottolineare è il recupero di un alfabeto di immagini capace di tradurre le funzioni del dire.

Più incline al rispetto delle regole del biopic 18Cfr. in proposito almeno M. Argentieri, Il film biografico, Bulzoni, Roma, 1984 e E. Cheshire, Bio-pics. A Life in Pictures, Wallflower, New York 2015., ma certamente segnato dalla vertigine della «parola visibile»19Per un’analisi dettagliata delle strategie di rappresentazione dell’atto della scrittura si rimanda a S. Rimini, La parola visibile. Giacomo Leopardi e Antonia Pozzi sullo schermo, in «L’Avventura», 3, 1, 2017, pp. 3-16., è A Quiet Passion (Terence Davies, 2016), finalmente distribuito nelle sale italiane, dedicato al racconto dell’avventura biografica e artistica di Emily Dickinson. Fin dalle prime inquadrature si manifesta – grazie a una punteggiatura ferma e severa – il carattere ribelle della giovane, capace di rivendicare l’urgenza di dedicarsi alla scrittura come principio di espressione di sé. Il corpo a corpo con la pagina bianca diviene subito una sorta di Leitmotiv, un topos figurativo che mette in quadro la vocazione letteraria della giovane Emily destinata a tradursi, nel prosieguo del racconto, in vibrante ostinazione. Il movimento della mano che scrive, con il busto reclinato in avanti ad accompagnare il flusso dei pensieri, si impone come misura dello sguardo e incarna un modello di audiovisualizzazione riconoscibile, grazie all’impiego della voice over come controcanto. La poesia di Dickinson si inarca dentro gli spazi misurati della casa paterna, con poche aperture verso l’esterno, grazie alla voce sinuosa della protagonista, che scioglie in canto i sussulti di un animo rigoroso e sempre più intransigente. Se il corpo di Cynthia Nixon si fa carico di esprimere la progressiva rinuncia al mondo della poetessa, secondo un processo di immedesimazione a tratti impressionante20La scelta di sceneggiare la vita della protagonista fino al baratro della malattia si rivela interessante grazie soprattutto alla prova di recitazione dell’attrice, capace di restituire sullo schermo – attraverso marcati segni di performance – tutta la sofferenza indotta dalla nefrite: l’irrigidimento dei muscoli, il tremore degli spasmi, le crisi respiratorie rappresentano i vertici di un’interpretazione accorata e intensa, che non concede nulla alla maniera ma declina l’animus della protagonista con puntuale corrispondenza fra sentimento ed espressività corporea. Rispetto al carattere messo in campo in quello che resta forse il suo ruolo più celebre, cioè la Miranda Hobbes di Sex and the city (HBO 1998-2004), qui Nixon dimostra di saper toccare le corde del dramma e di possedere un ventaglio mobile di sfumature e accenti., il respiro delle sue parole disegna traiettorie segrete, che evaporano tra le chiuse pareti della sua stanza, fino alle ultime battute del film in cui invece accompagnano il feretro verso la sepoltura, ormai oltre la linea del tempo. I versi penetrano dentro il tessuto narrativo del film con una modalità solo apparentemente ‘in minore’, rispetto all’ampio spazio assegnato alla vita della «personaggia»21Richiamo qui la categoria della ‘personaggia’, nata in seno alla critica letteraria femminista, perché definisce i tratti di quelle donne «che escono dalle convenzioni e producono […] degli effetti di sconcerto rispetto alle figure della femminilità codificata» (N. Setti, Personaggia, personagge, in «Altre modernità», 12, novembre 2014, pp. 204-213, p. 205). Cfr. anche M.V. Tessitore,  L’invenzione della personaggia, ivi, pp. 214-219.; è proprio ad essi, infatti, che spetta la funzione di risonanza emotiva, per cui tutti i momenti di maggiore pressione sono scanditi dalla mano che scrive e che cuce esili quaderni di carta, mentre la voce mentale dà ritmo alle pulsioni più intime. Davies costruisce quindi un ritratto credibile, punta su pochi effetti di regia e su un sorvegliato registro interpretativo, che trova nelle pose e negli sguardi di Nixon il vero baricentro dell’opera: prima di arrestarsi di fronte all’unica fotografia di Dickinson, incastonata in una cornice di legno scuro, il film vibra grazie al risalto di una gestualità ora misurata ora fremente, che dà conto di un fervido contatto con le cose e con la loro coscienza.

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