Gemma Adesso

alt«La certezza che ogni scoria
ogni malinconia
ogni male di vivere
si sono ridotti alla loro cenere».
Questo esigono e anch’io
«dalla disciplina della parola». Ma non è
e lo dimostro qui, solo questa la verità.



Dico di me e del male di vivere.
Frugo tra ceneri. Ma anche volto la testa
alte le urla le sento
degli straziati da uomini cani
che vogliono anche me
una di queste notti uccidere.

Indico

con un unico gesto della mano
sia passione sia vanità
la celeste forma della morte
la forma sporca della malinconia.
(Con un unico gesto, Franco Fortini)1

Sull’ingresso monumentale del Jüdisches Museum di Berlino due lunghe bande laterali con il primo piano magnetico di una bocca aperta (di quegli abissi che saranno di Bacon) e una scritta sillabata di una tonalità stridente con la calura del cemento intorno e con la severità del suo dire: OBEDIENCE2.
Il maiuscolo è un imperativo ad entrare, un patto originario con il quale si acconsente a perdersi zigzagando nella storia bimillenaria degli ebrei in Germania, alla ricerca estenuante dell’entrata promessa.
A sinistra di una impraticabile scala arrampicata verso il nulla, una cabina oracolare sottopone domande: «chi sei?». Due le risposte possibili dell’umanità: Ismaele, il primo figlio che Abramo ebbe dalla serva Agar, quel figlio-secondo respinto nel deserto di Bersabea e progenitore delle tribù arabe o Isacco, il miracolo atteso e insperato di Sara e Abramo, oggetto della prova inconcepibile di Dio.
Ismaele o Isacco. Entrambe vittime del momento supremo della decisione, figli dello stesso padre (Genesi 22, 2-13).

La domanda diventa una storia di traiettorie e spostamenti e derive in cui «la disciplina della parola» s’accorda ad «un unico gesto della mano», la scrittura del nome e la risposta dello straniero è tradotta dall’incrocio delle dita che parlano lingue diverse: Ich bin, Je suis, I am, Io sono il mio doppio, madre e compagna, vittima e carnefice, figlio e fratello di un diabolico-padre e nello spazio vuoto della memoria l’Io dimentico di sé è confuso in un mosaico di volti unici a immagine e somiglianza di un genitore irriconoscibile:

Abramo salì il Moria, ma Isacco non lo comprese. Abramo voltò da lui per un momento lo sguardo, ma quando Isacco rivide il volto di Abramo, esso era mutato: il suo sguardo era selvaggio, la sua figura un orrore. Prese Isacco per lo stomaco, lo gettò a terra dicendogli: «Sciocchino, credi tu che questo sia un ordine di Dio? No, è un mio capriccio». Isacco trasalì e gridava nella sua angoscia: «Dio del cielo abbi pietà di me, Dio di Abramo abbi pietà di me; se io non ho un padre sulla terra, sii tu mio padre!». (Kierkegaard 2013, p. 33)

Nel primo dei quattro movimenti” che introducono a Timore e tremore, Kierkegaard immagina il momento definitivo del sacrificio come una follia di Abramo agli occhi del figlio e una preghiera a Dio per la sua salvezza. Può cedere alla tentazione («e Dio tentò Abramo e gli disse: prendi Isacco, il tuo unico figlio che tu ami, e va nella terra di Moria e sacrificalo in olocausto sul monte che io ti mostrerò» [Genesi, 22, 1]) chi è disposto a rischiare la perdita assoluta o chi vive nell’assurdo, lo accetta e accettandolo crede che la perdita non sia irrisarcibile.
Il sacrificio segue all’obbedienza, ma la scelta dell’obbedienza ad un ordine incomprensibile può evitare che il sacrificio si consumi. Il tracciato dell’identità è (in Kierkegaard e in Greenaway/Boddeke) la rappresentazione del paradosso della fede e del perdono3 in cui convivono violenza e pietà, sguardo ferito di animale e mano d’uomo pronta a uccidere.

Tutto è già rappresentato con impressionante precisione nella tela di Caravaggio scelta da Greenaway e Boddeke come fotogramma iniziale, momento centrale, decisione finale del percorso in 15 sale dedicato non al sacrificio di Isacco, non all’angoscia di Abramo, non all’attesa di Sara e all’abbandono di Agar e Ismaele, ma al sostantivo intero e singolare che si fa verbo infinito: obbedire all’imperativo categorico dell’Io sono.

altObbedienza è la storia del disarmo dell’ultimo uomo, l’eletto, tornato nuda vergogna agli occhi di suo figlio. Sacrificio è potenza gestuale, passione e vanità, mano che trema che preme la testa del figlio; mano che blocca e dito che indica; incrocio di sguardi di pietà illuminati dalla celeste forma della morte. E obbedienza-sacrificio è la postura attuale, né mitica e né sacra, di una generazione impossibilitata a reagire alla stupida follia di padri omicidi. Il salto abissale che dal racconto di una prova di grazia introduce all’inferno delle zone di guerra, tra gli Isacco e gli Ismaele rifiutati dalla ragione, fa risuonare con inaudita violenza quella domanda iniziale proprio nello stadio finale in cui l’identità è frantumata e l’istinto a generare appare nella sua evidenza di indicibile mostruosità. La voce ruggente di Satana rimbomba tra le sale, è riso invisibile che accompagna nella discesa iconoclasta: «Are you so stupid? And foolish? And are you going to sacrifice your only son?».

L’immagine del sacrificio viene sacrificata sull’altare della Storia: Abramo, Isacco, l’angelo e l’ariete prendono fuoco e della Parola incenerita non resta che il dubbio di essere indistintamente assassini. Tra le sale, la diaspora procede in un affondo gravitazionale in cui la materia prevarica lo spazio e si impone sui corpi; il movimento delle persone è impervio, procede a fatica nell’affondo di coltelli, piume bianche e lana nera che soffoca, sui ciottoli lisci e incandescenti, al buio o nella luce a neon, nel pieno della mattanza e della preghiera.

Come sempre accade nelle opere di Greenaway, parlarne è quasi impossibile4; l’istallazione è di per sé forma indefinibile e accidentato procedere nel vuoto in cui l’identità si perde e si fonde con quella delle cose (piume, mani, pietre, acqua, lana, croci, coltelli, cappi…) che impediscono e disorientano il passo. L’invasione degli oggetti necessita di una loro catalogazione per non sprofondare nel caos: distinguere soggetto e oggetto, risalire alla legge dell’imperfezione che regolamenta il mondo, individuare in mezzo allo «zoo di personaggi» (Pacilio 2012) l’uomo, è l’unico metodo per considerare l’assurdo della morte solo un avvicendarsi di movimenti alari e decomposizioni carnali. Luca D’Alberto scompone con le sue musiche la violenza del colpo di lama e dilata il deserto di cenere, spazio dell’abbandono e di danza acquea, in cui ogni muscolo si tende per trovare la visuale nell’orizzonte degli schermi che illimitato paralizza la visione.

Il museo progettato da Libeskind è lo spazio scenico perfetto in cui i rimandi ai testi si sovrappongono alla moltiplicazione di figure che incedono con passo di danza, e la brutalità della storia coincide con la sua grandiosa messa in scena. Nella formula di un perdono impossibile da accordare a qualsiasi scelta umana (Abramo è colpevole sia che sacrifichi suo figlio per amore di Dio, sia che lo risparmi per amore di Isacco), Derrida sintetizza ogni negazione di senso letteraria, quindi di espressione, dalla Genesi a Kafka, nel silenzio irriproducibile della fine: «perdono di non voler dire». La morte è il processo di riproduzione per eccellenza, ad essa non si può che obbedire, ma la sua grandiosità sta nella fine unica di ciascuno. L’immagine è ferma a quell’indice di fuga, nell’attimo precedente alla scomparsa definitiva. Quella che chiamiamo “installazione” resta probabilmente l’esempio più calzante della negazione di ogni forma teoricamente concepibile del dire: è non-cinema, non-arte, non-teatro, non-confessione ma tutto questo insieme nel momento supremo del proprio irriproducibile sacrificio. In un'imponente sospensione di lama, risuona la domanda che precede il silenzio: «sei Abramo?». Nell'ultima parola l'identità è determinata, l'obbedienza compiuta: «Eccomi!».


Note

1 La poesia di F. Fortini è tratta dalla raccolta Una obbedienza (Fortini 2014, p. 477).
Il verso/gesto isolato (“Indico”) in Fortini è speculare a quello dell’angelo nel Sacrificio di Isacco di Caravaggio. Gesto unico, dito nella piaga e ridondanza di senso che ci accompagna nella lettura.

2 L’installazione di Saskia Boddeke e Peter Greenaway era visitabile al Jüdisches Museum di Berlino dal 22 maggio al 13 settembre 2015.

3 Sul paradosso del perdono cfr. Caputo 2015.

4 Ha ragione Luca Pacilio quando dice che: «Scrivere del cinema di Peter Greenaway è facile e difficile nello stesso tempo: è facile, colmo com’è, il suo lavoro, di motivi e temi, avendo il cineasta mescolato, con sapienza e irriverenza, la cultura classica britannica (e la sua propensione al gioco e all’umorismo) con tenaci quanto riconoscibili ossessioni tematiche, formali e strutturali. È difficile perché, come pochi altri, egli è stato, in questi anni, tanto generoso nel concedersi a spiegare la sua opera, quanto categorico nel fornirne una lettura precisa, una vera e propria interpretazione autentica che ha finito col disegnarla nelle sue esatte dimensioni, evidenziandone caratteristiche e intenti e riducendone, di conseguenza, il terreno della possibile esegesi» (Pacilio 2012).


Bibliografia

Derrida J. (2007): La letteratura nel segreto. Una filiazione impossibile, in «Ars interpretandi», XII, Carocci, Roma.

Fortini F. (2014): Tutte le poesie, Mondadori, Milano.

Kierkegaard S. (2013): Timore e tremore, Bur, Milano.


Sitografia

Caputo A. (2015): A Bari due Abramo; forse quattro. Jacques Derrida e Patrik Fridlund; Teresa Ludovico ed Ermanno Bencivenga, «Logoi.ph»,

Pacilio L. (2012): Peter Greenaway: il cinema come fine, «Gli Spietati»


http://www.youtube.com/watch?v=YfzOI_evGHc