Gemma Adesso

angelica39«Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze di trine. […] Passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi» (D. Campana, La notte, in Canti orfici).

La divinazione delle visioni percepite per mezzo di uno specchio è definita catattromanzia e lo specchio, si sa, è il giocattolo preferito da Dioniso: «ecco la folgorazione orfica: Dioniso si guarda allo specchio e vede il mondo» (Colli 2005, p. 42). Il modo in cui un dio si esprime è nell’apparenza.


In Grecia, il consultante, colui che voleva conoscere la sua sorte, veniva introdotto bendato in una camera semirischiarata. Spesso il rito constava di varie fasi; tra le più significative c’era l’immersione della superficie di uno specchio in una fontana; il riflesso dell’immagine deformata del volto poteva essere sinonimo del rinnovamento o della fine di un’anima.  
L’atto del vedere era il contrassegno fondamentale della sapienza, per questa ragione il posseduto dal dio era in grado di vedere quello che i non iniziati non potevano: l’immagine del dio stesso nell’uomo e il suo riflesso nel mondo.

Senza dubbio sono dionisiaci i riti raffigurati negli affreschi della Villa dei Misteri di Pompei1. Una passeggiata lungo il perimetro della sala principale è già cinema: si segue il percorso iniziatico di una giovane ragazza che, dopo essersi lasciata alle spalle le abitudini quotidiane, avanza verso il territorio di dei e satiri e lentamente si sveste per attraversare delle prove dolorose ma necessarie a ri-vedersi trasfigurata e pronta alle nozze sacre.

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Gli affreschi immortalano evidentemente l’episodio più straordinario e raro che è dato vivere: l’incontro col dio. Gli avvenimenti precedenti (la vita da nubile) e seguenti (la vita da sposa) alle scene raffigurate sono i fuori campo necessari all’elaborazione del cambiamento dell’iniziata. La disposizione stessa delle scene ci racconta la storia di un’avvenuta trasformazione. L’ultimo affresco della parete sinistra ritrae la giovane inorridita e nell’atto di fuggire in un turbine di velo scuro che le servirà forse per nascondere lo sguardo e non essere vista o addirittura toccata (come in un’anticipazione di un Noli me tangere) da qualcuno che l’aspetta. Il suo passo è sospeso quasi stesse per precipitare fuori dal quadro che contiene la sua storia.

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Un satiro avvicina una coppa al viso di un giovane: il fondo della coppa potrebbe essere riflettente per consentire al giovane di conoscere per la prima volta il suo viso. Dietro di lui un altro satiro solleva una maschera (probabilmente di Dioniso).
Il riflesso come sempre è un inganno; il volto che il ragazzo vede non è il suo, ma quello terribile del dio mediato, non nascosto ma rivelato2, da una maschera che lo coglie alle spalle. La ragazza assiste alla scena insieme a noi, a lei forse toccherà guardare nella stessa coppa al medesimo riflesso-sovrapposizione. Come continuare a vivere dopo aver visto l’inizio e la fine di tutte le cose e il loro necessario eterno ripetersi?
Lo specchio è oggetto ossimorico, simbolo di illusione e conoscenza, mostra la verità dell’apparenza.
Dopo aver visto, la ragazza è trasfigurata: nell’ultima scena-inquadratura è intenta a curare la superficie: si pettina e si specchia. Lo specchio, sorretto da Eros, riflette la parte anteriore delle cose, ciò che lei guarda non è altro che la sua identità o una nuova maschera.

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Colpisce di queste raffigurazioni l’insistenza sulla trasformazione fisica che si accompagna a quella mentale (o virtuale) dell’iniziata. Il suo corpo gradualmente si trasforma: dismette gli abiti da nubile, affronta prove di vera a propria sofferenza fisica (viene ritratta nel momento in cui un angelo la frusta), nasconde il suo volto nel grembo di un’ancella dopo aver assistito alla visione di Dioniso tra le braccia di Arianna, riceve il tirso (il bastone di Dioniso che attesta l’avvenuta iniziazione) e si vede come per la prima volta, radicalmente cambiata e divenuta essa stessa immagine, ma sorretta dal dio della carne. L’ultimo affresco è interessante anche per un altro motivo: la direzione dello sguardo della ragazza non è rivolta allo specchio ma allo spettatore, così come l’immagine rifessa e sollevata dal dio è disposta in maniera tale da essere visibile a chi guarda la scena dal basso. Una Las meninas prestorica in cui tutti gli occhi sono puntati su chi guarda, soggetti della visione, veduti o in atto di vedere? direbbe Foucault: «lo specchio inatteso fa splendere le figure cui guarda il pittore; ma altresì le figure che al pittore guardano […]. Il gioco della rappresentazione consiste qui nel portare l’una al posto dell’altra, in una sovrapposizione instabile, queste due forme dell’invisibilità. […] Lo specchio assicura una metatesi della visibilità che incide, a un tempo nello spazio rappresentato nel quadro e nella sua natura di rappresentazione: mostra, al centro della tela, ciò che del quadro è due volte necessariamente invisibile.» (Foucault 2004, p. 22)
Possiamo azzardare un’ipotesi: il cambiamento del volto della giovane iniziata potrebbe essere avvenuto dopo aver assistito alla scena del riflesso-sovrapposizione nel fondo della coppa. Il momento topico dei riti dionisiaci era proprio l’esperienza estatica: il vino consentiva di abbandonare i propri panni abituali, uscire fuori di sé, fare esperienza del mondo come allucinazione del dio. Alla stessa maniera, il giovane iniziato beve il contenuto della coppa e assiste alla rivelazione: la ripetizione infinita di un rituale di immedesimazione tra dio e mondo, «l’antitesi tra apparenza e divinità, tra necessità e gioco, viene qui risolta in una sola immagine, dove tutto si diparte e si congiunge, dove la visione illumina quello che il pensiero intorbida» (ivi, p. 43).
Un’altra scena chiave è quella della giovane donna che beve alla stessa coppa rivelatrice nella persistente presenza del fuori campo. Quello che sappiamo è che ha visto l’altro iniziato e il solo fatto di aver assistito alla scena ha fatto sì che in lei sia affiorato un perturbante senso di inquietudine e forse di immedesimazione che le consentirà di rinnovarsi.
Alla stessa maniera, a quale volto rimanda il riflesso nel fondo oscuro dell’ultimo specchio?

Vittorio Gallese, scopritore dei neuroni specchio3, parla di un processo di “simulazione incarnata” che «produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione. È per l’appunto la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione che potremmo definire “empatica”» (Gallese 2006, pp. 236-43). La specularità quindi, per Gallese, è nella carne perché i riflessi generati dall’osservazione di un’azione sono puramente motori e non cognitivi. Ma come sottolinea bene Michele Bracco, una caratteristica non trascurabile dell’empatia è quella che rende possibile «un certo “ritorno” dello sguardo, in virtù del quale colui che empatizza non fa solo esperienza della vita altrui [la ragazza che guarda il giovane iniziato; noi che guardiamo la scena], ma si riflette negli occhi dell’altro, cogliendo la propria immagine» (Bracco 2005, p. 41). Il riflesso dell’ultimo volto allo specchio è emanazione anche dei volti degli incontri precedenti; solo quando avviene la coincidenza catartica tra dio io e mondo,  l’iniziazione è  davvero compiuta. Potremmo chiamare tale coincidenza una aderenza amorosa (è Eros che regge la visione) tra la determinatezza del visto e l’indeterminatezza del non-visto.
L’empatia ci permette di cogliere il vissuto dell’altro in una rappresentazione che ci ri-guarda che mi consente, cioè, di guardarmi dalla postazione dell’altro; allora, forse, anche la fisiologia mette in mostra ‒ attraverso determinate zone del cervello che si attivano nella distanza del gesto ‒ quel fondo oscuro e abissale (la sovrapposizione di due volti nella coppa) che sostanzia l’incontro. Il volto dell’altro dice qualcosa del mio che ancora non so. Al reciproco conoscersi e presupporsi segue l’immedesimazione: i due volti non sono più scindibili, ma si confondono a creare una identità arricchita, che posso conoscere solo se sono predisposto a un atto d’amore totale (ricordiamoci sempre che è Eros che regge lo specchio), di apertura dello sguardo alla superficie (aspetto anteriore) delle cose.
Ma il volto riconosciuto è maschera, eccesso illusorio di una identità decostruita. Quello che so, guardando(mi) a fondo coincide con una allucinazione o apparizione formalmente perfetta (la donna che narcissicamente si pettina).
Scrive ancora Bracco: «Quella che sarebbe la “mia” immagine, allora, è in realtà un’immagine che non mi appartiene mai pienamente poiché, invece di riflettere semplicemente la mia identità, essa al contrario la costituisce e la disfa continuamente. In questo gioco di specchi e di riflessi, proprio come Narciso, io posso cogliere me stesso solo a condizione di perdermi.» (ivi, 42).

Il meccanismo dell’immedesimazione è consustanziale alla visione cinematografica4. Riflessioni pertinenti sui neuroni specchio che si attivano nello spettatore sono state per altro già affrontate (si vedano gli studi di Luigi Giannachi, René Girard, Erci Jaffe), ma un capitolo a parte merita l’analisi del cinema stesso sulla imitazione con, del e per l’osservatore (o consultante), in un ritorno di immagine e di rimandi incrociati.
Innumerevoli sono gli esempi che il cinema offre rispetto a questo rapporto o rappresentazione in assenza: dai film elegiaci del Tarkovsky de Lo Specchio (1974) e dell’Angelopoulos de L’Eternità e un giorno (1998) passando per i film di genere “spiritico”, dagli eterni classici L’Atalante (1934) di Vigo e Fantasma (1922) di Murnau fino ad arrivare a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010) di Weerasethakul.
In questo contesto la scelta si restringe a poche altre visioni che rendono ancora più evidente questo meccanismo che, forzando le ricerche dei neuroscienziati, chiamerò di “immedesimazione disincarnata”.
Un esempio calzante è fornito dal cinema di Lanthimos, in particolare in Kynodontas (2009) mostra come «la coscienza dell’io non è un’insorgenza spontanea nel singolo in opposizione al dominio, è piuttosto un processo che si va determinando per via indotta. Allenata da anni di mimesi al comando del padre, [la figlia maggiore] imita con estrema naturalezza anche alcune scene dei film che vede, in modo tale che la sua soggettività in formazione si viene a plasmare in funzione delle nuove immagini: il risultato non è un’individualità autonoma, ma un io phantasmatico, immaginale, fatto di immagini e a immagine della superficie del video, e frutto di una formidabile attitudine all’imitazione» (Sardone 2012, p. 86).
In questo caso il meccanismo è svelato all’interno del cinema stesso: come il riflesso della maschera nello specchio, si viene a creare una identità simulata, la proiezione reale dell’immaginazione di un fantasma (l’attrice nel film).

Il cinema di De Oliveira sembra riflettere da sempre sull’oggetto assente del desiderio che prescinde ogni rapporto. In Specchio magico (2005) la ricca signora Augustina è ossessionata dal bisogno che le appaia la Madonna. Convinta delle nobili origini della Vergine, si consuma nel tentativo disperato della costruzione posticcia di un’icona a propria immagine e somiglianza. Abbandonata a un isolamento delirante, il suo stesso corpo diviene un’apparizione in pellegrinaggio e, come un sudario portato in processione, è circondato da studiosi, preti e parenti in attesa del miracolo che li resusciti.
Se nel film precedente tutti i corpi apparivano (come immagini riflesse nello specchio), in Lo strano caso di Angelica (2010) è l’incontro ultimo tra due corpi di carne che non si sfiorano a diventare il pretesto per una teorizzazione dell’immagine: uno è vivo (il fotografo) l’altro è morto (Angelica).
Angelica è incorporea solo nel nome, il fotografo ne cattura l’istante dell’ultima fugace presenza terrena e il suo volto si rianima di un sorriso celeste solo quando è visto per mezzo dell’obiettivo fotografico. È questo uno “strano caso” di desiderio di possesso in cui l’ossessione dell’immagine di lei implica un uso spasmodico della macchina. Il contatto, se c’è, avviene grazie a una mediazione meccanica: l’obiettivo del fotografo ha la stessa potenza erotica della costruzione robotica di Tsukamoto, ma quello di De Oliveira è un Tetsuo metafisico, senza raccapriccianti amputazioni. Il contatto non genera infezione, tuttavia il risultato finale è lo stesso: la trasformazione del corpo in qualcosa d’altro. La simulazione in questo caso è “disincarnata”; il fotografo muore per avere troppo visto e rinasce rinnovato nell’abbraccio degli amanti che, come in un quadro di Chagall, ha il potere di alleggerire il mondo.

Ne L’Histoire de Marie et Julien di Rivette (2003), al contrario, è il fantasma a voler dare sostanza al mondo. Mentre Marie è temporaneamente imprigionata in una condizione di visibile presenza, Julien ignora completamente il trascorrere del tempo. Per lui gli orologi sono solo macchine difettose che bisogna saper ascoltare, Marie invece è ossessionata dalla scadenza della sua scomparsa e desidera il sangue che attesti la fisicità di un dolore che non si cancella. Marie è fantasma di carne; che tornerà ad essere carne per simulazione di vita e avvenuta sovrapposizione di corpi.
Si ritorna al tonfo del corpo, che dopo l’incontro d’amore, cade annichilito da un’insostenibile assenza. In The Brown Bunny (2003) la morte si dilata oltre ogni misura; gli spazi sono sempre compressi nel tentativo di lasciarli implodere: i paesaggi sono visti attraverso la patina opaca del vetro della macchina in corsa, le stanze occupate sono asettiche scatole senza traccia d’uomo, gli incontri casuali che Vincent Gallo fa sono solo una collezione di occhi, di mani, di labbra in cui manca ogni possibilità di riconoscimento. Quella di Chloë Sevigny non è un’apparizione, ma la comparsa di un altro fantasma che ritorna ad essere carne per contatto. Vincent Gallo è il posseduto dalla visione, morto da vivo almeno quanto lei è viva da morta: i suoi riflessi motori sono attivati da un fantasma. Non gli interessa il suo ricordo (che in effetti rimuove), ma lei-vampiro, presente e intera, corpo ex-posto che lo esaurisca, che lo renda spettro perso in un deserto.

Sembra che tutti questi Orfeo alla ricerca della loro Euridice scontino, come scrive Platone nel Simposio, la pena di un’atroce solitudine per non essere stati in grado di morire per amore: «Al contrario, cacciarono dall’Ade Orfeo, figlio di Eagro, inappagato, mostrandogli un fantasma della donna [corsivo mio] per la quale era venuto, senza tuttavia dare lei, poiché a essi sembrava, in quanto suonatore di cetra, un uomo debole, privo del coraggio di morire per amore come Alcesti, e preoccupato invece di riuscire a entrare vivo nell’Ade. Proprio per questo gli imposero una pena, e fecero che la sua morte avvenisse per opera di donne.» (Platone 2013, 179 d).
Il corpo del defunto è per rito mostrato affinché ne resti una traccia incisa nella memoria di chi lo guarda; oppure, per processo inverso: è esposto affinché in chi lo guarda si attivino quei neuroni in grado di simulare – sovrapponendo volto a volto – la propria scomparsa. Guardare un corpo immobile non equivale a reificarlo; è il cambiamento verso la decomposizione, quella naturale degenerazione della materia che prelude alla sua invisibilità, a interessare inconsciamente chi guarda.  
Ciò che resterà dell’immobilità degenerante del corpo sarà immagine, il ricordo animato di un’assenza persistente che riempirà gli spazi: «ciò che accade al corpo, al mondo in generale, quando si esce dal mondo degli dei, è un’alterazione del mondo. […] Un’alterità che attraversa il mondo da parte a parte, una infinita separazione del finito» (Nancy 2008, p. 67).
La fantasmagoria dell’assenza che investe il soggetto e lo annulla proiettandolo nel «panorama scheletrico del mondo» (Campana, La notte, in Canti orfici) è l’esperienza ultima della visione. Così come il consultante veniva introdotto bendato nella sala semirischiarata in cui avrebbe avuto accesso alla rivelazione, colui che guarda (non semplicemente spettatore di una scena di consumo, ma testimone di uno spettacolo che si consuma) assiste al rito di una trasformazione.

Avevamo lasciato l’iniziata della villa pompeiana nell’atteggiamento ieratico di una trasfigurazione, ma più che il cambiamento del suo aspetto è il riflesso del volto nello specchio che qui ci interessa: «Specchiarsi, manifestarsi, esprimersi: nient’altro è il conoscere. Ma questa conoscenza del dio è proprio il mondo che ci circonda, siamo noi. La nostra corposità, il pulsare del nostro sangue, ecco, è questo il riflesso del dio. Non c’è un mondo che si rifletta in uno specchio e diventi la conoscenza del mondo: quel mondo, inclusi noi che lo conosciamo, è lui già un’immagine, un riflesso, una conoscenza» (Colli 2005, p. 43).
È questo “il meraviglioso” del cinema, la possibilità di empatizzare con l’invisibile, con quella parte rimossa e perturbante che ci abita (Unheimlich), esorcizzando la morte. Come nell’ultimo film di Malick (To the Wonder, 2012), l’immagine – sorretta, o meglio sollevata, da un atto d’amore immenso ‒ investe lo sguardo e, dal fondo trasparente dal quale emana il rinnovamento o la fine delle cose, ne proietta l’ultima rarefatta maschera: il fantasma è il mondo.


Note

1. Com’è noto, gli studi  e le interpretazioni sulla Villa dei Misteri sono state molto approfondite nel corso degli anni. In questa sede prenderò in considerazione solo una traccia, certamente non esaustiva, ma funzionale al discorso, seguendo un percorso attento al fuoricampo, alle scene che mancano e ai vuoti che aprono a confronti tra immagini lontane nel tempo e circoscritte in uno spazio definito (nel caso di Pompei) o in nessuno spazio (nel caso di ogni sala cinematografica). Un dialogo immaginato tra pre-cinema e cinema, opera e spettatore, sguardo e visione che verrà sviluppato in uno studio specifico in corso di elaborazione.

2. La maschera è l’epifania di Dioniso che è sempre il doppio di se stesso (nato due volte, contiene in sé tutti i contrari).

3. Una classe di neuroni che si attivano quando si compie o si osserva un’azione compiuta da altri.

4. Mentre il riconoscimeto presuppone un attestato di similarità nei confronti di colui che si conosce come simile; l’immedesimazione può avvenire anche in mancanza di tale percezione, per cui capita di immedesimarsi nel totalmente altro che niente ha in comune con l’immedesimato. È un meccanismo, a mio avviso, simile al percorso cinematografico dell’ultimo Malick in cui, l’abolizione delle trame, l’apparente semplificazione della psicologia dei personaggi in favore dell’apertura al sublime che si manifesta in scenari naturali inconcepibili, il persistere della voce off e il riferimento permanente a una metafisica di terra, acqua e sangue, non permettono di riconoscersi solo in quella precisa storia o in quel particolare ruolo ma nella vastità della natura che genera e si decompone, che solleva e sotterra, crea e distrugge. L’immedesimazione è con il totalmente altro, l’inconoscibile, l’invisibile e non sempre ad essa segue la “riconoscenza” per l’acquisizione dell’alterità come medesimezza. La questione che in questa sede non è possibile risolvere riguarda la domanda: fin dove è possibile riconoscere l’umano? Fino a che punto è possibile per l’uomo arrivare a immedesimarsi con l’altro da sé?


Bibliografia

Bracco M. (2005): Empatia e neuroni specchio in «Comprendre», XV, consultabile qui.

Colli G. (2005): La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano.

De Gaetano R. (2002): Il visibile cinematografico, Bulzoni Editore, Roma.

Gallese V. (2006): La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività, in Autismo. L’umanità nascosta, a cura di S. Mistura, Einaudi, pp. 207-70.

Foucault M. (2004): Le parole e le cose. Un’archelogia delle scienze umane, Bur, Milano.

Nancy J.-L. (2008): Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo, Bollati Boringhieri, Torino.

Platone (2013): Simposio, Laterza, Roma - Bari.

Sardone M. (2012): Yorgos Lanthimos. Il phantasma della realtà, in Il film in cui nuoto è una febbre. 10 registi fuori dagli schermi, a cura di Luigi Abiusi, CaratteriMobili, Bari.


Filmografia

Kynodontas (Yorgos Lanthimos 2009)

L’Histoire de Marie et Julien (Jacques Rivette 2003)

Lo strano caso di Angelica (O Estranho Caso de Angélica) (Manoel De Oliveira 2010)

Specchio magico (Espelho Mágico) (Manoel De Oliveira 2005)

Tetsuo: The Iron Man (Shin’ya Tsukamoto 1989)

The Brown Bunny (Vincent Gallo 2003)

To the Wonder (Terrence Malick 2012)