Sabato 17.5.75

Come uscire dal viaggio rimanendo comunque nel viaggio?
Fare di questa follia un fatto di bellezza postuma come questa rondine
che viene ogni giorno in un nido inesistente sulla porta della capanna,
che persiste qui in questa falsa estate e si inganna volando e volando.

Lunedì 19.5.75

Sembrerebbe che qui non sia successo nulla perché giochiamo a scacchi o a calcio o a qualsiasi cosa,
addirittura leggiamo, e a volte ci è permesso di pensare (anche se di nascosto).Ma io ho dubbi su tutto questo, perché le colline, le nuvole e gli alberi così belli che vedo dalla mia capanna stanno dietro il filo spinato.

Mercoledì 21.5.75

Sono in prigione per aver fatto dell'arte qualcosa di più di un giocattolo o di una semplice ostentazione
di bellezza (volevo andare oltre ed entrare completamente negli altri).

Ma anche se mi avessero convinto che era possibile e necessario
non lo scambierei per una lacrima di mio fratello.

23.5.75
Qui viene ogni giorno una rondine a cercare il suo nido e se ne va, perché
evidentemente si è sbagliata.

10.6.75

Nell'oscurità di questo sole immenso, la miseria del riflesso dorato dei
pascoli asciutti o delle colline che bruciano ogni sera tra le nuvole, in un silenzio
bello e macabro. Silenzio oscuro. Noi ammutoliti, e solo
possono rinchiuderci, costringerci a cantare le loro marce o a darci ordini.
E l'altro? E noi?
Lì non entrano.

11.6.75

In una conversazione si sollevano argomenti sull'arte.
Miró, per esempio, oppure Matisse, di cui abbiamo alcune riproduzioni,
che ci accompagnano sulle pareti della baracca.
Alcuni pensano che potrebbero essere accusati solo di giocare.
In Matisse, il colore ha una profondità umana che supera il gioco
e l'apparente sofisticazione.
Ma dove è impossibile perdersi è in Miró, lì - nella sua abbondante gioia
coloristica -, insieme alle sue chiavi, giochi e battute, cammina un dramma reale,
l'impulso motore della pennellata e del caso stanno mostrando il tragico della sua Spagna
e di ciò che stiamo vivendo oggi.

12.6.75

Ieri sera alle cinque del mattino è nata in infermeria una bambina
di tre chili, levatrici: i due medici in prigione.
Stamattina l'inno nazionale che abbiamo cantato alzando la bandiera
ha smesso di avere quell'amaro sapore di meccanico e obbligato

Lettera a Victor Jara.

Puchuncaví, 13 giugno 1975

Caro Victor, un giorno siamo venuti a sapere che non eri più vivo, che ti avevano fucilato,
che ti avevano fatto a pezzi al punto che Joan non riusciva quasi a riconoscerti
quando gli hanno mostrato il tuo cadavere all'obitorio.
Allora anch'io ci ho creduto e ho ricordato così tanti momenti insieme che
oggi sembrano assurdi: ridendo delle stupidaggini di Disneylandia
con Cherry Jo Strow, nel Riverside, ballando in una discotheque
con una luce strana che ci trasformava in sonnambuli, lavorando insieme,
litigando. Sei stato mio allievo e mio amico. A New York mi
hai aiutato in un momento di dolore e solitudine e una notte hai cantato
Il Sigaro, mentre mangiavamo tagliolini che ci eravamo preparati,
tra grattacieli che non ci appartenevano e un'amica gringa
che non ci apparteneva neppure lei.
E passò molto tempo, abbiamo continuato a lavorare e combattere, a volte. Mi
hai conosciuto triste, mi hai visto allegro, siamo stati insieme cercando di
costruire qualcosa che volevamo per tutti, ognuno dal suo versante, stavamo facendo
quello che potevamo
E tu hai cominciato a cantare e cantare.
Hai riempito il Cile cantando, così hai combattuto, così sei caduto, ma non sono riusciti a ucciderti, Victor.
Ti ho incontrato tante volte: qui a Melinka, a Puchuncavi,
stasera, mentre nella sala da pranzo i compagni cantavano
i tuoi «cinque minuti, la vita è eterna in cinque minuti» e le notti
della cella solitaria a Cuatro Alamos, subito dopo la mostra che non hai visto
che feci però anche per te.

Perché da quando hanno creduto di distruggerti sono successe molte cose, molti
morti e prigionieri. I tuoi amici, quelli che non hai mai conosciuto, quelli
che io sto conoscendo ora e che anche tu ameresti. Poi
ho trovato Soledad, la mia compagna, tu non l'hai conosciuta e io avrei voluto fartela conoscere
con questo tremendo orgoglio che mi riempie
mentre ti scrivo di lei. Le feci, qui, in prigione un anello d'osso,
lo stesso che avevamo mangiato nella zuppa, era la nostra fede.
Ci sposammo qui a Melinka, tra il filo spinato,
senza notai, senza ospiti, noi due soli, perché ci eravamo scelti
per tutta la vita. Avrei voluto fartela conoscere,
Victor, perché sei così vivo, perché quando questa piccola compagna
di cella che io non vedevo, a Cuatro Alamos, cantava a voce molto bassa le tue
canzoni nella notte, la cella solitaria si riempiva della gioia dei
tempi andati e di quelli che ci siamo proposti di costruire e che dovranno
venire.
Perché quando lei cantava ho capito con tanta forza che mai
potrebbero ucciderti, che non potrebbero mai distruggerti, né sconfiggerti, né spezzarti.
Per questo ti scrivo, Victor, per dirti che anche tu dovrai
cantare in quel Cile che un giorno faremo.

 

26.6.75

Le mosche cominciano ad apparire nei disegni. Sono l'aria contaminata
che respiriamo, la vergogna di quelli che ci vigilano, la solitudine in cui
rimangono i carnefici.

27.6.75

Tutto quello che vorrei è un po' della tua solitudine, sentire solo la tua voce, non
le urla e le voci di comando.
Allontanarmi da questo universo che mi sfugge, che non ha nulla a che fare con
me, in cui quasi ogni suono mi è estraneo, in cui tanta presenza non
mi appartiene.
Vorrei ululare per allontanarli. Scappare da tanta banalità, isteria
stupidaggine.
Smettere di essere "legato mani e piedi". Vorrei che la mia "sensazione di
esistere" non fosse sporca e che solo tu ci fossi a condividerla. Che
le nuvole se ne vadano e il cielo si riempia di buchi rosa.

 


2.7.75

Mi stringo alla tua vita
mi afferro alla tua bocca
e la mia lingua gioca nella tua
E domani al risveglio
al mettersi in fila
sarai di nuovo sorridente
come adesso
in questo momento



3.7.75

L'idea sostanziale di Adamov è: nessuno capisce nessuno, l'uomo è
solo e sempre la compagnia è il substrato della solitudine.
Racconta un fatto vissuto:
Un cieco chiede l'elemosina, passano due ragazze e lo spingono senza vederlo, si allontanano cantando:
«Ho chiuso gli occhi, è meraviglioso».
Nessuno capisce nessuno? La compagnia è la solitudine?
Anche qui può sembrare vero, qualcosa vissuto dall'interno, qualcosa di viscerale
che è davvero esistito (perché dubitarne?). Ma ancora senza capirsi
fino in fondo c'è qualcuno che dorme o molti che ci dormono accanto,
si formano insieme, cantano con la stessa rabbia o senza pensare e nonostante siano soli siamo uniti in questa solidarietà dell'angoscia, del
dolore e degli stessi sogni.
Così, allora, è più bello pensare che è dovere nostro capire gli
altri e pensare che «chiudere gli occhi è meraviglioso» quando li stiamo
aprendo dentro gli altri dove davvero ci troviamo da fratello
a fratello, compagno a compagno, in una bella solitudine solidale,
bella e piena di tenerezza.

5.7.75

Rimbaud: «E a volte ho visto quello che l'uomo ha creduto di vedere».
Un viaggio in camion a Valparaiso. Mi portano con un altro compagno all'
ospedale tra militari in borghese, cesti e pacchi. Sento per attimi la
sensazione di vivere di nuovo, di essere un altro tra i tanti (come se niente fosse),
passeggiare un poco in mezzo alla strada - dal camion per l'ospedale Navalcon
una normalità assurda, nonostante le mitragliatrici dei soldati
che qui si umanizzano e diventano quasi solidali (perdono l'uniforme
quando ci parlano, tranquilli, con la stessa naturalezza con cui noi gli parliamo).
Al ritorno, tra casse, sacchi, barattoli, rannicchiati in un angolo, guardo
come su uno schermo - con la figura ritagliata dei fanti di marina
e il fucile in cartoncino nero - come in un film banale: i
treni, barche un po' più lontano, persone più vicine; quasi respirando.
Sopra, tante luci, sigarette, clacson, tutti quei rumori.
E mentre avanzano comincia a imbrunire lentamente, molto lentamente, con rossi fuggitivi del sole tra le nuvole e il mare, il porto comincia a riempirsi di luci,
un flusso di formiche luminose, figure intrecciate, rumori di onde,
strette di mano o semplici linee rette scintillanti.
Nel camion ci riempiamo di buio e silenzio, affondando in un
sopore di esistenza e, di nuovo, l'oblio. Sullo schermo continua ad allontanarsi
il porto mentre torniamo verso l'altra folla. E attraversando il cancello
del campo, insieme alla parola d'ordine, il cartone ritagliato rompe l'imbottigliamento per tornare alla realtà:
- Di nuovo all'inferno...
E con la sua voce mi viene alla mente quello che Rimbaud raccontava a Parigi quando avevo vent'anni in meno e disegnavo senza sapere quello avrei vissuto
dopo.
E cosa avremmo potuto dire se aveva tanta ragione e inoltre era il cartoncino
nero quello di cui parlava? 

7.7.75

Beckett: Aspettando Godot.
E. Non siamo legati?
V. Non capisco niente
E. Chiedo se siamo legati
V. Legati?
E. Legati
V. Come legati?
E. A piedi e mani
V. Ma a chi? Da chi?
Spiegarsi, darsi interi, scuoiarsi senza pietà anche se nel silenzio.
Andare a cercare molto dentro l'altro, quello che si sta dando al di là
le immagini.
È sempre stato un mistero (e lo è ancora per me) sapere se dietro lo schermo
del cinema c'è qualcosa di più di un'oscurità logica, mi piacerebbe trovare il
mondo che le parole non descrivono. O perché non immergersi nel silenzio?
Uomini-rane di notte.
Rendere tutto il vuoto qualcosa in più di un dramma particolare. Così inizia ad
avere importanza esprimersi a puro grido, a grido spellato, anche se si
diventa rauco e poi tutto è un sussurro. Sempre rimarrà una piccola traccia e
può essere anche importante quel silenzio perché viene dopo
il grido.
Anche che se è notte, ci sono sempre stelle che ascoltano o guardano, anche se
non le sentiamo a causa delle nuvole o della pioggia o di tante altre cose.

Puchuncaví 8.7.75

Kafka: «Comunicare qualcosa di incomunicabile»
S. Beckett: «Dans le silence on ne sait pas, il faut continuer, je vais
continuer»
Costruire, costruire e distruggere senza mai smettere di farlo, lasciare la paura
a lato, anche la stessa paura di salvarci come aspettando sempre
Godot.
E non dimenticare la magia e la poesia. Nemmeno il dolore.
A comunicare a squarciagola, a colpi, ad ogni costo, l'incomunicabile e
continuare senza fermarsi mai.

10.7.75

Tornare sempre alla questione della trasfigurazione del reale in un'altra realtà
con le proprie leggi, quelle che appartengono solo ad essa e che sono, in verità,
condizionate dalla prima. Qual è quella vera?
Entrambe hanno la stessa forza e lo stesso vigore.
L'importante è che quella che si fa uscire dalle mani come colombe
da un cappello abbia più realtà, più verità, più profondità anche se il
modo di dirlo sembra inverosimile oppure - a volte - sembra apparenza di evasione da questa realtà dalla quale fuoriesce.
Il compito è: rendere la trasfigurazione più vera e più nuova del
trasfigurato.

Venerdì 11.7.75, al mattino con molto sole

[…] Un compagno si avvicina a me mentre scrivo e si siede al mio fianco silenzioso
per un bel po', poi mi racconta qualcosa di sé. Perché lo fa? Ci
conosciamo così poco e mi parla dei suoi dolori, dei suoi amori, di qualcosa
che non ha più rimedio, dell'abbandono. Perché lo fa? Solo perché qui è l'unico posto in cui non siamo soli.
Nel pomeriggio, dopo pranzo.
Vengono a prendermi per portarmi a Tres Alamos. Vedo la mia compagna per un istante al cancello, le urlo dove vado. Passiamo a Ritoque a prendere due
compagni. Siamo in cinque, ci sorvegliano dieci carabinieri.
Più avanti, vicino a Ventanas, vicino al mare del Cile che forse non vedremo mai più, che serve ad inebriarci di illusioni o di sogni,
passa un camion carico di barre di rame. Curiosa coincidenza: tre
anni fa, il Presidente Allende e tutto il Congresso Nazionale facevano del rame
-quello che non è più- la dignità nazionale.

Tres Alamos, sabato 12.7.75

Ricordarti per strada allungando le braccia, baciandoci in aria e solo
toccare lo spazio con le dita. Senza tristezza perché un poco prima ti avevo
abbracciato e pianto circa duecento volte nei compagni che lasciavo e
ti avevo detto addio aprendo e stringendo i pugni prima di incontrarti all'arrivo
e il tuo sorriso sorpreso a metà strada per arrivare di nuovo
a abbracciarti cento volte in questa sala d'attesa, su questa nuova scala.
E ora stretti nella pancia della balena, infilati tra le costole,
trovare di nuovo la catena montuosa innevata e il mare, la marea immensa avvolgendoci,
entrando in noi, legandoci sempre di più nella sensazione
di eternità

14.7.75

Cosa indicheranno le dita indice alzate o orizzontali in Leonardo?
C'è in loro più di una ricerca formale della composizione,
più che un'invocazione o un mistero. Una provocazione: «esprimere lo
inesprimibile di Kafka» (curioso unirli così).
Ci sarà qualcosa di tragico in tutto questo? La sua solitudine, per esempio?
Dice Leonardo: «Credevo di imparare a vivere, ma era morire quello che stavo
imparando». Questo può essere tremendamente vero, però imparava anche
che ci nascano ali, tante ali!

18.7.75

La neve scintillante sulla catena montuosa sullo sfondo taglia un albero
vicino e, oltre, le torri di guardia con i carabinieri armati.
E alla finestra, due figure: qui vicino la luce Veermer nell'asciugamano la luce
Tres Alamo, la luce Puchuncaví, Ritoque, Dawson, Tejas Verdes.
Sdraiato in mezzo a questo Brueghel, delirante e chiassoso ma incolore,
che guarda la televisione e la figura della finestra indifferente lima e lima la sua monetina
senza curarsi del sole che fa splendere il noce del cortile
la stessa intensità del metallo che lavora nelle sue mani - la neve
la catena montuosa. Almeno oggi posso guardarlo dalla mia capanna, senza quella
angoscia che mi faceva aggrappare con tanta intensità a quel fugace raggio di
sole che sfumava nel pomeriggio.
Che cosa stavo pensando un giorno come oggi nel giardino buio quando
senza occhi piantavo rose?

19.7.75

Ottenere un salto in profondità a rischio di perire.
Rendere visibile quella massa oscura che viene cantando dall'interno, travolgendo tutto
Eppure, senza riguardo, anche se a prima vista sembra che non
si riconosce.
Mostrare dall'interno in modo che la luce venga fuori con crudezza. Parlare dalle
profondità, parlare delle tenebre per rendere la luce un'abitudine, un
modo quotidiano di guardare sempre più dentro di noi, dentro degli altri.

20.7.75

Mi stanno rubando il tempo?
Potrei diventare ricco (senza saperlo, di nascosto), a volte più
stanco. Ma imparo cose, tante cose:
Mi guardo molto in profondità, ho molti timori, paure. E
anche se mi state rubando il tempo, io vi sto rosicchiando – graffiando – beccando
E a grandi zampate sto distruggendo ciò che in me non sono riusciti a
distruggere e da loro ottengo quello che di me non hanno avuto.

21.7.75

E dove sono io
Se non volando con te?

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