altIn nessun dove, amata, ci sarà mai mondo se non in noi. (…) La nostra vita scorre trasmutando. E quel ch’è fuori di noi svanisce in forme sempre più meschine. Dove c’era una volta una solida casa ecco un’escogitazione tutta di sghimbescio, una creazione della mente soltanto, come se stesse tutta ancora nel cervello. Lo spirito del tempo si crea vasti sili di forza, informi, come l’incalzante tensione ch’esso da ogni cosa desume. Templi non ne conosce più.
(Elegie duinesi, R. M. Rilke)


Luoghi senza nome, senza numero. Senza. Senza individuazione convenzionale, ombra nella cartografia urbanistica, di là del confine entro cui con-venire, agire. Peri-pheria. Tracciato lineare che, riportandosi su se stesso, racchiude il territorio. Circo-scrive comunità. Traduce memoria. Quella familiare, delle origini e dell’infanzia, rievocata dallo sguardo programmaticamente nostalgico di Cosimo Terlizzi, eclettico performer di arti visive, contraddistintosi per l’audacia sperimentale con cui salda le forme della comunicazione al vissuto personale, al fine di indagare, tra sublime e dissacrazione artistica, la pulsione auto-scopica contemporanea. Con l’art-video S. N. Via senza nome casa senza numero, presentato in  “AVVISTAMENTI - XII Mostra internazionale del video e del cinema d’autore”, Terlizzi pare quasi inserirsi nel dibattito critico baudrillardiano sul deficit costitutivo dell’immagine artistica oggi, sulla’im-potenza dell’illusione che sfida il reale, azzardando una smentita dell’affermazione:

« .. A partire dal momento in cui tutto è diventato visibile, dove tutto è all’interno del visibile, dove ogni cosa accede all’immagine (…) c’è sempre meno posto, infatti, per un altro ‘simbolico’ che tocchi le forme che giocano con la forma, per una forma di gioco relativamente arbitrario, che risponda solamente a se stesso» (Baudrillard 2006, pp. 27-28)

Territorio randagio, dunque, sterrato, non più idillio campestre, non ancora del tutto edificato, nondimeno già stretto nella morsa dell’usurpazione industriale dell’arcaicità.
Depositi di materiali edilizi, ruspe, betoniere, recinzioni provvisorie per impalcature di cemento, contendono lo spazio e il momento alla bassa vegetazione spontanea e incolta, isterilita dal sole, contrastata dalla pietra; ruderi di cinte murarie, già condannate dal gigantismo delle gru, eppure impassibili nella desolazione della persistenza, testimoni mute della corporeità espansa che vi brulica dinanzi.
Vi prendono (il) luogo un frinire di cicale, uccelli, beffe di bambini, intime espressioni dei tempi, del sé. Risate, distorsioni di voci, echi lontani, latrati e inseguimenti di cani, tramestio del vento, nuvole di polvere.

Per certi versi, a dispetto dell’estremizzazione formale, l’intento autoriale di Terlizzi pare il medesimo già sperimentato nel precedente art-video, Ritratto di famiglia, ovvero disvelare l’opposizione sotto l’apparenza della pacificazione fotogenica. In questo caso, una vera e propria battaglia acustica assale l’immagine precaria. A partire dai “colpi” di danza di mani e piedi e dal primo sferragliare del treno, l’estetica paesaggistica essenziale, volutamente dimessa, quanto significante, lotta con l’invadenza di una colonna sonora straniante, falsamente diegetica (la radio trasmette grossolana musica dance e insulsi annunci; il repertorio di suonerie del cellulare; il rombo di un aereo, ecc..) in realtà post-prodotta sulla ripresa muta, proprio al fine di (dis)turbare la visione placida, urtare, più che incontrare, la dimensione spettatoriale.
8 Episodi, girati in Super 8, che raccontano 8 diversi frammenti di vita, nell’arco apparentemente impercettibile di 8 anni, rivisitando i quali isolare l’inafferrabile non ritorno. La sovrapposizione tipica dei ricordi si traspone sullo schermo nella reiterazione conforme, coerente, della stessa location (persino nell’eccezione dell’episodio “Suonerie”, girato al mare, persiste il leit motiv della cementificazione), che armonizza l’irreale ottava - trance de vie, per poi “deturnarne” il segno grafico nella distensione della posa all’infinito, ovvero nella perdita della polarità del tempo.

La dimensione interiore, astrazione sospesa e immaginaria, prende allora il sopravvento sull’osservazione diretta del gesto spontaneo, rubato dall’obiettivo. Il sur-realismo è nel battito di palpebre dell’autore, votato alla caccia dell’interstizio onirico sotteso al quotidiano.
La ragazzina, protagonista dei primi tre capitoli e dell’ultimo, apre e chiude l’opera in modo speculare, a marcare la continuità e l’indifferenza dei giorni che trascorrono senza concludersi davvero, se non fosse per i tratti del volto, l’andatura e la fisicità che ne portano i segni. Ora come otto anni prima, dopo aver gettato i rifiuti, si apparta in un podere incustodito, per esprimere il suo esser-ci più recondito. Non balla più come la bambina impulsiva ed energica qual era nell’incipit, coprendo il viso con la sua lunga chioma, ma al contrario, non solo contempla pacata lo sbocciare sul proprio volto della grazia di una giovane donna, per di più, consapevole, delinea col trucco il fascino del proprio sguardo.
E allora è proprio lo slancio fugace di un transito provvisorio (una breve esposizione al sole, una corsa in auto, un tuffo al mare) a costituire campi di conquista del progresso e dell’età che avanzano.

Una contesa invero ad armi impari. Di già vinta. Il bambino, che tenta di distrarre, riportare al suo stato d’innocente natura i ragazzi più grandi (ri-volti al mondo dei consumi, all’esibizionismo modaiolo, al frastuono -  più che alla spensieratezza - a dispetto dello svolazzare dei semi di tarassaco, della scoperta di uno scarafaggio)  in realtà è già egli stesso fagocitato, attraverso il gioco in scala, dallo spettro incombente della speculazione, per quanto la scanzonata “presa del tir” possa suggerire resistenza; così come la campagna, che questa stessa infanzia anima, non è già più terra incontaminata, macchia secolare, ma margine ormai da tempo cicatrizzato dalla tratta ferroviaria, dal suo ammodernamento, che congiunge la provincia al capoluogo: la parentesi agreste, la retro-spettiva effimera che, sovente il viaggiatore immobile si concede dal finestrino, sino alla chiusura del sipario alla casa cantoniera. L’ingresso in città. … Identità ?.


Bibliografia

Baudrillard J. (2006): Patafisica e arte del vedere, Giunti Editore, Prato

Rilke R.M. (1978): Elegie duinesi, Einaudi, Torino


Videografia delle opere citate di Cosimo Terlizzi

S. N. Via senza nome casa senza numero (2008)

Ritratto di famiglia (2001)