Matteo Marelli

alt«E ciò che io sono – e che per principio mi sfugge –
lo sono in mezzo al mondo,
in quanto il mondo mi sfugge»
(Jean-Paul Sarte, L’essere e il nulla)






Scrive Primo Levi in I sommersi e i salvati che «L’ingresso in Lager era […] un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il “noi” perdeva i suoi confini» (2007, p. 25). È attorno a questo shock percettivo che László Nemes costruisce Il figlio di Saul. Ed è evidente fin dai primi quaranta secondi, come già analizzato da Giampiero Frasca nella sua rubrica (dis)Sequenze su «Cineforum web»: «Tutto è fuori fuoco e l’incertezza che sia un errore della cabina di proiezione sfiora per un impercettibile momento». Poi, dal fondo, qualcosa si muove in direzione del nostro sguardo: è la sagoma di un uomo, che rivela le proprie fattezze soltanto una volta arrivato pressoché addosso all'obiettivo della macchina da presa.

Quella compiuta da Nemes è una precisa scelta e(ste)tica: fuoco della composizione sarà Saul Ausländer (l’uomo venutoci incontro, colui che sarà il nostro filtro all’interno dell’inferno concentrazionario: un passeur, per dirla alla Serge Daney: «colui che indica un sentiero o un percorso, va in perlustrazione, setaccia zone poco battute, selvagge [...], colui che ti dice: sono andato là e mi sono imbattuto in questo, e […] se ne ha la possibilità, lo mostra» [Censi 2013]), un sonderkommando, membro di una «Squadra Speciale»1 di prigionieri a cui è affidata la gestione dei forni crematori; suo è lo sguardo che domina e definisce la scena. È il colpo d’occhio di Saul il perno attorno a cui ruotano le immagini e che ne determina coordinate e profili; è lui il mediatore della visione, il mondo si struttura sotto il suo sguardo.

Si fa strada così, nello spettatore, la consapevolezza che le cose non si rendono visibili da sole: c’è qualcuno che consente di afferrarle, di trasformarle in realtà percepita; un qualcuno che funziona anche inevitabilmente da filtro rispetto alla realtà mostrata. Abbiamo quindi una percezione della realtà trasformata in rappresentazione, una rappresentazione che volutamente nasconde l’orrore dello sterminio confinandolo al di fuori dalla zona di visibilità dell’immagine («I sei milioni di ebrei assassinati rappresentano per noi la presenza di un’assenza e l'assenza in quanto tale non può lasciare immagini» [Perniola 2007, p. 26]), proiettandolo dunque “oltre l’inquadratura”, “fuori-campo”, perché irrappresentabile: l’osceno che esce fuori dai confini della messa in scena ma che non smette per questo di operare. Del resto come sostiene Claude Lanzmann:

Malgrado i milioni di morti sui due campi, malgrado l'orrore di Hiroshima o di Dresda, si sa che i sei milioni di ebrei assassinati non sono vittime come le altre: questo crimine esorbitante è di un’altra natura, di un’altra qualità, è un crimine senza nome che gli stessi assassini nazisti non osavano nominare, come se commettendolo l’avessero reso impossibile: alla lettera un crimine innominabile. (Claude Lanzmann in Perniola 2007, p. 25)

altNemes realizza un’opera scentrata, tutta giocata sul fuori fuoco e il fuori-campo, quindi sulle possibilità estreme di decentramento; esaspera la base del paradosso cinematografico, e cioè che per mostrare è necessario nascondere, principio che Bazin condensò nella formula «le cadre est un cache», ovvero che l’inquadratura è una benda, un nascondiglio. Essa stabilisce il visibile e allo stesso tempo l’invisibile. La relazione tra il mostrare e il nascondere presuppone a sua volta anche una precisa presa di posizione, cosa che il regista, come abbiamo visto, dichiara da subito affiancando il suo sguardo al protagonista: c'è un'attività scopica riconoscibile in sé, al di là della sua eventuale fonte.

Questo cambiare ottica, attraverso il gesto registico inconsulto, rapido ed imprevisto, compiuto da Nemes, è ciò che dà modo allo spettatore di oltrepassare la percezione consueta del reale. Un oltrepassamento necessario nel momento in cui si ha a che fare con la memoria che, come sostiene Giorgio Agamben, «non può restituirci il passato semplicemente così come è stato, come un fatto inerte (questo sarebbe propriamente infernale). La memoria restituisce al passato la sua possibilità. […] La memoria è per così dire l’organo di moralizzazione del reale» (Agamben 2001, pp. 104-105).

Un'operazione di messa in scena che, oltre ad avere una sua connotazione etica, si carica di forza politica. Ritorna infatti a mente la riflessione di Serge Daney sulle immagini assolutamente trasparenti – prive cioè di ogni fuori-campo, di linee di fuga e di vuoti in cui l’occhio dello spettatore possa installarsi – e a quel «visivo senza limiti – di cui parla il critico francese – che ci proietta in un reale senza altrove», insomma in un eterno presente. Un pensiero poi ripreso e sviluppato da Marco Dinoi, che diceva, nelle pagine di Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, se tutto è visibile, nulla forse è veramente visto. Daney e Dinoi hanno entrambi ragionato sul fatto che i media, oggi, non mediano, ma riversano subito e senza scarti, producendo un effetto normalizzante e anestetizzante su ogni evento proposto. Lo sguardo del soggetto è reso così incapace di ogni distanza e quindi di relazione con la complessità del reale.

L’opera di Nemes, volutamente scentrata, tesa a recuperare la lateralità e la profondità della visione, fa saltare questa frontalità monolitica in cui tutto tende ad esaurirsi. Il regista sa di confrontarsi con il racconto di una realtà massicciamente mediatizzata, è consapevole del rischio d’inciampare nelle sclerosi del senso comune, così come nelle strategie retoriche adottate per veicolare il discorso. La sua capacità è quella di smarcarsi da tutti quei cliché che hanno appannato la vista sull’evento riuscendo ad articolare una serie di distanze tra i corpi e gli oggetti, tra il soggetto filmato e la macchina che filma. Ed è solo grazie al calcolo di tali distanze che può liberare l’occhio dello spettatore, fargli smettere di essere complice di quel voyeurismo osceno che sta lì a guardare senza muovere un dito.

L'opera prima di László Nemes (girata in pellicola, perché, come dichiarato dallo stesso regista, questo era il solo mezzo, proprio per la sua connaturata fragilità, per preservare un’instabilità nella visione) mette in chiaro che l’immagine, per essere tale, ha bisogno di qualcuno che la guardi (lo spettatore, dunque, dev’essere consapevole del ruolo assegnatogli dalla rappresentazione, un ruolo privilegiato e insieme obbligatorio): qui il “reale” non è mai qualcosa di oggettivo, definitivo, ma viene restituito problematicamente come qualcosa che si declina a misura della responsabilità. Con lo sguardo di Saul lo sterminio è all'altezza dei nostri stessi occhi, troppo spesso reticenti a vedere il fondo di quell'abisso.

Questo intervento è già stato pubblicato su «Cineforum», 552.


Note

1 «Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all'aspetto pragmatico (fare economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti» (Levi 2007, p. 39).


Bibliografia

Agamben G. (2001): Il cinema di Guy Debord, in Ghezzi –Turigliatto, 2001.

Dinoi M. (2008): Lo sguardo e l'evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze.

Ghezzi E. – Turigliatto R. (a cura di) (2001): Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro, Milano.

Levi P. (2007): I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino.

Perniola I. (2007): L’immagine spezzata: Il cinema di Claude Lanzmann, Kaplan, Torino.


Sitografia

Censi R. (2013), Creare, classificare, esplorare, «Cineforum web».

Frasca G. (2016), Tutto nei primi quaranta secondi, «Cineforum web».


Filmografia

Il figlio di Saul (Saul fia) (László Nemes 2015)