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Il pomeriggio in cui intervistammo Michel Houellebecq a Venezia in occasione della presentazione di Near Death Experience.
Lui completamente assente guardava il bordo del tavolo davanti a sé. Le domande sembravano scivolare verso i due registi seduti al suo fianco. Le dita gialle di fumo e i capelli consumati come il cappotto grigio/nero che indossava nonostante il caldo. Sorrideva di tanto in tanto, durante le brevi risposte, spesso monosillabiche, alle domande rivolte. Il tono di voce era bassissimo. La traduttrice dovette spostarsi per avvicinarsi un po', senza farsi vedere. Il timore che i registratori non riuscissero a catturare quei sibili.


Le sigarette si alternarono come gli sguardi che improvvisamente posava sui presenti: fissi, diretti, come se avesse qualcosa da comunicare improvvisamente prima di ripiombare in una assenza totale.
Con questa immagine ha parlato di morte, di vita, di scrittura, della sua interpretazione nel film, praticamente di tutto. Ne ha parlato con pochissime parole in francese e in inglese.
Lui è uno degli scrittori contemporanei più importanti (a nostro avviso). Sembrava non fosse presente a sé. Ma crediamo sia proprio quella la causa di tutto quel talento.

Inciso

«La vie doit être enivrante… La vie doit être enivrante… La vie doit être enivrante…». Paul, deciso a farla finita, se lo ripete come un mantra. Del resto lo sa che sta parlando troppo e non si suicida abbastanza. Ha 56 anni. L’età di suo nonno quando lui ne aveva 7. A differenza sua, però, sente di non poter godere del diritto della vecchiaia. Il mondo pretende che sia ancora attraente, virile, e quindi che mangi sano, faccia sport. Ma lui riesce soltanto a sentirsi obsoleto.
Paul non sopporta più di affacciarsi tutti i giorni sull’orrore assoluto del quotidiano, che con le sue situazioni inautentiche, ripetitive, lo costringe in un limbo dove nessun evento sembra aver luogo. Ormai il suo sentimento di rifiuto è contro il mondo, contro la vita.

L’esordio letterario di Michel Houllebecq non è un inopportuno termine di riferimento: ad interpretare il protagonista di Near Death Experience, infatti, è proprio l’autore del saggio lovercraftiano, che, riguardo al film, preferisce però «rintracciare continuità con un’altra opera, e cioè Estensione del dominio della lotta».
Gli autori Gustave de Kervern e Benoît Delépine, come raccontatoci da quest’ultimo, già scelsero «Houllebecq per la parte di Serge Pilardosse in Mammuth, che avrebbe dovuto interpretare al posto di Gérard Depardieu se non fosse scomparso dal set a riprese iniziate. Pur di averlo, una volta ritrovato, con un nuovo script tra le mani ispirato ad un fatto realmente accaduto (quello di un uomo andato a vivere in montagna da solo per 5 mesi prima di tornare a casa dalla sua famiglia)», i due registi hanno «girato N.D.E. in appena 9 giorni, certi che solo quel corpo incubatico avrebbe potuto sostenere la salita al calvario di Paul» in fuga dal lato oscuro del quotidiano. 

altQuello a cui Paul si sta sottoponendo è un vero e proprio esercizio di crudeltà, da leggersi, artaudianamente, in termini di rigore, applicazione e decisione implacabile, irreversibile, assoluta. Bisogna, come ci ricorda, nel momento in cui si decide di suicidarsi, saper resistere ai fallimenti dovuti alla cattiva sorte. Non azzardarsi a leggerli, codardamente, come un segno divino. Scrive Artaud, nelle pagine de Il teatro e il suo doppio, che nell’esercizio della crudeltà c’è «una sorta di determinismo superiore cui persino il carnefice-seviziatore […] deve essere determinato a sopportare. La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata» (Artaud 2000, p.217) .
La stessa che ritroviamo nelle scelte registiche di Delépine e Kervern, sublimemente dense e contemporaneamente disadorne, a cui va ricondotta una messa in quadro sgraziata, colma di ruvidezze formali: l’immagine è così a bassa risoluzione da rendere la visione sottilmente ma implacabilmente fuori fuoco. Un’immagine estrema, nel senso implicito del termine, caratterizzata da una tensione inquieta, che percorre la grana visiva del film indipendentemente da quanto poi mostrato.

Interrogati su questa scelta di bassa qualità, hanno espresso «contrarietà rispetto all'alta definizione delle immagini digitali», a detta loro povere d’onirismo. «Amanti del bianco e nero», come testimoniano i loro primi lavori, hanno cercato, in N.D.E., di «riprodurre quell’effetto lavorando con il colore. Un risultato ottenuto adoperando una vecchia videocamera Panasonic della moglie di Delépine. Quest’idiosincrasia verso l’alta risoluzione ha a che fare con il calcio visto in televisione. Quella nitidezza più reale del vero, congegnata per la fruizione televisiva dello spettacolo calcistico, ha alimentato un’ansia da prestazione referenziale responsabile della progressiva sparizione delle immagini sporche o di bassa qualità». Da qui la decisione di operare in direzione contraria rispetto all’occhio tecnico sociale che «ingenera una perfezione immediata e sufficiente, istantaneamente controllabile e controllata... perfezione tecnica che coincide con l'assoluta nullità estetica» (Deleuze 2000, p.104).

Coda

Quella elaborata da Delépine e Kervern è una messinscena nuda e cruda, capace soprattutto di catturare il grado di coinvolgimento di Houellebecq, il quale, più che interpretare, vive le situazioni sul set. N.D.E. restituisce tutta la partecipazione fisica, corporea, dello scrittore, che riguardo la propria perfomance ci ha detto: «Al contrario dell’attività del regista, troppo nascosta, facendo l’attore mi sento a mio agio… Interpretare i ruoli e scrivere storie è un supplemento della vita, come se vivere solamente non fosse abbastanza.»
In quest’ultimo lavoro i due registi francesi riescono, nei limiti del possibile, a trasmettere la forza di Houellebecq, a conservare la flagranza del suo corpo, lo sconvolgimento del suo apparire. Operazione che compiono conferendo un malessere intrinseco all’immagine filmica, capace di mettere in crisi, in senso quasi fisico, la nostra sicurezza, tanto da non riuscire più a credere che, ciò a cui stiamo di fronte, sia solo un’immagine (cfr. Cappabianca 2005, p.8).


Bibliografia:

Artaud A. (2000): Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino

Cappabianca A. (2005): L’immagine estrema. Cinema e pratiche della crudeltà, Costlan Editori, Milano

Deleuze G. (2000): Pourparler, Quodlibet, Macerata


Filmografia:

Mammuth (Benoît Delépine, Gustave de Kervern 2010)

Near Death Experience (Benoît Delépine, Gustave de Kervern 2014)