altAccecati da un mondo fastoso che dista solo pochi chilometri, un gruppo di ragazzi svaligia le abitazioni di alcuni tra i personaggi più famosi della frivola Hollywood.





Sofia Coppola prosegue, con coerenza, la sua indagine sull’adolescenza, su quell’universo trasognato e costellato di problemi, drammi, disagi e desideri di sagome non ancora ben delineate,  figure intrinsecamente votate al cambiamento, alla crescita, alla maturazione. E lo fa avendo scomodato la Storia (intesa come eredità e memoria), ripercorsa attraverso gli occhi di Maria Antonietta, prematura regina circondata da una corte che, dedita al lusso e allo sfarzo, induce ad una perdita della misura, della quantità, della dimensione (auto)critica; o quelli ammiccanti delle vergini suicide, corpi eterei soffocati dalla presenza materna in un ridente (e finto) Michigan degli anni Settanta. Personaggi (e intendendo le vergini come unico corpus, organismo semovente) schiacciati dalla solitudine, dall’isolamento, perduti nella (mancata) traduzione, nell’incomunicabilità, la stessa che pervade la Charlotte di Lost in Translation, oggetto fuori posto, figura diafana e sfuggente tra le mille luci di una Tokyo che disorienta, spaventa per grandezza e frastuono; clamore che si attenua in Somewhere, lì dove nemmeno una coppia di avvenenti gemelle intente a una lasciva lap dance risveglia un sopito divo di Hollywood: ma questa sua inedia, astensione dalle luci del successo, questo suo rifuggire la celebrità, ritrovando un senso solo nella figura della figlia adolescente Chloe, rende, il film tutto, perfetto contraltare di Bling Ring, ove viceversa le (nuove) star pongono la visibilità a epicentro delle loro carriere e l’iridescenza di Hollywood è meta prediletta di tante (disattese) ambizioni.

È uno sguardo cronachistico quello di Sofia Coppola (già nelle Vergini suicide la narrazione era affidata alla voce fuori campo di un ragazzo che aveva conosciuto le sorelle Lisbon e che dispiegava le vicende accadute a un non meglio precisato intervistatore), uno sguardo che si aggira sornione tra figure impuberi, un occhio al quale non importa sciorinare una storia che attende un finale (che il più delle volte è svelato di già in partenza), ma piuttosto trasporre un sentimento (per sua indole inafferrabile, inspiegabile, solo intuibile come quello tra Charlotte e Bob: non amicizia, non amore, ma una intricata e tenera ibridazione affettiva), o constatare un effettivo degrado, uno “svuotamento” generazionale che pare irreversibile: che è poi quello dei cinque protagonisti del Bling Ring, branco rappresentativo di un presente “di superficie” (con declino di profonde motivazioni), portavoce di passioni riposte in seno ad un sistema dell’autoscatto (con annessa condivisione su social network), quel “selfie” emblema lampante di un esibizionismo appreso da quel mondo che tanto bramano: e dunque la villa di Paris Hilton è un tempio dedicato a se stessa (dipinti che la raffigurano, cuscini che portano il suo volto, feticci auto-celebrativi di ogni genere) in cui l’egolatria raggiunge un valore assoluto nella constatazione dell’amore mistico che la milionaria nutre per la sua stessa immagine, per il suo stesso (televisivo) personaggio che è tale solo in relazione a ciò che possiede, alle “sue cose”, le stesse tanto desiderate da Rebecca e Marc (i leader del Bling Ring) che indossandole, possedendole, varcando quelle lussuose porte, tra abiti griffati e splendenti preziosi, si sentono meno distanti dai loro idoli.

Inoltre le abitazioni (così come le auto di lusso derubate da Rebecca e Marc) vengono lasciate aperte e incustodite dai loro proprietari, per i quali l’immobile appare solo come l’ennesimo bene di lusso da sfoggiare con orgoglio, con noncuranza nei confronti di un possibile furto, poiché esistono solo in funzione di ciò che hanno: e in un dilatato piano sequenza la casa di Audrina Patridge viene presentata quasi come una vetrina di Prada o Vuitton (citati con un certo senso feticistico), una struttura su più piani composta da immense vetrate ben illuminate, con interni, mobilio e accessori di vario genere in bella mostra, il tutto dunque a portata d’occhio (e di ruberie) di chi passa e guarda, di chi da posizione preferenziale può gustarsi l’esibizione sfarzosa, la vetrina, appunto, specchio riflettente un presente di superficie che si posa su quei cristalli restituendo un’immagine, che è falsa apparenza di un’essenza che rimane solo epidermica, mera parvenza.

È un tempo sospeso quello in cui sopravvivono (cioè sopra-vivono) Rebecca, Marc, Nicki, Sam e Amanda (in quanto esistono al di sopra di ogni limite: il furto non è indotto dall’impossibilità di avere delle cose, poiché quando tutto è alla propria portata l’appagamento, il brivido nasce nella trasgressione che è poi emulazione. Non è un caso che Lindsey Lohan venga arrestata per aver rubato in una gioielleria: l’attrice è il paziente zero, l’archetipo), un tempo in cui l’istruzione non proviene più dall’istituzione scolastica, bensì da un nucleo familiare che insegna come divenire icone (l’esempio sembra essere Angelina Jolie), un nucleo permissivo e fintamente presente (opposto a quello presentato nelle Vergini suicide, laddove la condizione imprigionante di ragazza – a quell’epoca – rendeva attiva la mente, l’immaginazione, unica via d’evasione), un nucleo grazie al quale tutto è  facilmente raggiungibile, dove l’accumulo di cose diviene filosofia di vita: e dunque Bling Ring si inserisce in un filone legato ad una “metafisica dell’eccesso”, lo stesso percorso da un film come Spring Breakers nel quale l’esubero di seni e culi che ballonzolano, di armi e berretti e denti d’oro è funzionale ad un tentativo di (ri)semantizzare (demistificare) corpi attoriali che del sistema Hollywoodiano, sono esempio lampante; un filone che dall’altura festosa delle colline di Hollywood ricade nel baratro mortifero del Canyons, dove vacui involucri desideranti nullificano (con i loro eccessi) l’unione corporea, il sesso, rendendolo mera chenosi; il tutto su di una “salma”, quella della Lohan (tra le vittime del Bling Ring) che si muove opulenta, corporea riprova della reificazione, della riconduzione in superficie del soggetto.


Filmografia

Bling Ring (The Bling Ring) (Sofia Coppola 2013)

Marie Antoniette (Sofia Coppola 2006)

Il giardino delle vergini suicide (The virgin suicides) (Sofia Coppola 1999)

Lost in Translation - L'amore tradotto (Lost in Traslation) (Sofia Coppola 2003)

Somewhere (Sofia Coppola 2010)

Spring Breakers - Una vacanza da sballo (Spring Breakers) (Harmony Korine 2012)

The Canyons (Paul Schrader 2013)