Se la Terra del Fuoco è il margine più estremo del mondo (terso, gelido, quasi evanescente all'orizzonte, come un miraggio fatto, sfatto d'aria glaciale, congelante, anziché da quella incandescente del deserto: da lì, dal Congreso International Fronteras, dalla città più a sud del mondo, Ushuaia, Giovanni Festa con il suo manipolo di detective selvaggi, scrittori sudamericani, pionieri della parola e dell'immagine, ha trasmesso la manciata di fotografie e testi nati dal limite ultimo, come una faglia, una ferita aperta nel suolo da cui esalino gli umori, i fondigli immaginali), magari la provincia italiana, nel pieno dell'occidente, ne è un qualche inizio (benché corrotto dal progresso, dalla selvaggia economizzazione delle esistenze), almeno dal mio punto di vista, il territorio che ho intorno; o altrimenti l'intermezzo, l'estremo intermezzo in cui, in mezzo alla turpe spoliazione del simbolico intrinseco alle cose da parte della “cultura” contemporanea, sopravvivono retaggi di un altro tempo, di epoche rurali, forse anche ancestrali, appunto la materia del simbolo.

Allora ecco una mostra fotografica, Circle, tra le tante che si possono trovare in Italia di questi tempi – magari di fotografi celebrati, cerebrali, veri e propri sacerdoti dell'immagine, mancanti però costituzionalmente di un senso comunitario (il fotografo perso nel suo solipsismo: il cinema li ha inquadrati una volta per tutte, da Antonioni a Eastwood) –, che colpisce proprio per la collettivizzazione dello sguardo: due tutor che indicano dove guardare, e i tredici allievi fotografi che guardano da quella parte trovando ognuno una cosa diversa, un modo diverso per esprimersi.

Si tratta della PAF, Piccola Accademia di Fotografia condotta da Nicola Petrara e Luigi Porzia, ad Altamura, cittadina della provincia barese, tutta in sollucchero della propria prosopopea economica: se il viandante affaticato passasse di lì vi scorgerebbe, ad esempio, tutta un'ostensione di automobili altisonanti, ipersoniche, Ferrari, Porche, Lancia Delta sedici valvole per lo più, che scorazzano finanche nei budelli più impervi del centro storico o, più libere di sfrenare i motori tuonanti, le casse armoniche delle marmitte, nell'ubiqua protuberanza cementizia che ha lentamente eroso spazio alla Murgia, alle garighe, alle spore, muffe e funghi arborescenti sulla pietra, tra le pietre, tra cui sta la locusta e razzola il ragno, la lucertola: ecco, vi piomba, sospeso, il falco. D'altra parte, da sopra, il manto cinereo t'opprime vastamente tra l'odore acuto della ferula e la mole monodica, costante del vento: è l'autunno, secondo movimento, molto largo, gli occhi fangosi, scrutanti del bambino ricciuto tra le pietre, sotto gli strami, i muschi, alla ricerca dei funghi, tiene per mano lo spettro di suo nonno, morto nel 1977.

Già il nome suscita una certa fiducia, per quell'aggettivo «piccola», che conferisce all'operazione un che di domestico, di crepuscolare, di gozzaniano: siamo in provincia – da un abituro, tra le chiassate dei bambini, curiosa, dalla sua costellazione di nei sotto il mento, incuriosita dalla gente formicolante sull'uscio dell'ex monastero di Santa Croce dov'è allestita la mostra, sbuca la signorina Felicita, corpulenta, con la parannanza lisa, bisunta di sughi, di olii, di sangui d'agli, e gli occhi azzurri, di un azzurro di stoviglia –; siamo alla fine di un corso di fotografia, senza alcuna pretesa artistoide, non a una vernice milanese in cui il ragazzo in mocassino e barba scolpita di balsami si rivolga alla sua accompagnatrice afrodisiaca dicendole che lo champagne sa di tappo.

Torna in questa mostra l'idea, la funzionalità della parola scritta, del testo coadiuvato all'immagine: non solo la solidità, la solida visione delle cose, ma il rapporto intimo che in un'esposizione (in un'installazione: l'allestimento è di Pasquale Gentile) si instaura, si può instaurare, tra immagine e quella che in linguistica viene chiamata “immagine acustica”, la parola. Sono brevissime narrazioni, a margine di ogni gruppo di foto, che aggiungono molto all'obiettività (in verità tutta ipotetica), alla superficie porosa delle stampe – alle forme che vi sono contenute e che sembrano arrivare da un aldilà di sagome, di sprazzi luminosi, di forze invisibili che aspettano di cagliarsi in forme, come ogni volta – come nel caso di Antonio Moramarco che racconta la fine di un amore guardando con rimpianto eccitato la sua donna, quella che era stata la sua donna e ora vive nella carne tremula dell'icona, nella carne ferma, morta, sempre morente (ogni volta l'occhio vi si posa), di un momento in cui “sono sfiorite le rose”, in una lingua di sole che bagna le gambe levigate, il volto corrucciato di un'assenza.

Oppure nel caso di Rosa Ventrella che inquadra (narra) se stessa proiettandosi nel blu intenso di un vuoto, di un abisso di crinoline, di organza: un silenzio entro cui affonda la ballerina, la bambola antropomorfa – d'alabrastro o porcellana scheggiata – e rimbomba a un tratto un rantolo, un ansito, l'inizio della danza disperata al suono di un carillon che congiurando con il silenzio trascolora in eco. E trascolora nel turchese livido di Annalisa Mascolo, nel microcosmo familiare, amoroso in cui si rifugia il soggetto: c'è un limpido denudamento dell'io in molte delle foto di Circle, come se la fotografia fosse la cura contro la disumanizzazione, l'alienazione, l'indifferenza, il tentativo di aggregare gli esseri sulla base del riconoscimento della ferita altrui. Qui la Polaroid di Mascolo dà conto del passare del tempo, scolpisce il tempo in squarci d'interno soffocanti, quasi cianotici (l'azzurro del cielo, l'esterno, la fuga, soffocati) eppure virati da qualcosa di gioioso, di commosso. In questo livore, in questa atmosfera come ricordata, la dimensione corporale, carnea trama con quella spettrale, si fa limine, limbo (dentro l'illusione perpetuante della macula, dell'iride) che è, per propria costituzione, la foto.

Com'è anche la serie di scorci urbani di Vito Quattromini, fotografati con un vecchio telefono Nokia e scrutabili (quasi auscultabili nella patina squillante delle costruzioni ingoiate dalla notte, dei cancelli rugginosi chiusi sulla notte) attraverso dei fori in una sorta di camera chiara, in cui la sostanza delle cose sembra sempre sul punto di esalare in qualcosa di fantasmatico, che appunto è l'essenza – il fantasma: la presenza di un corpo rimasta solo come traccia, come sindone – della fotografia, referto di un'assenza piena, materiale, satura di colori e di luci. Quindi fantasmi, spettri: il trittico Due minuti di follia di Antonio Livrieri, nel tentativo di scandire la crisi del soggetto, si delinea come l'esatta esemplificazione della teoria fotografica, in cui ogni cosa è spettro (anche nel senso di raggiera cromatica o luminosa) di qualcosa; immagine (e radiazione) di ciò che non c'è più e ha lasciato traccia di sé sulla sindone della lastra: grumi d'essere che si stampano sulla chiarità di un lenzuolo, sindone appunto; l'io nereggiante come un baratro, un'apocalisse di coscienza, quel che resta della coscienza dopo l'assedio dell'angoscia. Resta allora il fantasma di sé, anzi emerge da sotto la coltre di pelle e muscoli e mucose, quel lemure che ci portiamo appresso, sta in agguato come un'erpes, un morbo latente, come una macchia intestina impressa ora su una superficie sensibile all'ombra. Perciò, fotografia come meccanismo per catturare in barlumi di luce l'ombra, per portare allo scoperto il lemure, il demone: fotografia come esorcismo del buio che però una volta fuori si espone allo sguardo (lo esige), all'osservazione, l'assimilazione come parte fondante dello scenario.

D'altra parte, al di là (o al di qua) della macchia, dell'informe, c'è il senso (paradossalmente trascendente) del geometrico legato alla città (uno dei tre temi del corso; gli altri due sono “me stesso” e “la famiglia): la foto-visibilio di Pasquale Gentile allestita in un cilindro ferrigno, sospeso ad altezza d'uomo, entro cui bisogna entrare per accorgersi che i palazzi, le finestre, le cimase sono tutt'intorno, in un'interminabile panoramica, un movimento lento, in piano-sequenza, che sfuma in astrazione, in moto algebrico; un rutilare – mentre è lo sguardo, l'obiettivo a muoversi, a girare – che è come un sogno futurista, anzi come un “universelle sprache”, lo spirito delle cose, lo spirito nelle cose, che dia il tempo al “falso movimento” della sequenza. Qui c'è il picco d'avanguardia (storica) di tutta la mostra, l'astrazione cercata in ogni fotogramma da quegli sperimentatori straordinari che furono Eggeling, Richter, Ruttmann: come un andamento, un disteso procedere in quattro quarti, un motorik che scandisca il ritmo della città e dello spazio.

Ma se in Gentile risuona il kraut, l'arborescenza algebrica, quasi cabalistica dei segni, nei molti ruderi di cui è costellata la mostra, si respirano le esalazioni del tubero, della ramificazione caotica dell'elemento, un ritmo che aspira all'assenza di ritmo in favore della chiazza, la frana, il masso, la lamiera arrugginita. Vito A. Galtieri fotografa scheletri di costruzioni, ventri tufosi, calchi di antichi casamenti per denunciare gli scempi della speculazione edilizia (archetipo resta la riflessione di Pasolini a proposito di Orte), una forma interessante di “fotografia politica”, il rimpianto per quelle volte ad arco, le murature spesse, le nicchie scavate nei muri, paradigma di una civiltà scomparsa.

Mentre Gianluca Frizzale declina il rudere in senso lirico: qui il tempo non è più quello storico – la civiltà contadina, la questione meridionale, ecc. – o se lo è stato ora trascende in qualcosa di assoluto e poetico, una forza che scava le cose, le consuma, che ammanta di morte le muraglie, i declivi sfatti d'ammattonati, abbandonati se non dalla malerba fiorente nelle commessure, il cielo plumbeo in cui nereggia il corvo.

Le variazioni sul tema della rovina (che mi porta subito alla mente Benjamin) si chiudono con Nicola Perrucci, con le sue saracinesche ammaccate, arrugginite, che vegetano in contrappunto coi graffiti sui muri: una modernità antiquaria, rugginosa, sincretistica (con ancora i segni di un passato polveroso, rurale, pseudorurale), che evoca certi scorci crepuscolari di Kaurismaki, il rimpianto per la semplicità, la povera spontaneità di un tempo neppure troppo distante (forse gli anni Ottanta), la nostalgia per quei muri da sempre ingialliti e mucidi, contro cui si orinava quand'eravamo bambini (lerci, mocciosi, candidamente feroci), prima di tornare a giocare, a scaraventare il pallone contro le lamiere, la ferraglia che fracassava, quasi crollava, sicché eccola, sbuca la canizie della testa attraverso la tenda di calicò, Felicita furente a berciare in mezzo alla via, che non è ora, che c'è gente che dorme, ecchecazzoproprio, mentre Billo il suo chihuahua occhiuto, attonito, arrivato da chissà quale anfratto del più profondo sottano, forse da un iperuranio fatto di rosari, stoviglie e varie chincaglie, digrigna e sbraita in un farsetto sguaiato, in mi bemolle mentre va la grancassa dei piccioni sui balconi e del loro guano spicciato sul selciato; e ha brandito il coltellaccio, Felicita scrignuta e ghignante, ha brancato il Supersantos con le grinfie rancide, e lo squarcia, lo scassa, ne scaraventa a terra la carcassa; sembra sia nata ed esista solo per questo, per fare scempio di gomma, per quanta foga e perizia ci mette, implacabile signorina Felicita, per poi riporsi come un automa nel suo basso, in una guaina a misura di megera, che deve esserci per forza lì da qualche parte nella stamberga, sotto le volte di tufo, di calcina in cui si pascono tafani e sarcopti: come un sarcofago vampiresco poggiato al muro in cui ritorna ogni volta dopo la caccia: e se ne sta immobile lì in ascolto, con gli occhi spalancati, attenta a ogni stormo, ogni fruscio, ogni brusio, ad aspettare l'ennesimo, sublime fracasso di palla.

Gli scorci di Perrucci – cancellate di rimesse in balia di ogni tipo di morchia, di sugna; serrande, insegne di sonnolenti amenti alimentari – sono l'addentellato perfetto tra la macchia, la chiazza (d'orina), la frana del segno e la solidità che può assumere nel senso dell'algebra, come in Gentile. Geometria in contrappunto con il magma del mondo: vi rientrano le foto di Michele Caramella, soprattutto quella intitolata Punto fiduciale, relazione tra un rettangolo (la cornice “vuota”) e un'antica costruzione che si sforma, erosa, scalcinata, sullo sfondo insieme alla pietraia della Murgia, là dove giocavano i bambini, in una pausa dal volo, giocano a fare gli astronauti, padroni di un mondo in-esistente, in-ospitale.

Di lì, da un che di fanciullesco, di innocente; dall'innocente, desolata coscienza della consunzione e dello sfarsi delle cose, viene l'autoritratto in tre tempi di Vito Castellano. Soprattutto il terzo tempo, come un essere, un feto attempato che scruti attraverso il vetro di una placenta e si lasci intravedere attraverso quel filtro, perché l'io e le cose esistono solo se filtrati, se inquadrati, solo se sottoposti al processo di simbolizzazione attuato dal linguaggio. È l'opera che crea le cose: fuori dall'opera le cose sono materia vile e gli esseri non sono che carne in decadimento, materia ottusa, puro ossame.

In questo senso di codifica, di coreografia dei corpi appaiono le fotografie di Mariangela Perrucci, i corpi e i “contraccorpi” di uno scenario ordito in virtù del montaggio interno dello spazio: c'è un'evidente, esasperata drammatizzazione dei corpi, un'esuberanza tutta femminea, una teatralità che viene dall'istinto che un corpo ha a sciorinarsi nella sua povera, nuda vistosità (che è la vistosità delle passioni, delle pulsioni), dentro cave, su un terreno brullo, dentro ruderi, come negli sfondi di Emma Dante, del suo ultimo Misericordia, un panorama “scadente”, altre volte scarno, scheletrico che dice, mostra, mima la propria solidarietà verso la solitudine del corpo allestito, teatrato.

Come nell'autoritratto seminudo, epidermico (la carne, la flagranza della carne, il feticcio di carta in quanto sublimazione della carne) di Laura Squicciarini: lei in un bosco sormontato da una corolla verde, seduta in uno slargo terragno, marrone, con i raggi di luce che cercano di penetrare attraverso la ramura, di farle togliere quelle braccia dai seni, quei rami che la riparano, perché la flagranza del corpo si dia allo sguardo, e la retina o qualcosa della retina ne penetri la carne. Del resto, un nudo, o qualcosa di simile a un nudo; il barlume di un sesso, un lembo di pelle odorosa; una sporgenza della carne sottratta all'oblio dell'oscurità, non può che essere la possibilità di un coito dello sguardo, perché alla fine qual è l'unica ragione del guardare se non l'effusione dell'occhio con l'esserci nudo, dischiuso del cosmo; l'ossessione, lo spasmo dell'occhio che una volta dentro le cose secerne stille come fossero stelle? È una fusione panica dello sguardo con le cose, anche rude, all'insegna dell'attrito, da cui sgorghi l'estatica inquietudine di essere, anzi di sessere.

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