a vida invisivel2«Questo cinema non sta dalla parte dello spettatore.
Lo invita al lavoro più che al piacere, o, per essere più precisi, al piacere del lavoro»
(Alberto Seixas Santos)





«Ci si avventura come in una terra incognita, che tuttavia ci pare di conoscere, di avere già esplorato. Poi ci si perde nel non facile cammino di ricognizione, si smarriscono le carte, ci si muove senza bussola; ma anche si intravede il giusto sentiero, si torna sulla retta via, e si scoprono tesori nascosti, frutti saporosi, piante bellissime, paesaggi incantevoli» (Rondolino 1999, p. x). È con questo spirito errante che ci avviciniamo ad un oggetto lontano, misterioso, apolide come il cinema portoghese e ai suoi percorsi “metafisici” attraverso la macchina del tempo. In particolare, la nostra attenzione si posa su storie e forme filmiche eterogenee che nell’ultimo anno sono venute alla luce come un’isola felice, solitaria e rigogliosa nel circuito dei festival internazionali.
Territori più o meno conosciuti dietro i quali si ritrovano artisti di quella che Augusto Seabra ha definito «terza generazione» del cinema lusitano, e quindi Vítor Gonçalves e Joaquim Pinto. Ma anche giovani autori dell’ultima “onda” come Carlos Conceição e Salomé Lamas. Una mappatura che esplora senza soluzione di continuità “cinema del reale” e visione, carnalità ed invisibile, verità e metafora, mondo e rappresentazione. E in cui la durata svincola dall’etichetta del genere (film di finzione, documentario o cortometraggio che sia) per lasciare spazio, a volte, ad una temporalità sfasata, allucinatoria e frammentaria.

A Hugo Macedo (A vida invisível) piace rimanere solo nel palazzo semi-abbandonato del Ministero affacciato su Praça do Comércio, di notte, tra corridoi vuoti e rumori lontani. E, in attesa di completare un verbale, perde il senso del tempo. La cronologia si polverizza in nome di un viaggio mentale, interiore, senza coordinate. Dove gli avvenimenti non si mescolano, né procedono in modo lineare, ma si sovrappongono nel montaggio come in una sorta di partitura di immagini e suoni, seguendo la lezione del “cinepoeta” António Reis (maestro di Gonçalves alla Escola de Cinema di Lisbona alla metà degli anni Settanta), in particolare di un’opera come Ana (1982).
A monte c’è una visione dialettica del processo di un film, inteso come qualcosa in costante movimento, un organismo vitale che respira sempre. Tra «parti di vita dimenticate» che riemergono dal subconscio sotto forma di immagini mute in super8 di una natura selvaggia e paradisiaca, quasi herzoghiana (una sorta di “fine del mondo” – per parafrasare il Viagem ao principio do mundo di De Oliveira – di fine separata dal mondo attraverso mari, pelaghi di monti e scogliere), eclissi oniriche e il vortice della memoria che avvolge e risucchia tutto come una scala a chiocciola: Vertigo.
Testo denso di stratificazioni che sfugge a qualsiasi pigra classificazione, restituisce il piacere arcaico di domandarsi «Dove sono io?», e ci ricorda che «il cinema è nello stesso tempo un’arte del particolare e dell’universale e che le immagini fluttuano tanto più quando hanno gettato la loro àncora da qualche parte» (Daney 1999, p. 137). «Immagine virginale […] che viene in luce in modo aurorale», come estasi, epifania, segno di un «primitivismo filmico» (Roberti 1999, p. 71), che tende alla purità e alla sensualità dello sguardo.
Il tormento per una confessione mai ricevuta da un amico malato, il ricordo di un amore che non ritornerà più e il sentimento di smarrimento e precarietà di una vita alla quale si guarda con malinconia e inesorabile fatalità. E dalla quale ci si vuole soltanto nascondere, in una lenta e ossessiva contemplazione della morte. Come le nubi gravide di pioggia di Lisbona, “ingabbiate” dietro i fili del tram (l’attenzione maniacale alla composizione dell’inquadratura è figlia del cinema di Reis e Bresson). Una casa di stanze buie (e di fantasmi) che risuonano di esistenze vissute. Che il fermo immagine finale sembra darci l’illusione di poter sottrarre, almeno per un momento al ferale passaggio del tempo. Del resto, il fatto che Uma Rapariga no Verão (1982-86) sia rimasta finora l’opera unica di Gonçalves «allude al tempo immaginario in cui scorre la storia del cinema portoghese» (Turigliatto 1999, p. xiii).

Il Vangelo di Giovanni parla dell’Uomo ma, in realtà, nel documentario di Joaquim Pinto costui non si vede mai. L’esperienza di ascolto e condivisione della parola di Gesù Cristo, l’evocazione della sua assenza-presenza, dell’intangibile fatto della stessa sostanza del Padre, di un corpo di carne e sangue flagellato fino all’asfissia, si materializza nella grana della voce, nella chiarezza della recitazione e della dizione, nel controllo, nel ritmo, nel respiro di Luís Miguel Cintra. Ma anche nella fatica che comporta la lettura integrale non-stop dall’alba al tramonto, e nell’emozione di trovarsi da solo in mezzo alla natura, alla sua «profondità cosmica» (recita in aperta campagna “avvolto” soltanto da un filtro di velo bianco). E ai suoi rumori, che assumono forza e spiritualità proprio come l’eco dei passi di Macedo nei corridoi vuoti della propria casa.
Colui che meglio di ogni altro interprete ha saputo fondersi con l’ombra e con la notte – come ha ricordato João Bénard da Costa – qui si lascia attraversare dalla luce del giorno, prima tenue, poi al culmine e infine calante. Luce, metafora ampia e trasparente, come l’albero, la croce, l’acqua, e il vento, che è lo spirito («Non sai né da dove viene, né dove va» dice Giovanni). Parlavamo di Cintra come di una figura “notturna”, che ha donato ai suoi personaggi una strana vicinanza con la morte. In O Novo Testamento de Jesus Cristo segundo João si coglie la verità dell’attore in un crescendo espressivo di sofferenza che ricalca il dramma dell’Uomo e il suo approssimarsi alla Fine.
Nell’esperimento di Pinto (già tecnico del suono per De Oliveira, Monteiro, Ruiz, Schroeter e Téchiné) l’originaria registrazione, fedele al testo sacro ed eseguita con tecnologia di vecchia generazione, acquista dignità di forma filmica, nella misura in cui si privilegia il verbo negando l’immagine allo sguardo. Lo schermo nero più di una volta accompagna le parole negate perché non credute del figlio di Dio, l’annuncio al popolo dei Giudei della Resurrezione e della vita eterna, sollecitando così i sensi interni e in particolare «l’udito» (come dice San Paolo). In questa storia universale, fuori dal tempo, il cinema diventa un semplice mezzo al servizio dell’ascolto: non a caso, quando Cintra appare in campo, la m.d.p. si inceppa, traballa, è soggetta a cambi d’obiettivo.

versaillesLa “dolce” morte alla corte del Re Sole. Così si potrebbe sottotitolare l’ultimo bellissimo cortometraggio di Carlos Conceição, inscritto anch’esso – come le storie che abbiamo già scandagliato – in un tempo “altro”, in una dimensione avulsa. Una piccola casa sul mare diviene il rifugio di una coppia di personaggi in bilico tra desideri e pulsioni contrastanti: Miguel è un giovane volontario che si “aggrappa” alla vita (il suo bisogno adolescenziale di amore trova appagamento nell’abbraccio ad un albero) per sfuggire ad una sorte ineluttabile impostagli dalla sua assistita. «Farai quello che ti ho chiesto, lo farai...», ripete l’anziana donna (Isabel Ruth), costretta su una sedia a rotelle e, molto probabilmente, malata di Alzheimer.
Lui le fa il bagno, le prepara da mangiare, la trucca e la invita perfino a ballare. È qui che la mente inizia ad appannarsi, a perdersi, e la narrazione si astrae. Quel microcosmo così minimalista nelle forme e negli umori, violato soltanto dallo strepito delle onde, immaginariamente si disloca. Ora siamo nella reggia di Luigi xiv. Ma la deviazione dal presente presto si esaurisce e la realtà incombe. C’è un ordine finale da eseguire. Il nome di Miguel, chiamato a gran voce dalla donna, lentamente si spegne in lontananza. Il ragazzo, sulla riva, guarda il mare, mentre si lascia bagnare i piedi dall’acqua. L’inquadratura conclusiva di Versailles assomiglia ad un rito di iniziazione. Alla morte.

L’ultima generazione del cinema portoghese conferma la sua vitalità anche al di fuori del film narrativo lavorando intelligentemente sui concetti di “documento” e “testimonianza”. Salomé Lamas porta in primo piano la voce della memoria, attraverso il racconto di un ex soldato mercenario tessitore di molte trame oscure della storia recente del Portogallo. In Terra de ninguém non si celebrano né vincitori, né vinti, ma solo la parola di un uomo, la sua verdad (il confine con la menzogna è, infatti, piuttosto labile). Proprio per questo la messa in scena è nuda, disossata, come il soggetto in campo. Dopo i bagliori di un’esistenza sempre al limite, non rimane altro che un vecchio edificio abbandonato, una stanza vuota e anonima, una sedia in legno e poca, pochissima luce.
Paulo de Figueiredo ricorda con disarmante naturalezza l’esperienza della guerra coloniale in Angola e Mozambico durante il regime Salazar, con le sue atrocità, i suoi atti di sadismo (le granate usate per far saltare i nemici, come scimmie; donne bianche impalate e uomini decapitati): «crudeltà e paradossi del potere, e anche della rivoluzione che lo depose per erigere nuove burocrazie con altrettanta crudeltà» recita il commento off della regista, che ha il raro pregio di non giudicare la materia filmata. L’esigenza di uccidere che, come una droga, ti penetra nelle vene.
Due fedeli “compagne di viaggio” (una Magnum 437 e una Winchester 128) e un imperativo categorico: «contro grandi cattivi ci vogliono grandi rimedi». L’escalation sanguinaria scandita in cinque episodi (dias), a loro volta suddivisi in oltre cento segmenti numerati, montati come fossero tanti piccoli ciak: guardia di sicurezza, mercenario in El Salvador al soldo della CIA e, infine, killer per il GAL (Gruppo Antiterrorista di Liberazione). Gli anni passati nelle carceri di massima sicurezza in Spagna e, anche dopo aver scontato la pena, la sensazione di essere quello di prima perché «un cacciatore resta sempre un cacciatore». Ma dare la morte è un lavoro che, al pari degli altri, ha una sua “etica”; e allora non si uccide per piacere o semplicemente per soldi, e non si fanno vittime fra innocenti e bambini.
Come nell’ultimo personalissimo lavoro di Joaquim Pinto E Agora? Lembra-me (che trascende i canoni del racconto filmico in favore di un’esperienza profonda che è sensoriale, morale e testimoniale allo stesso tempo) anche qui ci si affida esclusivamente al corpo e alla voce per rievocare una vita e un destino. La cui croce può essere la battaglia ventennale contro la malattia (vedi il caso del cineasta-protagonista), oppure quella di finire i propri giorni ai margini del mondo, simile a un qualunque reietto.


Bibliografia

Daney S. (1999): Al centro della fine del mondo, in Amori di perdizione. Storie di cinema portoghese 1970-1999, Lindau, Torino.

Diana M. (2001): Manoel De Oliveira, Il Castoro, Milano.

Roberti B. (1999): Corpo mistico e cinema desiderante, in Amori di perdizione. Storie di cinema portoghese 1970-1999, Lindau, Torino.

Rondolino G. (1999): Premessa, in Amori di perdizione. Storie di cinema portoghese 1970-1999, Lindau, Torino.

Turigliatto R. – Fina S. (a cura di) (1999): Amori di perdizione. Storie di cinema portoghese 1970-1999, Lindau, Torino.


Filmografia

Ana (António Reis – Margarida Cordeiro 1982)

A vida invisível (Vítor Gonçalves 2013)

E Agora? Lembra-me (Joaquim Pinto 2013)

O Novo Testamento de Jesus Cristo segundo João (Joaquim Pinto – Nuno Leonel 2013)

O passado e o presente (Manoel De Oliveira 1972)

Terra de ninguém (Salomé Lamas 2012)

Uma Rapariga no Verão (Vítor Gonçalves 1986)

Versailles (Carlos Conceição 2013)

Vertigo (Alfred Hitchcock 1958)

Viagem ao principio do mundo (Manoel De Oliveira 1997)