«Sono quasi 50 anni che, al buio, il popolo delle sale brucia l'immaginario per riscaldare il reale. Ora quest'ultimo si vendica e vuole vere lacrime. E vero sangue.» (Godard 1988-1998). Un’immersione nel reale, così come riportato sullo schermo, e al contempo un’astrazione da esso. Partire dalla realtà, da quelle storie che raccontano le sfaccettature del quotidiano, poi lievemente lasciare che l’occhio si perda nei meandri dell’immaginifico, tracciando una mappatura del territorio onirico. E smarrirsi è dolce. Forse per ritrovarsi.

La settantesima edizione del Festival del Cinema di Locarno ha regalato visioni che scrutano il reale, con una lirica leggera, carezzevole e tenera verso le storie narrate.
Come il lavoro di Bellocchio, Per una rosa (2017), presentato fuori concorso, che porta sullo schermo assenze evanescenti che assumono la forma di presenze fantasmiche; là dove gli spazi tra una dimensione e l’altra aprono varchi tra le tenebre, si avverte la consistenza delle tracce che i corpi amati lasciano sparse, una volta scomparsi. La materia filmica assume una forma anarchica e indipendente, racconta di sé, nella mise en scène del vissuto, di un passato cristallizzato nel presente. Racconti di un’umanità affranta dal dolore e dagli abbandoni prematuri, affiorano dalle ombre e con la luce abbacinante di un giorno estivo placano, apparentemente, le sofferenze. Bellocchio dipinge le sfumature dell’animo umano, declinazioni emotive, paure e desideri, maneggiate con eleganza e rispetto, come un organismo pensante, in cui il pensiero politico e l’estetica convivono e dove le immagini offrono allo sguardo incanti animati da fantasmi di cui si percepisce la presenza lungo tutto l’evolversi dell’iter filmico.

Muove dal quotidiano, con pari delicatezza e poesia, anche  il vincitore del Pardo d’oro, Wang Bing con il suo Mrs. Fang (2017). La vita raccontata nel suo abbandono, nel suo concludersi, rimanendo fortemente ancorata agli ultimi istanti, tra le emozioni degli affetti familiari, le lacrime, il dolore e i ricordi che scivolano via. Scrutare la morte da vicino, parafrasando Octavio Paz, «nel centro di un occhio mi scopro; non mi guarda, mi guardo nel suo sguardo. Si dissipa l’istante. Senza muovermi, io resto e me ne vado: sono una pausa» (Paz 1992).  Pur filmando gli ultimi giorni di vita di una donna ai margini di una società di uomini che vivono di piccole cose, tra stenti ed affanni, in un villaggio di pescatori, l’immagine non è mai pornografica; la mdp, sin dalle prime scene, concentra il suo sguardo su Fang Xiuying, seguendone gli spasmi, la bocca aperta nel tentativo di catturare gli ultimi respiri di vita, ma nel momento della sua dipartita, si allontana, congedandosi dal filmico, facendosi da parte, con ossequio verso la realtà che non può, nell’istante più doloroso, debordare nell’immaginifico.

Eppure il rovescio dell’immagine mostra la sua faccia e del reale mostra il suo fantasma. Astrazione non solo dalla realtà, ma anche dai generi, come il vincitore del Pardo per la miglior regia, 9 Doigts (2017), di F.J. Ossang. Il regista, rileggendo le trame del noir, libera la materia cinematografica plasmandola in un ibrido di contaminazioni fra generi e forme con un’esplosione anarchica, creando un organismo fagocitante esperienze e derive narrative. Coordinate surrealiste e sconquassamenti tellurici per un’opera deliziosamente punk e anarchica. Lo sguardo è aperto e deflagrato, si muove su geometrie proprie, una morsa selvaggia che, come il cinema muto di inizio secolo, ha una sua linguistica che può debordare avvalendosi di un fantastico blasfemo. Un’odissea tra i flutti della follia, dove è forte il richiamo ad un cinema del passato, non solo al noir classico e alle sue coordinate ma anche alle strutture del cinema muto, al surrealismo di Cocteau, ad Ejzenštejn e ai primi lavori di Lang, modellando un filmico vibrante ed incandescente.

Andare oltre qualsiasi demarcazione, mostrare opere inconcluse o poco conosciute, proprio per offrire all’occhio tutto il visibile possibile, avvicinandosi a territori imbattuti. La telenovela errante, opera interminata di Raúl Ruiz (2017), è stata presentata al festival grazie all’apporto di Valeria Sarmiento (moglie del regista defunto nel 2011), condensando in un’ora e venti gli episodi di una soap opera. Un lavoro politico che racconta con sarcasmo la situazione cilena, tratteggiando la superficialità della società, giocando con i luoghi comuni e l’amplificazione grottesca del soggetto televisivo; portata in scena fisicamente come parte integrante della narrazione filmica, la tv è, di fatto, un corpo attoriale in campo.

Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma è un lavoro realizzato da Jean-Luc Godard nel 1986, restaurato e presentato fuori concorso a Locarno70. Una riflessione sul cinema e sul suo rapporto con la televisione, su quello tra uomo e donna, ma anche sullo sguardo. Cosa di ciò che vediamo corrisponde al reale? Quanto lo è? La realtà attraversa lo specchio concavo dell'occhio e ne esce deformata, un riflesso di sé stessa. Cosa vedi? Come lo vedi? Nulla è quello che è, ma ogni cosa assume una forma plasmata dall’occhio che si poggia su di essa. Nulla è, e tutto è il suo contrario. Lo sguardo appartiene a un solo punto di vista e per sua natura è mutevole da soggetto a soggetto, ma il regista, nella messa in scena, cerca di affrancarsi dai limiti di parzialità dell’occhio.
Così in L'origine della Via Lattea (1575), di Tintoretto, i personaggi sulla tela cambiano a seconda di chi osserva. Il cinema è una Grande illusione (e sul piccolo schermo televisivo passa proprio il film di Jean Renoir), e un’illusione ancora più grande è la televisione, in cui la visione è costretta, in cui tutto è confuso e le immagini sono frammentate, così come è frammentato il linguaggio, il reale scivola in una "interruzione" (tecnica?), l'immagine mendace è un insieme di righe colorate dove tutto si smarrisce. Incomunicabilità, il giallo di un omicidio/suicidio, lo scontro tra il cinema e la televisione e ancora, un produttore, un regista, L'avventura di Antonioni, Chaplin, Jerry Lewis, Dita Parlo, Polanski, sono tutti chiamati in causa, poster, libri, omaggi del regista della Nouvelle Vague.

Non resta che chiedersi se il cinema sia realmente morto, come asserito da Freddy Buache, nel corso della tavola rotonda su Jean-Marie Straub: «Il cinema di oggi è morto, l'unico cinema ancora vivo e degno di questo nome è quello di Jean-Luc Godard, in attesa del suo nuovo film». La sensazione provata a Locarno 70 è quella di un appagamento sensoriale, dove la vista ha avuto piena sublimazione grazie alle visioni di opere che elargiscono incanti allargando i confini del visibile e liberandolo verso un oltre sconfinato, tra reale ed immaginifico.


Bibliografia

Paz O. (1992): Albero interiore (1976-1987) in Il fuoco di ogni giorno, Garzanti, Milano, traduzione di Ernesto Franco


Filmografia

9 Doigts (François-Jacques Ossang 2017)

Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma (Jean-Luc Godard 1986)

Histoire(s) du Cinéma (Jean-Luc Godard 1988-1998)

La telenovela errante (Raúl Ruiz, Valeria Sarmiento 2017)

L'avventura (Michelangelo Antonioni 1960)

Mrs. Fang (Wang Bing 2017)

Per una rosa (Marco Bellocchio 2017)