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Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere;
la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato.
(Rilke, Lettere a un giovane poeta)





O leggiadri e giulivi coloriti
Che la struggente calma alleva,
E addolcirà,
Dall’astro desioso adorni,
[…]
Indi passò sulla fronte dell’anno
Un ultimo rossore.
E lontanissimo un giovane coro
S’udì:
Nell’acqua garrula
Vidi riflesso uno stormo di tortore
Allo stellato grigiore s’unirono.
(Ungaretti, Le stagioni)

Liriche in versi sciolti galleggiano sulla superficie di una tela impressionista, sul nascere del sole, che tinge di rosa il cielo per poi accendere di bagliori le acque che, placide, ancora dormono nel gelo notturno. L’alba di un nuovo giorno, la nascita di una nuova vita, i primi vagiti di un neonato che si affaccia al mondo. Tutto è lento, calmo, disteso in un tempo dilatato e sospeso, un tempo in cui non esiste uno ieri ed il domani non ha ancora la consistenza del futuro, ma è uno stato sconosciuto. La linea dell’occhio è catapultata nel mattino dell’uomo, là dove tutto ha inizio, con la nascita; la mdp si fa sguardo e si muove indisturbata tra gli abitanti di Castellaro Lagusello, sui volti, tra i corpi, seguendo il vociare per le strade e nelle piazze del paese. L’alternarsi delle stagioni accompagna le stagioni dell’uomo, nel loro mutarsi, nella loro metamorfosi, il viaggio umano nella vita è al centro di questa narrazione di Franco Piavoli.

Il corpo filmico è il corpo umano, in una coincidenza fisica, in una compenetrazione totale, la vita si fa opera cinematografica ed il cinema si muta in vita. L’immagine deraglia sulla vita, sua sovrapposizione, l’una interseca l’altra in una vicendevole narrazione. Piavoli affida la sua storia alle immagini, la composizione della sua sinfonia è una carnificazione immaginifica, una tela che si fa carne; la pellicola pulsa, vitale e febbrile, narrando la storia dell’uomo.
Allora si vive, giocando con i bambini, tra le loro risa, correndo dietro ad un pallone, li si osserva, nella profondità di un campo lungo, mano nella mano, l’uno con l’altro e con le loro mamme, illuminati da una luce tenera che accarezza i loro volti paffuti; le filastrocche e le canzoncine, è l’infanzia, sfrenata, spensierata e bambina, puntini colorati di festa nelle strade del paese.

L’innocenza della fanciullezza lascia il posto alla successiva stagione, l’adolescenza, in cui purezza e ingenuità tracciano i bordi di una ferita aperta, esposta e sanguinante. Il dolore di crescere e la rinuncia all’innocenza procurano sofferenze, gli sguardi altrui sono lame che arrivano in profondità, l’approccio con l’Io, con l’altro sesso e con il desiderio, la trasformazione della carne, lo sbocciare del corpo, marcano limiti e forgiano l’essere. Ma Piavoli si accosta con delicatezza ed accarezza con lirica leopardiana la metamorfosi dell’essere, «sì come dopo la procella oscura, canticchiando gli augelli escon del loco, dove cacciogli il vento (nembo) e la paura; e il villanel che presso al patrio foco, sta sospirando il sol, si riconforta (rasserena), sentendo il dolce canto e il dolce gioco» (Leopardi 1921, p. 32). Ma anche i rituali di corteggiamento, le attrazioni, gli sguardi e le intese, come le solitudini, i silenzi, le paure, gli smarrimenti dell’animo e le delusioni; poi le danze tra gli alberi, i corpi che si sfiorano lievi, si accarezzano desideranti e desiderati, in un vorticoso turbinio di passioni portate sul proscenio della vita.

Il desiderio, il sesso, il cercarsi e la volontà di appartenersi, nella ferinità dell’adolescenza, dei primi incontri, come asseriva Lacan:

Vorrei ricordare qualcosa dei rapporti inizialmente selvaggi, se così possiamo dire, tra l’uomo e la donna. Dopotutto, conformemente alla mia elaborazione del rapporto tra l’angoscia e il desiderio dell’Altro, una donna non sa con chi ha a che fare e, di fronte all’uomo, si chiede non senza una certa preoccupazione fin dove potrà condurla il cammino del desiderio. Quando l’uomo, Dio mio, ha fatto l’amore come tutti quanti ed è ormai disarmato, anche nel caso in cui la donna non ne abbia avuto, direi, un profitto sensibile – cosa, come sapete, del tutto concepibile – essa ha comunque guadagnato qualcosa, e cioè il fatto di essere ormai assolutamente tranquilla sulle intenzioni del suo partner. (Lacan 2007, p. 289)

Filmare il tempo, l’istante, il presente ed il futuro, il momento nel suo divenire è allo stesso modo riportare il reale e la sua diretta astrazione, il filmabile e l’infilmabile attraverso una manifestazione astratta, ma concreta, delle emozioni, vissute e filmate. La scena si accende della vita che diventa il corpo dell’immagine, un corpo danzante, fluttuante, mutevole, attraversa gli anni, scruta i volti nella sera dell’esistenza e come un volo ellittico si chiude là, da dove era partito, quando l’essere, giunto nella notte, tende la mano alla sua alba, osservando un crepuscolo caldo che si spinge verso l’assoluto. La riflessione sul tempo e l’uomo risultano il corpo stesso della pellicola. Per usare le parole di Nietzsche, «il mondo vero è diventato favola» (Nietzsche 1970, p. 75)2.

Voci nel tempo è un’introduzione dell’immagine alla verità più pura, attraverso una traslazione pittorica, che evoca le tele di Claude Monet, immersa in una luce calda di placida e romantica rifinitura del racconto. La sceneggiatura è una partitura sinfonica di voci fuori campo, che mutano a loro volta, da garrule e stridenti, si fanno più carezzevoli e gioiose, con una musicalità che cambia di scena in scena, di stagione in stagione, nelle varie fasi della vita.

Il visibile, l’oggettivo, il reale si spostano sul piano del virtuale, ripresi e traslati su pellicola, come in uno specchio, un doppelgänger della realtà, in cui l’occhio è addolcito dalla poetica dell’istante, dallo sguardo elegiaco di Franco Piavoli, cineasta-pittore che attraverso l’immagine sinfonica compone la sua ode alla rappresentazione del reale. In uno spazio in cui la parola è solo dettaglio, in cui il logos ha una funzione esclusivamente marginale, recluso sul bordo che è margine, il verbo è delegato all’assoluto filmato, il detto e il non detto sono accessori: «i nostri atti mancati sono atti che riescono, le nostre parole che inciampano sono parole che confessano. Quelli, queste, rivelano una verità che sta dietro. All’interno delle cosiddette associazioni libere, delle immagini del sogno, dei sintomi, si manifesta una parola che apporta la verità. Se la scoperta di Freud ha un senso è questo: la verità prende l’errore per la collottola nel fraintendimento» (Lacan 2014, p. 312).

La lezione di Piavoli, in Voci nel tempo, è intrisa proprio del tempo, evocato nel titolo, contemplato e cantato nel suo racconto, ne è la materia, fornendo densità ad ogni singolo fotogramma. Contaminarsi con lo svolgersi del tempo, riprodurre il suo ritmo, lento, senza accelerazioni, rimanendo fedelmente saldo al reale e all’umano, offrendo nello scorrere delle sequenze filmiche la ricerca della bellezza intesa come flusso magmatico dell’esistere, tarkovskijanamente, «contenitore di bellezza perché contenitore e contenuto di verità» (Tarkovskij 2012, p. 3).

altL’immagine è affidata, dal regista, alla realtà. La scelta di raccontare un luogo, Castellaro, i suoi abitanti, rifiutando la forma narrativa, l’assenza di un testo re-citato e di una sceneggiatura intesa in modo convenzionale, con un linguaggio atipico ed intimamente elegiaco, non vuole essere una trasgressione della forma, ma il tentativo, riuscito, di raccontare una dimensione poetica del mondo. La mdp si contorce nella materializzazione di una danza dionisiaca, con una fascinazione di bagliori luminosi, tra le sfumature che accendono il cielo di una luce sempre mutevole, nella poesia dell’attimo, tra i colori albeggianti, caldi e ovattati, della rosea infanzia. Le ombre si allungano tra le tonalità sature dell’adolescenza, poi la placidità serena della sera, tra i blu magrittiani, nelle zone fantasmiche più sedimentate, come in L’Empire des Lumières, fino al chetarsi di un vulcanico crepuscolo in cui tutto arde, tra morte e rinascita, tra la tenerezza infinita nella parabola della fine e dell’inizio.

Il corpo filmico è il corpo umano, il suo essere e il suo mutarsi, l’immagine schermica è la vita, la dilatazione del tempo e la sua sospensione, elementi che dettano il ritmo del flusso narrativo; tutto contribuisce a restituire all’occhio il lirismo di uno sguardo puro e sincero, in un innamoramento atopico socratico, ciò «che io amo e che mi affascina è atopos. Io non posso classificarlo, poiché è precisamente l’Unico» (Barthes 2014, p. 38), esattamente come sottolineava Roland Barthes. La macchina-cinema si piega agli eventi, al loro accadere, il suono assurge al ruolo di conduttore di messaggi emotivi, in un cinema atipico, sensoriale, in perfetta consonanza con la natura, parte integrante del racconto di Voci nel tempo, il dipinto sulla tela del tempo si fa carne e la carne si fa cinema, nella sua purezza e nella sua intangibilità. «In genere, questo fa pensare che il cinema autentico, forse, comincia proprio […] quando non vi è un “senso ultimo” che abbraccia un episodio, ma c’è del materiale di vita in quanto tale. […] il cinema autentico è capace di riferire il proprio pensiero anche senza l’ausilio delle parole» (Tarkovskij 2012, p. 35).


Bibliografia

Barthes R. (2014): Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino.

Lacan J. (2007): Il Seminario. Libro X, Einaudi, Torino.

Lacan J. (2014), Il Seminario. Libro I, Einaudi, Torino.

Leopardi G. (1921): Zibaldone di pensieri, Pensieri di varia filosofia, Le Monnier, Firenze.

Nietzsche F.W. (1970): Götterdämmerung (Il crepuscolo degli idoli), in Opere, vol. VI, Adelphi, Milano.

Ungaretti G. (1992): Poesie, Newton & Compton, Roma.

Tarkovskij A. (2012): La forma dell’anima, Rizzoli, Milano.


Filmografia

Voci nel tempo (Franco Piavoli 1996)