holy-motorsPare che l'automobile, anzi la Limousine, sia divenuta l'immagine, cioè unico dispositivo di indagine, del cosiddetto contemporaneo, se si vedono le recenti opzioni del Cosmopolis cronenberghiano, ma soprattutto di quell'Holy Motors di Leos Carax, che convoglia perfettamente la militanza, che deve essere non solo della creazione cinematografica, ma anche della critica. È il motore, la macchina, il veicolo dell'attraversamento dello spazio immaginale e del passaggio all'Altro cinematografico, percorrendo il Vuoto che si istituisce tra queste in(ter)dipendenti isole di senso, che vibrano ogni volta (nelle incarnazioni di Denis Lavant e nelle concrezioni del circostante) di sentimento, dolore, perversione, azione anticapitalistica, cioè di Politica, la globalità dei significati, dis-unita proprio attraverso la distanza tra isola e isola. Che è quanto emerge appunto da Holy Motors e che la critica, le critiche, devono mettere in primo piano, nel sogno avatariano di una vita nuova e reale affidata alla carne del simulacro.

Trovare (e comunque propiziare) Joe Dante in Bruno Dumont (da una conversazione con Roberto Silvestri), Rossellini in Michael Bay, e magari Soderbergh in Roberto Minervini, è la possibilità di una critica sognante e perciò militante nella misura in cui individui vie dialettiche ed estetiche (quindi politiche), potenziali, inedite, di conformazione del reale, perfettamente confuso con l'invisibile, con l'invenzione. Per Uzak ciò corrisponde appunto nel perorare film invisibili per quanto straordinari (intrattenendosi spesso nel “sottobosco” italiano), come, su questo numero, quel Low Tide di Roberto Minervini, che ci è sembrato tra le cose migliori viste alla scorsa Mostra di Venezia; così come abbiamo fatto per il Kaspar Hauser di Manuli, che ancora oggi ci appare come una delle cose più folgoranti viste negli ultimi tempi.

Del resto il discorso sulla critica, accennato prima, va in qualche modo approfondito, alla luce del concreto, spesso eccezionale apporto dialettico di alcuni portali (penso almeno, in ordine sparso, a «Sentieri Selvaggi», agli «Spietati», a «La Furia Umana», a «FilmIdee», a «Rapporto Confidenziale», ma credo di dimenticare qualcuno) e di certe osservazioni, pure in gran parte condivisibili, uscite di recente sulla rivista «Cineforum» (da cui si può partire per avviare un dibattito che potrebbe essere interessante); il che dice di un certo pregiudizio (un preposizionamento all'ombra della carta) con cui si valuta, in questo caso, il panorama sterminato della rete, tentando di farne teoria, laddove è impossibile farne, per via di un'orografia dalle immense sfaccettature, che prevede sì molto ciarpame (o un semplice “small talk” volontaristico, dilettantistico su cose cinematografiche: ma chi può dire a priori, cioè fuori dalla viva carne del senso ‒ che in questi casi in effetti non c'è ‒, che ciò non abbia senso? Sono le immagini e gli intrinseci concetti, diramati con scienza e inventività, che devono trovare spazio e tempo a scapito del volontarismo, autoaffermarsi anche nel caos e nella banalizzazione della rete), ma anche occasioni di critica penetrante (su cui l'autore dell'articolo non si sofferma) spesso migliore di quella dei periodici a stampa, per non dire dei quotidiani ormai divenuti (inter)regno dell'aneddoto.

E Malavasi, che ha il merito di trattare anche della diversità e potenzialità dei supporti, optando per la valenza (quasi) esclusiva della carta, dimostra però di non conoscerne perfettamente (o di non ricordarne) le varie declinazioni, con relative gerenze, se è vero che alcune delle piattaforme digitali di cultura (e non certo di mera informazione) cinematografica di cui sopra, hanno come promotori, fondatori, direttori, gli stessi redattori delle riviste a stampa, addirittura dello stesso «Cineforum» (perciò risulta un po' straniante leggere dell'iniquità del web e poi rendersi conto che molti dei redattori del periodico su cui ciò è affermato, hanno un ruolo attivo o addirittura preminente in alcune riviste sul web); sicché poniamo, se un redattore ad esso afferente possa essere penetrante e scientifico vergando la carta, perché non potrebbe esserlo anche concertando il proprio pensiero sul video?

Se Malavasi si riferiva proprio a questi esempi, parlando di quell'un per cento significativo tra i siti di cinema, credo sarebbe stato meglio menzionarli, giungendo peraltro a conclusione che non sia il supporto a fare la qualità, quanto chi quel supporto lo utilizzi. E non è che l'uso dello spazio web, perché computerizzato, debba essere per forza giustificato da uno sfruttamento delle possibilità tecnologiche offerte dal mezzo (che comunque sono meno di quanto si immagini: in effetti non vedo, più che adoperare materiale interattivo, cos'altro si potrebbe escogitare per rendere la schermata più avanzata) quanto dalla necessità, tra le altre cose, di abbattere i costi di “edificazione” del fascicolo, i costi di stampa, oggi, anche per le riviste che hanno fatto la storia della critica in Italia (penso ad esempio a «Filmcritica», che è una realtà che conosco bene) divenuti insostenibili dal momento che sono venuti meno i finanziamenti ministeriali (e non solo). E poi, parlando dei vantaggi dell'etere, dobbiamo riconoscere la possibilità, attraverso il libero accesso al virtuale, di fare viaggiare le idee (anche, anzi soprattutto, quelle più articolate) oltre le specole, oltre l'ambito ristretto degli addetti ai lavori, così come le immagini possenti e senzienti di Holy Motors attraversano lo spazio del reale infettandolo con il loro germe.

Se di militanza dobbiamo parlare, allora non possiamo evitare che il contagio si diffonda in modo capillare, usando ogni mezzo, ogni tecnologia che possa far attecchire e mutare questo germe (che è esistenziale, etico, in sintesi politico) dal dna complesso eppure così innocente...