altSono già passati vent’anni dalla morte (prematura) di Derek Jarman e il cinema europeo non ha ancora del tutto assimilato la sua lezione, che resta un unicum per sfrontatezza, energia, slancio visivo. Di fronte a una produzione tanto eclettica – sia sul piano stilistico che su quello tematico – è difficile pronunciare giudizi definitivi, individuare categorie, applicare filtri: Jarman ha saputo ‘bruciare’ l’immaginario della sua generazione dando fuoco alle pulsioni più autentiche (il sesso, la poesia, l’arte), incendiando lo sguardo degli spettatori attraverso una serie di opere fuori misura, capaci di scandalizzare innanzitutto per la messa in quadro di formati diversi e per la convergenza di supporti non canonici1. Super 8, videoclip, tableaux vivants, I-movie, lyric film sono solo alcune delle chiavi d’accesso a un orizzonte di senso stratificato e in progress, di cui oggi rimane lo scintillio di un catalogo vietato ai puristi d’ogni sorta, e consigliato invece a chi ama le ibridazioni.


In Italia l’anniversario jarmaniano è stato scandito da una sola importante retrospettiva, organizzata lo scorso febbraio a Roma: non è un caso che i promotori siano stati l’Angelo Mai Altrove Occupato, il Teatro Valle Occupato, Fanny & Alexander e Ubulibri, cioè di fatto i due luoghi simbolo di una possibile utopia culturale (al centro di grandi polemiche, e in un certo senso già archiviata, ma sicuramente una avventura esaltante), il gruppo di punta (insieme a Motus) dell’underground romagnolo, e una casa editrice in dismissione, vale a dire realtà ‘marginali’ rispetto all’establishment ufficiale, eppure proprio per questo sensibili nei confronti della liminalità di Jarman. Si è trattato di un omaggio corale, non oleografico, in cui accanto alla proiezione di alcuni ‘classici’ come Jubilee e Caravaggio si sono proposti dj set, recital, esperimenti di audiovisione che testimoniano la profonda consonanza degli artisti coinvolti (fra gli altri Luigi de Angelis con il suo Ascolti Blu e Roberto Paci Dalò con il remix sound CHROMA) con la poetica ipermediale di Jarman. La forma stessa di tali eventi è l’indizio della modernità del pittore-regista inglese e del grado di rielaborazione del suo mood sperimentale ed autarchico – almeno in certi ambiti.

La particolare tessitura dei 2 giorni per Derek Jarman, il richiamo alla potenza del suo gestus, alla vitalità della sua azione contro la repressione della libertà sessuale, offrono più di uno spunto di riflessione che qui proviamo a riassumere mettendo a confronto la scrittura paradossale, a tratti iperbolica di At Your Own Risk e il silenzio visionario di The Last of England. Il cortocircuito fra le parole ardenti dell’autobiografia e le immagini ‘bruciate’ di uno degli I-movie più sperimentali ci consegna il ritratto di un’artista a suo modo rivoluzionario.

Nel segno di PPP

Se la resistenza di un autore si misura sulla lunga durata possiamo dire che Jarman supera il giro di boa dell’anniversario confermando l’idea di un talento visionario, apocalittico e non integrato, in grado di sfidare la logica del perbenismo thatcheriano attraverso l’esibizione prolungata (e mai volgare) della propria diversità, ricalcando con consapevole fermezza l’esempio di Pasolini. Le affinità fra Jarman e Pasolini sono un capitolo appassionante, e per certi aspetti poco esplorato, della storia della cultura visuale (e politica) degli anni Sessanta e Settanta: basterebbe qualche dettaglio di tale liaison per cogliere l’oltranza di due figure cruciali per l’Inghilterra e l’Italia del loro (e del nostro) tempo.. Pur rimandando a diversa destinazione l’approfondimento delle dinamiche di citazione di Pasolini nell’opera di Jarman, serve richiamare intanto un passaggio di A vostro rischio e pericolo. Il testamento di un santo, in cui si rende manifesto il livello di assimilazione del poeta di Casarsa da parte del Nostro:

Non sei stato intrappolato dal sistema? Hai realizzato Edoardo II per una miseria – 800.000 sterline. Vivi una vita di esilio dall’industria cinematografica e tuttavia devi sempre fare i tuoi film seguendo le loro pretese.

In primo luogo, io li faccio. Nessuno dei registi “omosessuali” della mia generazione ha fatto di più. Il compenso per realizzare Sebastian per 30.000 sterline o Eduardo II per 800.000 consiste nella mia certezza che questi film, che sono impegnati in una lotta, saranno programmati fra trenta o quarant’anni.
La critica potrebbe essere che sono troppo negativo. È piuttosto giusta, la capisco, ma la vita non è un piatto di ciliegie. Sono convinto che i film riflettano i problemi del vivere oggi. Ecco perché penso che Salò sia tanto importante; Pasolini esibisce il proprio sfacelo. Questa è la cosa più coraggiosa che si possa fare, non vi pare? In fin dei conti non si possono aiutare le persone con le chiacchiere. Il mio Salò non è nei film: potrebbe essere questo libro. (Jarman 2008, p. 85)

Accanto alla decisa rivendicazione della propria libertà d’autore rispetto ai compromessi del sistema produttivo, Jarman qui dimostra di aver compreso pienamente le intenzioni di un’opera tanto controversa come Salò e dichiara addirittura di averne assunto lo stigma non attraverso la scrittura cinematografica bensì tramite l’avventura letteraria. La scandalosa traiettoria di At Your Own Risk ricalca da vicino l’oscena esibizione di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ma con un’intenzione diversa: se per Pasolini l’estremo film costituisce la messa in abisso della mercificazione dei corpi e delle coscienze, per Jarman invece il racconto spudorato della propria sessualità ha una valenza catartica, rivelatrice, perché vale a sciogliere il giogo delle ingiurie e della persecuzione contro gli omosessuali. La sua è una autobiografia gay, che diviene – grazie alla sua verve militante – una sorta di archetipo, di Modellbuch appassionato e appassionante. L’autore pone l’accento sulla scelta di una narrazione in prima persona («Fu molto importante trovare l’ “io”: io sento questo, questo è successo a me, io ho fatto questo»)(ivi, p. 35), sulla necessità di conquistare uno spazio di espressione singolare, che fosse però capace di rispecchiare una moltitudine di individui2. La dialettica io/loro/noi segna tutto il racconto, lasciando emergere la complessità – e per certi aspetti l’eccentricità – dell’autofiction jarmaniana. A fare la differenza è innanzitutto la forma intermittente: «il mio libro è una serie di introduzioni a questioni e cose da fare incomplete. Come la memoria, ha buchi, amnesie, schegge di passato, un presente frammentario»(ivi, p. 13). L’intermittenza degli inserti – scanditi comunque da una precisa griglia cronologica, divisa per decenni (dagli anni Quaranta agli anni Novanta) – riproduce l’effetto di montaggio dei suoi film, contribuendo a distillare eventi e notazioni, sebbene lo stile si mantenga sempre lucido e incisivo, soprattutto quando si parla di sesso.

Questo è il motivo per cui c’è tanto sesso in questo libro – perché è quello di cui nessuno ha voglia di discutere. È importante per noi parlare di sesso, per definire noi stessi in un mondo che non ha mai parlato di noi e neppure ci ha permesso di farlo. Chi non riesce a capirlo è proprio stupido. Quando cominci a parlarne, ti senti vivo.( ivi, p. 34)

L’ossessione per la carne si inscrive in un preciso disegno pedagogico («il sesso creava legami, era pedagogico, un modo di imparare») (ivi, p.55), e rivela il primato delle ragioni dell’istinto contro ogni forma di discriminazione. La vera provocazione del libro è l’utopia di una santità gay, l’idea di un paradiso dell’amore libero, gioioso, nel quale sentirsi come «angeli che danzano sulla punta di uno spillo» (ivi, p.12). Nonostante l’arroganza e la ferocia della censura, si vivono stagioni di grande euforia, di godimento pieno, all’ombra di notti selvagge, covando ‘pasolinianamente’ una spasmodica «frenesia dell’alba» ( Pasolini 1995, p. 832). La natura sembra corrispondere la gaia sfrontatezza di incontri furtivi per un principio edenico di armonia («La natura è diversa») ( Jarman 2008, p.29), ma poi l’‘eterosocietà’ comincia ad abbattere gli alberi, a tagliare le siepi, perché non ci devono essere viali degli amanti. In molte pagine si fa largo allora la rabbia cieca contro la repressione, l’isolamento, l’onta delle retate della polizia; qualcosa si incrina, finché la carezza dell’arte non interviene a placare ogni spasmo. La pittura, la letteratura e il cinema consentono all’autore di coltivare la bellezza, di elevare lo spirito oltre il disincanto del reale, nel cerchio vivo di una comunità di artisti in cui era possibile smentire i pregiudizi:

la cosa più eccitante era incontrare persone nuove con nuove idee quando l’eterosocietà credeva che tutto quello che facessimo fosse ficcare cazzi l’uno nella bocca dell’altro. Prima che questi cazzi entrassero nelle nostre bocche ci scambiavamo idee. (ivi, p.66)

Il conforto tutelare di pittori, scrittori, e registi – menzionati a più riprese tra le pieghe del discorso – consente al lettore di ricostruire una puntuale cosmogonia di stelle fisse, modelli di libertà e ribellione, tra cui senz’altro spicca Pasolini, per una sorta di comune follia3, o affinità elettiva, che si coglie per esempio nell’appunto che ricorda la sua morte:

La morte di Pier Paolo Pasolini, 2 novembre 1975

“Per come percepii lui in mezzo a quella solitudine, quell’oblio a cui io ero ridotto, gridai ‘pietà, vi prego’ come nei sogni quando ogni dignità è perduta”.

L’assassinio di Pier Paolo a Ostia – da parte di una banda i cui movimenti furono coperti dal sistema giudiziario italiano – fu una luce che si estingueva nello spazio delle nostre menti. La morte del nostro poeta, il nostro storico, il nostro regista, assassinato dall’eterosocietà; Wilde, Marlowe, Caravaggio, Cajkovskij e ora Pasolini, tutti assassinati. Spezzate il cerchio della morte. (ivi, p.88)

Il tragico destino di artisti omosessuali del calibro di Wilde, Marlowe, Pasolini, Caijkovskij e Caravaggio impone a Jarman una ferma assunzione di responsabilità, soprattutto di fronte alla dilagante campagna di demonizzazione prodotta dall’eterosocietà in risposta al diffondersi del virus dell’AIDS. Il libro esibisce nell’ultima parte lo sfacelo della malattia, l’agonia di vite schiantate dal contagio, ma l’oltranza del racconto passa attraverso la rivendicazione della purezza di un sogno d’amore, perché – come dice Eraclito – «coloro che sognano sono coautori di ciò che accade nel mondo»4. L’accettazione dell’HIV determina un lieve slittamento di prospettiva, «l’assunzione di uno sguardo diverso ed esterno sulla collettività» (Vallorani in Jarman 2007, p. 251), e così gli ultimi paragrafi del volume descrivono l’infittirsi del dialogo con la morte, fino alla costruzione di un catartico teatro della coscienza, che esplicita in forma di metafora il senso stesso della testimonianza.

Sono nell’arena, gli occhi della folla puntati su di me. La mia morte rientra nelle statistiche dell’intrattenimento, qualcosa per proiettare un’ombra prima della seconda tazza di tè a colazione. È assolutamente impossibile comunicare i miei sentimenti. Non sono morto e quindi sulla morte non sono in grado di rivelarvi nulla che non possiate immaginare anche voi. L’HIV l’ha portata un po’ più vicina alla mia mente, tutto qui. (Jarman 2008, p. 107)

Seguendo il mandato pasoliniano, Jarman ‘getta il proprio corpo nella lotta’, assume su di sé lo stemma del martirio col preciso obiettivo di ribaltare la condanna della società. Il commiato ha il tono accorato di una supplica e la leggerezza di un canto:

[…] amici omosessuali, permettetemi di congedarmi da voi cantando. Ho dovuto scrivere di un periodo triste come testimone e non certo per spegnere i vostri sorrisi. Vi prego, leggete gli affanni del mondo che ho fissato in queste pagine; poi, riponete questo libro e amate. Possiate, voi che vivrete in un futuro migliore, amare senza soffrire e ricordare che anche noi amammo. Mentre calavano le tenebre, comparivano le stelle.

Sono innamorato. (ivi, p.127)

È sempre una ‘disperata vitalità’, anche questa di chiara ascendenza pasoliniana, a scandire i passaggi più significativi, a tracciare il cammino della vita e dell’arte, perché in fondo «sono i film la speranza, l’attività è la speranza» (Jarman 2007, p.107).
Non c’è pessimismo nelle opere di Jarman, ma solo verità e un profondo rispetto per il lettore/spettatore, come si evince da una battuta che vale come premessa a The Last of England: «può essere doloroso per il pubblico starsene in piedi al mio fianco a sbirciare l’abisso, ma io sono stato sul limitare di quel precipizio tutta la vita» (ivi, p.108).

Credere nell’arcobaleno

L’eclettismo è un chiaro marchio di fabbrica dell’officina di Jarman, che riesce ad attraversare linguaggi diversi (pittura, cinema, video, poesia, letteratura) imprimendo a ognuno di essi il sigillo di una personalità inconfondibile. Se la scrittura autobiografica sorprende per l’impronta militante, il piglio polemico, la forte emorragia dell’io (sviscerato perfino nelle emozioni più crude), quel che rende unico il suo cinema è il particolare intreccio audiovisivo, la progressiva rarefazione dell’impianto narrativo a cui corrisponde un marcato sperimentalismo di forme e supporti. Pur avendo dato corpo e voce a personaggi ‘storici’ del calibro di Sebastiane, Caravaggio, Edoardo II, Wittgenstein – secondo processi di rivisitazione mai banali, anzi decisamente ‘sovversivi’ – è sul fronte dell’I-movie che Jarman compie i passi più radicali, rinnovando il genere grazie a una potente ibridazione di codici. Dalla produzione in Super 85a Blue (Gran Bretagna, 1993), il regista disegna un collage caleidoscopico di sguardi in grado di spezzare il tempo, di proiettare le ombre (e le luci) della coscienza e del paesaggio oltre il diaframma del reale. La macchina da presa di Jarman scavalca i generi, rompe le convenzioni, destinando allo spettatore delle partiture visive davvero impressionanti. Del resto, come ammette lui stesso, la missione è destabilizzare e distruggere. Questa tensione volitiva, agonistica è l’esito di una consapevolezza matura, che intende contrapporre alle logiche di mercato la verità dell’esperienza, anche perché quando si realizza un film senza avere una sceneggiatura (e un budget) «il film diventa un’estensione della propria vita» (Jarman 2007, p.140).

altAll’interno di questo quadro a tinte forti, The Last of England «non assomiglia a nessun altro, occupa uno spazio tutto suo» (ivi, p.159). L’unicità dell’opera risiede nella torsione vertiginosa del racconto («non c’è una trama, anche se c’è una storia d’amore»), nella intermittenza della campionatura visiva, nella profonda tessitura dei suoni e delle voci («la colonna sonora è un palinsesto» ivi, p.164). Si tratta dunque di un film-mosaico, organizzato intorno alla soggettività del regista, che entra in campo fin dall’incipit proprio per rendere esplicito il carattere autobiografico del gesto creativo. La presenza dell’ombra di Jarman lungo il racconto è indice di una forte autorialità, di un’idea del fare che non può prescindere dallo sguardo e dal corpo di chi inventa il ‘modo’ di riprendere. Non è un caso che la definizione più ‘appropriatata’ di The Last of England sia Jarman a consegnarla al lettore, per quell’abitudine alla riflessione metalinguistica che informa tutti i suoi scritti diaristici.

The Last of England è strutturato in modo molto diverso: è un’allegoria onirica.
Nell’allegoria onirica, il poeta si sveglia in un paesaggio visionario dove incontra personificazioni di stati psichici. Questi incontri lo guariscono. Jubilee era così: una narrazione finalizzata a guarire; si riagganciava a Pearl o al Piers Plowman. Che era una componente sociopolitica. In Jubilee il passato sognava il presente/futuro. The Last of England è nella stessa forma, anche se questa volta ho messo me stesso al centro del quadro.
Qui il presente sogna il futuro/passato. Non ho scritto una sceneggiatura, il testo è tenuto insieme dalla presenza dell’autore. Il pubblico dovrebbe essere in grado di “leggere” il film con estrema facilità. Quest’uomo è un derelitto, questo è un matrimonio. La sua struttura suggerisce un viaggio: pagine di un libro che girano e che portano con sé nuovi cambiamenti di direzione, costruendo un’atmosfera senza entrare in una narrazione tradizionale (ivi, p.185).

Jarman confessa di essere una sorta di personaggio-matrice ma non rivela il gesto da cui ha origine il racconto, cioè l’atto di scrivere e di dipingere, la combinazione di un doppio talento che sostiene e orienta lo spaesamento delle immagini. Ancora una volta quel che conta è il processo, il farsi di un’opera6, che rimane aperta perché la logica del sogno (e dell’arte) non prevede messaggi consolatori ma solo segni, simboli, incantamenti. Gli oltre ottanta minuti del film procedono in modo dis-continuo, combinando micronarrazioni legate insieme – oltre che dalla centralità dell’auctor/operator –7 da un senso di spaesamento, di desolazione, di rovina. Il silenzio assordante orchestrato magistralmente da Simon Turner è sostenuto dalla voice off di Nigel Terry, che recita brani poetici scritti da Jarman come «reazione allo spettacolo il cui tempo è scandito dall’orologio della morte» (ivi, p. 193). La cupezza dei toni si accende a tratti grazie alle sfumature di cromatismi surreali8, che variano dal rosso fuoco (il fuoco è figura pregnante della non storia), al lilla, al viola, con qualche accenno di azzurro: non c’è nulla di naturale in queste tinte, ma grazie ad esse lo schermo vibra, si infiamma, langue. La qualità ‘atmosferica’ della luce, il senso cosmicamente tragico del paesaggio sono accentuati dalla libertà del Super 8, che consente «una profondità di campo stupenda» (ivi, pp. 193-194),  mentre il montaggio sincopato e la stratificazione della colonna sonora assicurano un ritmo vitale a ogni frame.

Il quadro d’insieme è un inferno postmoderno, popolato da reietti, drogati, banditi, ribelli, profughi, tutti personaggi in attesa dello schianto, o di una rivelazione. Il primo a comparire è Spring, un drogato che prende a calci un quadro di Caravaggio (l’Amore profano) e vi si masturba sopra, in «un rapporto di amore/odio»: la sua gioventù bruciata somiglia a quella di un angelo perverso e consente a Jarman «una scopata cinematografica» (ivi, p.187). Poi la macchina da presa comincia a vagare dentro luoghi abbandonati, dismessi, e allora il racconto si avvita su se stesso, distillando gesti di rivolta (gettare pietre, accendere razzi), processioni, epifanie, in un continuum di disperazione e stordimento. Le uniche immagini rassicuranti appartengono al privato del regista, alla sua infanzia minata dalla guerra ma illuminata dai giochi con la madre e la sorella, dal colore dei prati e dei fiori: gli inserti in super 8 girati dal nonno e dal padre squarciano lo schermo grazie a una luce brillante, a un tocco vintage caldo e immortale. Sebbene l’allarme delle sirene minacci la tranquillità del campo di aviazione, il tempo pare fermarsi dietro la corsa con la palla, o tra le braccia della madre, perfino la natura sembra approfittare di un attimo di quiete. Svanita la delicatezza dei ricordi di celluloide, la storia precipita di nuovo, la guerra incombe e il paesaggio torna a incupirsi. Tra le schegge del racconto spicca la sequenza velocissima del ballo tra soldati, esplicito omaggio al Salò di Pasolini («Il centro del film è molto buio, senza pietà, come Salò») (ivi, p.205). Altrettanto espressiva è la scena del coito sulla bandiera inglese fra il soldato e il terrorista, un incontro spiazzante, violento, per niente candido, che «emana un’impotenza ubriaca»(ivi, p.191). L’esito del corpo a corpo tra i due (in cui in realtà, come ammette Jarman, il terrorista è una donna, «ma la divisa fa credere l’esatto opposto») (Ibidem) è l’ennesimo atto di distruzione, lo scatenamento di una furia cieca, «un abbraccio alla morte» (ivi, p. 192).

Ogni frammento, dunque, è attraversato da una tensione apocalittica, che sembra sciogliersi solo verso la fine, con l’entrata in scena di Tilda Swinton che, «avvolta da un vento turbinoso di distruzione, diventa una figura di forza» (ivi, p. 200). La sua è una danza ancestrale, furibonda, una specie di rito catartico, in grado di sublimare il tempo della colpa e del disonore: del resto lei «è la divinità che cancella la memoria» (ivi, p. 203). La femminilità dolente e fiera di Swinton non vale a riscattare il destino degli uomini ma forse propizierà il viaggio dei profughi: le ultime immagini del film consegnano allo spettatore una scia d’acqua e di luce, una nuova partenza, il miraggio di una destinazione possibile. Il fiume attraversato dalla piccola barca potrebbe essere lo Stige, ma quel che conta è andare, lasciare la terra desolata, tentare nuovi approdi. Tornare a casa, lasciare la casa: è questo il dilemma su cui si chiude il film, lo strappo, la ferita inconsolabile. Mentre si va via c’è ancora tempo per un ultimo sguardo alla riva, come nel quadro di Madox Brown che dà il titolo al film: le parole del pittore restituiscono allora al testo di Jarman una scintilla di umanità e di pianto:

[…] She grips his listless hand and clasps her child,
Through rainbow tears she sees a sunnier gleam,
She cannot see a void where he will be.

alt


Note

1 L’insistenza sulle metafore del fuoco e dell’acqua si coglie in S. Dillon, Derek Jarman and Lyric Film. The mirror and the sea, Austin, University of Texas Press, 2004.

2 La metafora dello specchio vale anche come cifratura dell’esperienza erotica, innescata spesso dall’atto del guardare secondo un’infinita duplicazione di figure e coiti: «non c’era nulla di più eccitante di uno sconosciuto che si fermava per voltarsi e guardare e della caccia che finiva di fronte alla vetrina di un negozio, specchiandosi nel vetro; il lungo viaggio fino al suo appartamento o al tuo; il pulsare dei cazzi e la mente impazzita» (Jarman 2008, p. 58).

3 A rendere esplicito questo elemento è lo stesso Jarman: «Sì, sono completamente folle! Tuti gli artisti lo sono – la divina follia. Pasolini era matto come un cappellaio. Quando lo incontrai riconobbi quella parte di me» (ivi, p. 119).

4 È Jarman a citare Eraclito in un passaggio di Ciò che resta dell’Inghilterra (Cfr. Jarman 2007, p. 107).

5 È sempre Jarman a suggerire una possibile chiave di lettura di tali esperimenti visivi: «Per tenermi occupato, in quegli anni, comprai una telecamera Super 8 e decisi di sviluppare un cinema parallelo, basato su film amatoriali, che mi avrebbero restituito la libertà. Uno spazio in cui potevo dipingere il mio giardino» (ivi, p. 91). Sull’importanza simbolica del giardino nell’immaginario di Jarman si rimanda a Censi R. (2014), Prospect Cottage. Il giardino di Derek Jarman; Rimini S. (2014), Oltre la siepe: visioni estatiche nel ‘giardino’ di Derek Jarman.

6 «Lo scopo è l’opera: che il pubblico la apprezzi o no non è importante. La cosa importante è la creazione dell’opera stessa, non il prodotto finito» (ivi, p. 193).

7 In un altro passaggio Jarman chiarisce la funzione di regista-demiurgo: «Sarebbe vero dire che sto facendo questo film per me stesso e con i miei collaboratori: siamo una comunità. Io sono il perno che raccoglie i fili condivisi e crea la trama del tessuto, tiro qualche filo di base, ne lascio altri» (Ibidem).

8 Essenziale ma illuminante la lettura di Del Re circa gli effetti ‘pittorici’ del film: «I paesaggi visionari [...] sono nutriti dalle suggestioni cromatico-luminose di William Turner e dai pittori preraffaeliti Holman Hunt e Ford Madox Brown, tesi a liberare il colore dalle sue convenzioni accademiche. [...] Le sinistre figure umane di The Last of England, scoperto omaggio al Goya de “I capricci” e di “L’eretico”, si aggirano per le spettrali rovine di una civiltà che sembra espiare una violenta vendetta divina» (Del Re, 1993, p. 48).


Bibliografia

Del Re G. (1993): La trilogia di Jarman al grado zero dell’immagine, «Cineforum», n. 325, giugno.

Dillon S. (2004): Derek Jarman and lyric film: the mirror and the sea, University of Texas Press, Austin.

Jarman D. (2007): Ciò che resta dell’Inghilterra, Alet, Padova.

Jarman D. (2008): A vostro rischio e pericolo. Testamento di un santo, Ubulibri, Milano.

Pasolini P.P. (1995-1999), Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di Chiarcossi G.e Siti W., Garzanti, Milano, 2 voll.

Rimini S. (2014): Oltre la siepe: visioni estatiche nel ‘giardino’ di Derek Jarman, «La rivista di Engramma», n. 121, novembre.


Sitografia

Censi R. (2014), Prospect Cottage. Il giardino di Derek Jarman, «Nazione indiana», 25 agosto.


Filmografia

Film di Derek Jarman:

Blue (1993)

Caravaggio (1986)

Eduardo II  (Edward II) (1991)

Jubilee (1977)

The Last of England (1988)

Wittgenstein (1993)

 

Altri film citati:

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini 1975)