lancelot-joust-audience1. Il sogno del Medioevo

Dove abbiamo imparato, dunque, tutto quello che sappiamo sul Medioevo? E come?
Come ha ben scritto Giuseppe Sergi, ciò che colpisce, negli sguardi sul passato, e sul Medioevo in particolare, è la compresenza di due categorie psicologiche antitetiche, assimilazione e distanziamento. Da un lato si cercano aspetti della storia degli uomini nel passato che più facilmente possano dire qualcosa sul presente, momenti di vita quotidiana, o sentimenti ed emozioni, o che, in prospettiva, indichino possibili sviluppi futuri della civiltà; dall’altro, in positivo o in negativo, il passato impone una fascinazione collettiva indotta dalla diversità dell’esotico ritrovato negli stessi luoghi del presente, ma lontano ormai irrimediabilmente nel tempo.

Entrambi questi atteggiamenti, che insieme producono una sorta di deformazione della prospettiva, e cioè del quadro di coordinate attraverso cui guardiamo e costruiamo il passato, sono alla base del concetto di Medioevo diffuso nella cultura di massa.

La categoria del distanziamento presiede a tutta la produzione letteraria e cinematografica dell’heroic fantasy, in cui il Medioevo rappresenta l’epoca della «villosità incontaminata», secondo l’ironica definizione di Umberto Eco, di un’umanità barbarica che trae la sua forza dal contatto diretto con la natura, di sentimenti elementari al di là delle norme del vivere civile. È, anche, l’alibi per mettere in scena il conflitto perenne tra Bene e Male, incarnati appunto da personaggi dai caratteri fiabeschi (nani, elfi, streghe e fate) che agiscono secondo i moduli letterari delle avventure cavalleresche. Il signore degli anelli (1940-1954, trad. it. 1970) di J. R. R. Tolkien, nella versione letteraria e cinematografica (The Lord of the Rings, 2001-2003) di Peter Jackson, e le opere a corredo e integrazione, come l’enciclopedico Silmarillion (1977), in cui se ne ritrovano le fonti e il repertorio mitologico, insieme con potenti suggestioni tratte dalla storia della psicologia collettiva (le capacità taumaturgiche di Aragorn, ad esempio, sono le stesse realmente riconosciute ai sovrani francesi e inglesi a partire dall’XI secolo e per parte dell’età moderna), costituiscono un esempio della fortuna di un’idea di Medioevo come spazio e luogo di una mentalità “altra” rispetto a quella operante nel presente, e proprio per questo simbolo di una concezione organica del rapporto tra uomini, e tra uomo e natura, cui tendere nuovamente.

È la stessa alterità, talvolta anche rivendicata politicamente, come nel caso di Tolkien, dai gruppi di estrema destra, e tuttavia banalizzata e semplificata, che affascina il pubblico delle avventure di Conan di Cimmeria, nato in un racconto del 1932 di Robert Howard, che ha poi vissuto la massima popolarità con i film ad esso ispirati con protagonista Arnold Schwarzenegger: Conan il barbaro (Conan the Barbarian, 1982) di John Milius, e Conan il distruttore (Conan the Destroyer, 1983) di Richard Fleischer, o ancora i giocatori di giochi di ruolo, da tavolo o elettronici, il cui capostipite è Dungeons & Dragons (1968). Si tratta di un singolare intreccio tra elementi della tradizione celtico-bretone ed etica cavalleresca nei suoi tratti più semplificati, successivamente trasferito in ogni contesto spazio-temporale, reale o immaginario, passato o futuro. Si pensi, ad esempio, alla saga di Star Wars (1977-2005) o a quella di Mad Max (1979-1985), in cui una terra desertificata da una catastrofe industriale o naturale è campo d’azione per nuovi cavalieri in cerca di senso. O ancora, nel filone che riunisce suggestioni del ciclo bretone e letteratura fantastica, si pensi a Excalibur di John Boorman (1981), potente rappresentazione di violenza, etica cavalleresca, suggestioni religiose e magia, ritmata dai Carmina Burana interpretati da Carl Orff, che da originario controcanto goliardico della società medievale diventano cupa colonna sonora dell’inseguimento del Graal.

Ancora nel solco tracciato da un’idealizzazione dei valori, ormai ritenuti irrecuperabili dalla sensibilità contemporanea, è inscrivibile la riflessione di Akira Kurosawa sull’etica del samurai in Kagemusha (1980), o nei Sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) che ha ispirato un notevole filone western (I magnifici sette, ad esempio: The magnificent Seven, 1960, di John Sturges), mentre registi come Ingmar Bergman con Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957), Robert Bresson con Lancillotto e Ginevra (Lancelot du lac, 1974), o Eric Rohmer con il suo Perceval (Perceval le Gallois, 1978), insistono cristianamente sul tema del fallimento dell’impresa umana, irredimibile se non per la grazia e l’amore divini.

Una pari, complessa, nostalgia dell’innocenza di sentimenti autentici, ancorati nel passato medievale è, nel cinema italiano, nella filmografia di Pier Paolo Pasolini, i cui Decameron (1971), I Racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974), recuperano un’idea di Medioevo lontana dagli schemi del valore cavalleresco, così come si muovono, su un piano di parodia in chiave comica e “bassa”, L’armata Brancaleone (1966) e Brancaleone alle crociate (1969), in cui Mario Monicelli mette in scena un Medioevo ignorante e cialtrone, povero e feroce. Negli stessi anni, analogamente, il cinema inglese restituisce un’altra feroce dissacrazione di un mito medievale, il Graal, con lo sgangherato ed esilarante Monty Python and the Holy Grail (1975).

L’ispirazione medievale del cinema “storico” hollywoodiano esprime infine un’idea di futuro incatenato alle proprie paure, su cui si proietta una crisi della razionalità pienamente novecentesca. In 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (2001: A Space Odissey, 1968), 1997, fuga da New York di John Carpenter (Escape from New York, 1981) e Blade Runner di Ridley Scott (1982), la distopia del futuro assume contorni di tipo “millenaristico”, di un Medioevo futuro cui ritorna, per morirvi, tutta la civiltà occidentale. Analogamente, in Italia, Roberto Vacca, con il suo Medioevo prossimo venturo (1971), e ancora con La morte di megalopoli (1974), individuava le origini di questa crisi millenaristica appunto nel collasso dell’organizzazione dei sistemi industriali e tecnologici complessi, che avrebbe riportato la civiltà a forme di organizzazione politica, culturale ed economica per molti versi simili a quelle altomedievali.

L’apocalisse tecnologica di Vacca suscitò un ampio dibattito, da cui emergeva l’interpretazione “contemporaneistica” di Umberto Eco: «il Medioevo è già cominciato», basti porre attenzione a «tutte le cose [inventate nel/dal Medioevo] con cui ancora stiamo facendo i conti, le banche e la cambiale, l’organizzazione del latifondo, la struttura dell’amministrazione e della politica comunale, le lotte di classe e il pauperismo, la diatriba tra Stato e Chiesa, l’università, il terrorismo mistico, il processo indiziario, l’ospedale e il vescovado, persino l’organizzazione turistica», e ancora l’amore, l’organizzazione del tempo, dell’aldilà cristiano (l’invenzione del Purgatorio), richiamando prospettive, largamente coronate da successo scientifico e editoriale, di rinnovamento metodologico e contenutistico (le «Annales» di Marc Bloch e Lucien Febvre, di Fernand Braudel, Emmanuel Le Roy Ladurie, Georges Duby e Jacques Le Goff).

Un Medioevo reso finalmente complesso, allora, quello che un pubblico maturo divora incessantemente dal 1980, anno di pubblicazione del Nome della rosa di Eco? Difficile misurare sino a quale dei molti livelli di lettura cui invita il romanzo si è spinto il lettore medio, ma se il successo del film realizzato da Jean Jacques Annaud (1986) può essere indicativo nel modo di lettura dominante del romanzo, se ne dovrebbe dedurre una maggiore attenzione agli aspetti della detective story, sviluppati ad esempio da Ellis Peters (Edith Pargeter) con le indagini di fratello Cadfael (che sono appunto detective stories in costume), rafforzati da immagini tratte ancora dal Medioevo più truce (la strega, le torture dell’Inquisizione), piuttosto che al raffinato gioco che mette in scena la ricerca della verità da parte dell’intellettuale contemporaneo, occamista e (auto)ironico, come Guglielmo da Baskerville.

Il secondo romanzo di Eco, Il pendolo di Foucault (1988), potente demistificazione di una tradizione ispirata ad una lettura del Medioevo acritica e irrispettosa delle fonti, creata e veicolata da una spregiudicata industria editoriale (è il tema su cui torna nel 2010 con Il cimitero di Praga), può invece essere l’avvio per alcuni cenni su una delle più persistenti e pericolose forme di assimilazione del Medioevo, quella mistico-esoterica e tradizionalistica. Una reazione ultraconservatrice al mondo moderno, quella ad esempio di Julius Evola, che degli ideali della Tradizione è ispiratore e ideologo, che dalla crisi della ragione deduce non un rinnovato impegno civile nella contemporaneità, ma un ritorno ad un ideale di spiritualità confortato da una consolante speranza in una criptocrazia templare e massonica che governi, dal Medioevo ad oggi, e per il futuro, le sorti del mondo, la quale è precisamente l’allucinazione denunciata nel Pendolo. Non vale la considerazione, propria degli ambienti tradizionalisti, che il Medioevo non sia solo topos storico, ma anche simbolico e mitico, per cui sia possibile interpretarlo con altri mezzi che non siano quelli dell’analisi storica, perché sebbene possa essere considerato come legittimo ogni soggetto produttore di storia all’interno del «sistema della storia» pubblico, tuttavia si deve ribadire che precondizione del conflitto interpretativo è l’accettazione dei canoni della ricerca scientifica, rigore filologico innanzitutto.

Dalla ricerca di un’identità spirituale a quella di un’identità sociale e politica il passo è breve, ed anche in questo caso il Medioevo, l’alto Medioevo in particolare, come hanno ben ammonito storici tra cui Chris Wickham e Patrick Geary, ha funzionato come contenitore di simboli e miti, cui si ispirano i numerosi movimenti politici in ambito europeo che rivendicano identità locali e nazionali vergini e incontaminate. Sul piano cinematografico, dunque, si va dal fortunato Braveheart. Cuore impavido (Braveheart, 1995, regia di Mel Gibson), in cui William Wallace appare campione dell’indipendentismo scozzese in kilt (invenzione settecentesca) e vendicatore della sua sposa, uccisa per essersi rifiutata di soggiacere all’applicazione di uno ius primae noctis che non è mai esistito, al modestissimo Barbarossa di Renzo Martinelli, 2009, velleitario manifesto di una parte del mondo ideologico di cui si nutre l’esperienza della Lega Nord e di movimenti affini. Dalle speculazioni su presunte origini etniche delle nazioni, sino alle più vicine rievocazioni e feste paesane con mais e tacchini di cui si riempiono borghi medievali o ricostruiti tali, il Medioevo riesce a fornire, infine, un contesto entro cui situare elementi ludici e richiami a universi di senso perduti, cui tenacemente aggrapparsi quando il sogno ormai sta terminando.


2. Templari, Sindone e Graal

 

Ancora una volta, nel Pendolo di Foucault, Eco, con ironico divertimento misto a dispiacere, aveva visto lontano. La fine dei Templari, l’idea (la speranza?) della loro occulta, potente sopravvivenza, il mito del Graal e la popolare Sindone di Torino fecondano una credulità pagante pubblici servizi ma disarmata davanti a mistificatori medievali e moderni. Converrà richiamare brevemente qualche nozione.

Il primo a parlare di un graal è stato Chrétien de Troyes, il cui Perceval, ou le conte du Graal, fu composto tra 1180 e 1190. La parola graaus (nei complementi declinata in graal) in lingua d’oïl  e nel latino corrispondente gradalis, nel Perceval indica una sorta di vassoio, piatto grande e profondo, su cui è servita l’ostia di cui si sostenta il Re Pescatore, e di cui Parsifal non si comprendeva la funzione, spiegatagli in seguito da uno zio eremita. Incompiuta, l’opera di Chrétien ebbe diversi continuatori, mentre del tema si impadro¬nivano altri scrittori come Robert de Boron, che redasse in versi il suo Roman de l’Estoire du Graal intorno al 1200, e Wolfram von Eschenbach, che arricchisce il suo Parzival (1200-1220) di temi di ascendenza orientale, trascurando quelli celtici del Perceval “gallese”. Con Robert de Boron quel graal di Chrétien diventa il Graal, la coppa dell’Ultima Cena, e dove il sangue di Cri¬sto, ferito al costato dalla lancia di Longino, sarebbe stato raccolto da Giu¬seppe d’Arimatea, che l’avrebbe portato con sé in Inghilterra.

Wolfram von Eschenbach identifica invece il Graal con una pietra, simbolo probabilmente da ricollegare al Cristo “pietra testata d’angolo” dei vangeli, oltre che alla pietra su cui era stato eretto il tempio di Salomone, su cui era sorta la moschea di al-Aqsa. Non a caso custodi del Graal vengono designati da Wolfram alcuni cavalieri “templari”, la cui militia pauperum militum Christi (l’esatto nome dell’Ordine templare) aveva sede proprio nell’area della moschea, caduta in mano cristiana a seguito delle spedizioni crociate. Sebbene i cicli popolari graalici sostenessero l’assunzione in Cielo del Graal alla morte del puro cavaliere Galahad, il simbolo letterario subì la trasfigurazione in reliquia storica.

Dopo la fine del XV secolo, con la pubblicazione de La Morte d’Arthur di Thomas Malory, la materia del Graal cadde in un oblio da cui si risvegliò solo alla fine del XVIII secolo, con un fiorente revival neogotico, particolarmente in Inghilterra, in campo artistico e letterario, e in Germania, dove fu rilanciato in campo musicale da Richard Wagner. Il suo Parsifal, il cui testo fu pubblicato nel 1877, e poi musicato nel 1882, accumulava una serie di suggestioni celtiche, cristiane e orientali, che venivano ambientate in luoghi mediterranei, in un tentativo di sincretismo religioso fondato su un particolare concetto di pietas. Nella lettura wagneriana, il Graal è nuovamente e, per gran parte della cultura diffusa, definitivamente, la coppa che raccolse il sangue di Cristo, mentre Parsifal, cavaliere “puro”, combattendo contro le forze del Male, impersonate dal mago Klingsor, riuscirà a riportare alla vittoria il Bene che, nella persona del re Amfortas, alla cui presenza era il Graal, stava soccombendo.

Le radici culturali del mito graalico sono numerose, e basti qui solo accennare alla presenza di elementi desunti dalla tradizione cristiana, ortodossa o gnostico-neoplatonica, arabo-persiana, ebraica, celtica e germanica, variamente interpretati e messi in risalto a seconda della situazione politica e religiosa parallelamente alle quali si svolgeva la pubblicazione dei racconti.
Il legame con i Templari viene messo in evidenza, a partire dai primi anni del Novecento, quando una serie di pubblicazioni di studiosi di folklore sulle leggende riguardanti il Graal ricollegano all’Ordine religioso-cavalleresco una citazione di Wolfram von Eschenbach a proposito dei cavalieri custodi del Graal. L’Ordine, appresi in Terrasanta i segreti della dottrina gnostica su una conoscenza eterna trasmessa per via mistica, e avendo ispirato ad essa i propri rituali, progressivamente respinti nel campo dell’eresia come idolatri e apostati, sarebbe stato poi sciolto in maniera violenta attraverso processi ed esecuzioni. Erede di una lunga tradizione occultistica ed esoterica, risalente al De occulta philosophia di Cornelio Agrippa, del 1531, e ripresa con intensità nel Settecento, l’idea di una conoscenza occulta e di una sopravvivenza in clandestinità, con essa, dell’Ordine, ispira inoltre quel mito di una criptocrazia governante le sorti del mondo di cui si parlava a proposito del “sogno” del Medioevo, che vive nelle forme più varie in tutte le società segrete, a partire dalla massoneria.

Una teoria che gode del favore del pubblico, divulgata a partire dagli anni Ottanta senza alcun rigore filologico, fa derivare il significato della parola “graal” dalla contrazione della locuzione sang real: Cristo, dopo la resurrezione, non sarebbe stato assunto in Cielo, ma avrebbe generato da Maria Maddalena. Il vero Graal sarebbe dunque lei, coppa di sangue e carne, origine di una dinastia regale, quella francese merovingia, e custodi di questo segreto sarebbero stati i Templari, Ordine religioso-cavalleresco e confraternita occulta dopo la sua soppressione ufficiale. È questa teoria, che in ultima analisi propone un’idea di una consolatoria e primigenia divinità femminile mediterranea, che si trova alla base di recenti proposte romanzesche di largo consumo, dal Codice da Vinci di Dan Brown in giù (l’omonimo film, per la regia di Ron Howard, è del 2006).

Quanto alla vicenda dei Templari, in sé e nel rapporto presunto con la Sindone di Torino, essa ha purtroppo alimentato dilettantismo e partigianeria in modo così largo, anche da parte di studiosi accreditati, che l’individuazione e la demolizione dei falsi assunti su cui questi studi si fondano costituiscono forse il primo compito di cui gli storici dovrebbero farsi carico nel loro ruolo di insegnanti di metodo e di corretta divulgazione. La ricostruzione sindonologica secondo la quale il Telo, in seguito al saccheggio di Costantinopoli del 1204, sarebbe stata conservato segretamente dall’Ordine dei Templari e oggetto di riti iniziatici per tutto il XIII secolo, per riaffiorare nella seconda metà del Trecento in Francia, si è arricchita di volta in volta non solo di elementi fantasiosi e inverificabili, quando non marcatamente falsi, ma anche, cosa che forse è anche peggio, errati dal punto di vista filologico da parte di chi quel metodo dovrebbe avere come unica guida nello studio e nella ricerca. Un invito, quello dei «professionisti della smentita», come Sergi definisce gli storici impegnati nella decostruzione di stereotipi radicati nella cultura di massa, che, lungi dalla reprimenda accademica, spinge a misurare passioni, interessi e ideali sul terreno condiviso della ricerca scientifica, e non sul personale piano del proprio sogno, o del proprio incubo.


Bibliografia

Sul Sogno del Medioevo:

Bordone R. (1993): Lo specchio di Shalott. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Liguori, Napoli.

– (1996): Medioevo oggi, in Lo spazio letterario del Medioevo, I, Medioevo latino, dir. G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, IV, L’attualizzazione del testo, Salerno editore, Roma (tutto il volume è un contributo imprescindibile).

Il sogno del Medioevo. Il revival del Medioevo nelle culture contemporanee, titolo di un convegno tenutosi a San Gimignano, le cui relazioni sono state pubblicate in un numero monografico della rivista «Quaderni medievali», 21, giugno 1986. 

Oldoni M. (1989): Approdo all’isola-che-non-c’è: la scoperta del Medioevo, in Il Medioevo: specchio alibi, atti del convegno di studi svoltosi in occasione della II edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno a cura di E. Menestò, Ascoli Piceno.

Sui rapporti tra cinema e Medioevo: 

Attolini V. (1993): Immagini del Medioevo nel cinema, Dedalo, Bari.

Bertelli S. (1994): Corsari del tempo. Quando il cinema inventa la storia (Guida pratica per registi distratti), Ponte delle Grazie, Firenze.

De La Brèteque F. A. (1997): Le regard du cinéma sur le Moyen Age, in Le Moyen Age aujourd’hui. Trois regards contemporains sur le Moyen Age: histoire, théologie, cinéma, Actes de la rencontre de Cerisy-la-Salle (juillet 1991), dir. J. Le Goff, G. Lobrichon, Le Leopard d’or, Paris, pp. 283-301.

– (2000): Le Moyen Age vu par le cinéma européen, in «Les cahiers de Conques», 3.

– (2004): L’Imaginaire médiéval dans le cinéma occidental, Honoré Champion, Paris.

Le Moyen Age au cinéma, in «Les cahiers de la cinémateque», 42-43, 1985.

Sanfilippo M. (1993): Il Medioevo secondo Walt Disney. Come l’America ha reinventato l’età di mezzo, Castelvecchi, Roma.

Sul web: http://www.cinemedioevo.net, sito curato da Raffaele Licinio; «Doctor virtualis», Rivista online di storia della filosofia medievale, 6 (2007), numero dedicato a Un Medioevo per il cinema: intentio, fictio (http://riviste.unimi.it).

Per quanto riguarda la vicenda dei Templari:

Barber M. (1998): Processo ai Templari, ECIG, Genova (ed. or. Cambridge 1978; II ed. Cambridge 2006).

Demurger A. (2004): Tramonto e fine dei cavalieri Templari, Newton & Compton, Roma (ed. or. Paris 1985).

Nicolotti A. (2011): I Templari e la Sindone. Storia di un falso, pref. di M. Barber, Salerno editore, Roma.

Partner P. (2005): I Templari, Einaudi, Torino (ed. or. Oxford 1982, I ed. ital. 1993).

Sul Graal, buona introduzione ai temi e alla bibliografia in:

Cardini F., Introvigne M., Montesano M. (2006): Il Santo Graal, Giunti, Firenze.

Liborio M. (a cura di) (2005): Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, saggio introd. di F. Zambon, Mondadori, Milano.