«No toda es vigilia la de los ojos abiertos
Macedonio Fernandez

Where are you calling from?
A booth in the midwest
Ten years ago.»

(Joan Baez)


Al confine fra due mondi (l’occidentalizzato neoliberale e il totalitario), prima della terra di nessuno demilitarizzata, i sudcoreani hanno montato un vasto anfiteatro con una grande finestra-schermo che si affaccia sul lato nord1]L’aneddoto è raccontato da Žižek nel terzo intermezzo di Vivendo al finale dei tempi., trasformandolo in spettacolo: incorniciare non è infatti un atto innocente: ogni finestra è sempre, contemporaneamente, uno schermo dove si proiettano prospetticamente una serie di valori. Lo schermo diventa un territorio di mediazione virtuale che implica, nello stesso tempo, una cesura che interpone allo “sfondato” (così si chiamano le grandi simulazioni barocche che rompono la superficie della cupola con un buco beante falso, dipinto) il  lato, invisibile e materiale insieme, della superficie diafana di proiezione.

I sudcoreani trasformano i vicini del nord in una narrazione. Li agganciano (o meglio, credono di farlo) a una Macchina narrativa: aspettandosi di vedere cosa c’è dietro la superficie solida del totalitarismo (dietro le grandi parate dell’esercito, le prove atomiche e il volto di Kim Jong-un dietro il tramonto posticcio in technicolor) la Macchina crea per i vicini un plot, che sancirebbe la loro irriducibile differenza. Il problema è che la Macchina narrativa è indocile e completamente inconscia.
Si tratta di un apparato in sé abbastanza semplice: è una macchina desiderante, di indole riproduttiva e pragmatica, vuota al suo interno (si tratta, come dicono Deleuze e Guattari, di un vuoto centrale, la cui assenza di centro trascendente - come nel Castello o nel Tribunale kafkiano, svela la presenza di passaggi multipli). Il suo scopo è quello di produrre simulacri ovvero narrazioni pure, simulando tutti i segni e tutte le peripezie del reale2Deleuze-Guattari (“Macchina desiderante”), Baudrillard (macchina come doppio operativo che si sostituisce alla vita), Furio Jesi (Macchina Antropologica), Riccardo Piglia (che immagina una macchina narrativa costruita dallo scrittore Macedonio Fernandez) sono, in una galassia quanto mai eterogenea di riferimenti coinvolti in una riassuntiva struttura di patchwork, di bricolage, i predecessori diretti del concetto che ho deciso, come esperimento, di applicare al cinema di Hong Sang-soo.. Il risultato di questa rete di connessioni simultanee è un mondo che, come dice Baudrillard, è artificialmente resuscitato, mondo di simulazione dove è stata assassinata ogni forma simbolica in una allucinazione di verità e nella più morbida delle transazioni si passa dalla “passione del reale” (Badiou) all'effetto-reale, mondo del simulacro, «prodotto carente di sostanza il cui effetto è sperimentare il reale come se fosse virtuale»3S. Žižek, Benvenuti al deserto del reale, tr. it. Meltemi, 2002, p. 23.. Insomma l’astuzia della macchina sarebbe quella di far sparire la realtà e nello stesso tempo mascherare la sua scomparsa attraverso un sistema di montaggio degli spazi vuoti.  
Tutti siamo connessi alla macchina e Hong Sang-soo lo sa.

I suoi film sono la testimonianza lucida e teneramente inane di rendere manifesto questo apparato di produzione infaticabilmente automatico.
In Right Now, Wrong Then si vede come la macchina si inceppi a metà narrazione lasciando che la storia inizi daccapo, identica: il protagonista ritorna dove non è mai stato (come in Viaggio a Tokyo di Ozu), nello spiazzo deserto di un tempio (ci si accorge, in questa seconda parte, come la ripetizione degli stessi luoghi comporti una specie di disattivazione topografica: si ritorna daccapo negli stessi posti, ma potrebbero essere diversi e non importerebbe). È l’insurrezione di un evento, il “momento di verità” (che è più o meno quello che tenta sempre il personaggio principale, il suo “affondo”), ad alterare, ma non in maniera sostanziale, lo sviluppo della seconda storia trasformandola. Le due storie (il protagonista è un cineasta - tutti sono registi, pittori, attori o lavorano nella pubblicità, hanno insomma a che fare con la produzione di simulacri) descrivono l’impossibilità di una ripetizione autentica (Deleuze parlava di una buona e di una cattiva ripetizione) perché al centro, inaspettato, si inserisce il cuneo del momento di verità (nella prima storia il regista dice una serie di menzogne a proposito dei quadri della giovane pittrice: nella seconda dice la verità – e le confessa di essere innamorato di lei). Il problema è che anche questa liberazione momentanea dei vincoli è come se fosse prevista dalla Macchina: rivelatore è il dettaglio del dono dell’anello falso che lui ha trovato in strada e che dona a lei, simulazione impoverita del contratto matrimoniale - la macchina lavora così, offrendo raddoppiamenti impoveriti di quello che un tempo ha avuto un valore cerimoniale o rituale, ma che adesso nessuno ricorda. La duplice confessione, infine, non comporta nessuna risoluzione felice della trama: la ragazza (che nella prima parte semplicemente scompare in un’ansa della trama), nella seconda si allontana, di spalle, lungo una strada mizoguchiana ricoperta di neve. I due giovani, passando da uno a due, è come se si ritrovassero, senza saperlo, dall’altro lato dello specchio, ritrovandolo uguale.

On the Beach at Night Alone inizia con uno dei numerosi spazi desolati, svuotati di Hong Sang- soo: un parco deserto, con al centro un lago ghiacciato (inserto che richiama stranamente, forse per la sua capacità di attrazione decentrata e per il senso remoto di pericolo, La pista de hielo di Bolaño) da dove “fuoriesce” un misterioso uomo mascherato (che non ritornerà più: è una interferenza della Macchina). I personaggi sembrano distrattamente attratti da questo spazio diafano: la ragazza, ad esempio, si inoltra dentro lo spazio vuoto e la cinepresa la abbandona per un momento. Quando, con un movimento sull’asse leggerissimo, fa marcia indietro, la ragazza è scomparsa. L’occhio della cinepresa comincia a percorrere lo spazio alla ricerca della giovane; la ritrova, svenuta, sulla spalle del misterioso individuo mascherato. Woman on The Beach è un catalogo di spazi svuotati: l’impressione in Hong Sang-soo è di ritrovarsi - altro indizio di una macchina perversa che fa slittare impercettibilmente lo sviluppo della narrazione - sempre troppo presto o troppo tardi perché un sentimento autentico possa sorgere e sempre quando non c’è nessuno: un ristorante vuoto; una stanza anonima di hotel; un’autostrada; una località turistica fuori stagione; una spiaggia deserta, che sembra l’estremo confine fra cielo e terra in un mondo scomparso. La Macchina è anche strumento attivatore di coincidenze, spostamenti di caselle e deja vu.

Il cineasta racconta alla coppia di amici il film che sta (tentando) di scrivere: un uomo ascolta Mozart nella sua stanza, mentre sta scrivendo lo script di (questo) film; decide di uscire e ascolta la stessa composizione in ascensore: una volta in strada, un pagliaccio sta ascoltando, di nuovo, lo stesso pezzo di Mozart. È una coincidenza? Scoprirlo è il mistero del mondo (e dello script; il personaggio si dedicherà all’investigazione del segreto, che sarebbe, in effetti, la scoperta della Macchina: non è un caso che l’idea sia lasciata allo stato di sceneggiatura interrotta).
Sono possibili Eventi nel mondo della Macchina? Apparentemente, l’amore. Ma anche quello si rivela presto per quello che è: un intercambio impossibile che troppo presto si infrange nei silenzi repentini e nei ricominciamenti inesplicabili (il cineasta si inginocchia prima dell’accesso a un ponte, con lei di spalle, come se avesse percepito un tori invisibile, un interdetto fatale impossibile da scavalcare).
In Our Sunhi il professore a cui viene chiesta una lettera di presentazione da una alunna che non vede da tempo invece del documento formale richiesto scrive (in una specie di sostituzione inconscia, di lettera rubata) una pagina di diario, di “cuore messo a nudo”, dove svela le debolezze della ragazza in un trasferimento poetico della situazione che prelude all’abbraccio confuso (di chi si abbraccia quasi senza saperlo fare), nella strada deserta.

On The Beach at Night Alone continua con (è inevitabile fare della produzione di Hong Sang-soo un unico grande film disordinando le sequenze) una cena dove la protagonista rivela di “voler morire tutto il tempo e scomparire graziosamente”, dove i quattro personaggi (meno uno, disposto strategicamente nell’estremo lato destro della tavola, il più vicino all’angolazione di macchina, dispari rispetto al resto del gruppo) iniziano a baciarsi: la macchina mima il desiderio e lo abbassa a forme stereotipate di contratto sociale. Quindi (ma non si da mai continuità in Hong Sang-soo: solo un universo di soste in sintesi disgiuntiva) il gruppo raggiunge una stanza di hotel che dà sull’oceano: possiamo osservare qui, una nuova interferenza della macchina, la presenza di un giovane che pulisce la grande finestra che dà sulla spiaggia (si direbbe affinché gli usuari dell’hotel possano “osservare” meglio). Il giovane, di cui non riusciamo a vedere il volto, sembra essere completamente invisibile: da un lato nessuno fa caso a lui entrando e uscendo dalla grande porta finestra; dall’altro nulla, né la presenza degli ospiti, né le loro uscite reiterate possono interrompere il suo minuzioso e automatico lavoro di pulizia: si tratta di uno di quegli operatori che si occupano di ripulire la superficie della Macchina (come le persone-cartello pubblicitario all’inizio di Stray Dogs di Tsai Ming-liang, altro regista che conosce la Macchina e i suoi effetti di straniamento). È  chiaro: gli operatori non si occupano dei meccanismi interni (che sono completamente automatici) ma solo di rendere trasparente e quindi, invisibile, la sua superficie. Non è un caso, forse, che la protagonista, che è un’attrice, incontri l’assistente di un regista che gli dice che stanno girando un film, a lungo posticipato su qualcuno che il regista ha amato. Si tratta forse dello stesso regista di Woman on the beach, che non riuscendo a scrivere il suo script, lo ha cambiato? Non sarebbe scorretto, in un cinema come quello di Hong Sang-soo scambiare la similitudine di personaggi e situazioni per ripetizioni mascherate.

Ricorrente è, ad esempio, il momento della cena o del pranzo insieme, bevendo (sempre troppo) vino o saké (analogon dei momenti rituali di “pasto collettivo” di Johnny To, regista agli antipodi che a differenza di Hong mima continuamente il funzionamento della Macchina fino a farla balbettare o costringerla a mostrare il suo meccanismo di moltiplicazione incessante): la macchina produce choc meccanici e intensità impersonali, e tende alla tirannia del movimento centrifugo. Ecco allora che Hong inserisce una serie di accorgimenti o contro-astuzie: la successione delle forme parodiche (le discussioni al ristorante) e, più che una frammentazione aggressiva (Johnny To) o lo choc dell’inserto dell’evento irrimediabile e violento (Kim Ki-duk), una specie di astensione ascetica dalle normali forme di sviluppo narrativo (ricapitolazioni interrotte); la soppressione di qualsiasi elemento retorico anche nei movimenti di macchina (che si riducono allo spostamento laterale o allo zoom, in una castità che supera quella del Rossellini televisivo); il significato di una frase che sembra dipendere dalla sua posizione temporale; il campo e controcampo, il faccia a faccia che la Macchina ha disattivato, che diventa la ricerca impossibile di una reciprocità che le ragazze di Hong cercano gridando, andando in escandescenza, perché tutte le volte che vanno incontro all’altro si imbattono in un mondo di senso comune e di segni pacificamente condivisi dove lo scambio diventa una piattaforma sdrucciola di equivalenza che il movimento di macchina laterale non asseconda ma imita per mostrarci la sua vuota meccanicità: la monade cerca l’altro disperatamente ma non esiste “altro” ma solamente lo stesso. Invece dello sviluppo paratattico (il preferito dalla Macchina, perché permette sostituzioni e ripetizioni indefinite) abbiamo una specie di impallamento: invece di andare da A a B Hong si ferma ad osservare lo stesso fatto da distinti punti di vista. È come dire: la macchina esiste, non è una metafora. Il tentativo non è nemmeno quella di indicarla con il dito ma, semmai, quello di produrre interferenze, anamorfosi adesive e appiccicose sul vetro trasparente del reale.
La macchina sdoppia e moltiplica uno stesso personaggio. In Yourself and Yours la ragazza dice di essere - oppure è - la propria gemella (e lavora in un negozio di vestiti dove si vede sempre un manichino nudo); la Macchina è, per così dire, maestra di ripetizione: permette di ri-godere della ragazza come se fosse sconosciuta.

In The Day After (forse il film di Hong Sang-soo più audacemente teorico) la macchina sembra di nuovo voler sdoppiare la vicenda in due, creando, grazie ad un uso eretico del montaggio parallelo, una specie di insenatura, di “secca” spazio-temporale dove il personaggio maschile, scisso, inaugura così due sequenze autonome. Dopo la propedeutica conversazione a letto con la moglie (che sembra attestare la avvenuta metamorfosi: lo trova più magro, “diverso”) nella prima sequenza cammina per le strade deserte, solo; nella seconda (entrando in campo dal lato opposto) è con l’amante. La prima e la seconda sequenza si alternano condividendo gli stessi spazi (come accadeva in Right Now, Wrong Then, solo che quello che nell’altro film accadeva per grandi sequenze separate, qui accade attraverso un montaggio di azioni minime - minimali prontamente accostate): il parco; il tunnel della metropolitana; la strada. A queste due sequenze se ne aggiunge una terza che si scopre essere la continuazione della prima: il protagonista ha una conversazione in uno dei soliti ristoranti dove il personaggio femminile (che è sempre il più attivo, quello che continuamente cerca di sfuggire al meccanismo della Macchina, introducendo il grano di sabbia del dubbio, dello scontento, della rabbia impotente): la ragazza all’improvviso domanda al suo datore di lavoro “che vuol dire la realtà?” dicendo che si tratta di una nozione astratta, di uno specchio per le allodole. L’uomo dice che possiamo “sentirla”, toccarla con mano. Ed è qui che la giovane sembra avvicinarsi tremendamente alla visione della Macchina, al suo nucleo nascosto: “Come puoi essere sicuro di sentire la realtà? Potrebbe essere un'illusione. Sento la necessità di credere in qualcosa che non sia questa illusione che tu chiami realtà. Credo in questo mondo. E che sono protagonista del mio destino”. È un atteggiamento tipico dei personaggi femminili del regista: prima “avvertono”  la presenza della macchina, poi si ribellano ad essa.

In nessun cinema meglio di quello di Hong Sang-soo si percepisce la vertigine morbida di questo slittamento dal “fatto” al “pseudo evento”, «avvenimento che non è iniziato né è riuscito ad esistere più che come peripezie artificiali»4J. Baudrillard, Cultura y simulacro, tr. esp. Barcellona, Kairos 1987, p.78. che non hanno conseguenza alcuna e si spengono, come un bengala lanciato dall’altro lato della costa, nella loro breve insurrezione spettacolare.
I nordcoreani hanno deciso di rispondere alla “finestra - maxi schermo” del sud con una contro narrazione, agganciando i vicini ad una seconda macchina (che poi è la stessa): hanno costruito al confine una falsa città modello, che di notte si illumina: gli abitanti-attori allora, come in un romanzo di Ballard, escono a fumare una sigaretta in eleganti abiti occidentali e si fermano a parlare, osservando lo sterminato fuori campo davanti a loro, come in un film di Hong Sang-soo.

Se i primi hanno fatto del nord uno spettacolo incorniciandolo, i secondi è come se mettessero davanti allo schermo uno specchio. Alla proiezione si sostituisce, così, il riflesso: i sudcoreani non vedono che se stessi, condannati ad una specie di dispositivo platonico; convinti di osservare uno spettacolo (la cerimonia “pesante” del potere) osservano il loro riflesso sullo schermo diventato muro5Un esperimento paradossalmente vicino sarebbe Disneyland. Alla fine il parco di divertimenti non occulterebbe l’America reale, ma il fatto che è la realtà a non essere più reale: è l’America che circonda il parco di divertimenti a essere “deserto del reale”, in una lasvegasizzazione della città che si trasforma in pura estensione senza spazio, travelling sinuosamente liquido da schermo a schermo, da simulacro a simulacro. . «In ogni luogo viviamo in un universo stranamente simile all’originale: le cose appaiono raddoppiate dalla propria messa in scena, già spurgate della morte, più sorridenti, più autentiche sotto la luce del suo modello, come i volti nelle pompe funebri»6J. Baudrillard, op. cit. . Naturalmente entrambe le narrazioni, quella del sud e quella del nord, mentono. Mentono tre volte.

Uno: perché si tratta di un gioco. Mentre la macchina narrativa del sud svela il suo lato panoptico e totalitario (mascherato da apparato spettacolare) la macchina totalitaria del nord si traveste da macchina narrativa offrendo al sud una replica falsa e superficiale di un film di Hong Sang-soo. Due: perché in fondo non è più possibile inscrivere niente in uno schermo. Lo schermo è diventato mondo e il mondo Nulla. Lo schermo non è più, semplicemente rettangolare, ma avvolgente come una pelle, trasfigura il corpo in una superficie a profondità relativa. E, nello stesso tempo, «supponiamo di tenere due vetri accostati; se li osserviamo di fronte, niente richiama la nostra attenzione. Però se li osserviamo di lato scopriremo che in effetti si tratta di due vetri accostati»7R. Bolaño, Monsieur Pain, De Bolsillo ed. Mexico 2017 [trad. mia], p. 46.. Tre: perché ogni spazio vuoto, ogni spazio tra due mondi è una regione selvaggia. Kim-Ki Duk l’ha filmata in The Coast Guard (2002) che mostra le attività dei soldati sudcoreani al confine (un'attesa infinita del nemico dove si riempie il comico passare godotiano dei giorni con ogni sorta di attività ricreativa “maschile”: pugilato, calcio, fino alla canzone del milite sulla branda). Regione selvaggia dove la macchina proietta la nera fairytale dell’uomo spaventato che perde le sue coordinate e la vista inizia a confondersi per un principio di dissolvenza al nero. Cosa vede il soldato dall’altro lato, sulla spiaggia? Un corpo che, dietro una duna di sabbia, sembra stia procedendo pancia a terra: secondo i rigidi criteri di incasellamento dell’altro questo ne fa un infiltrato, una spia che tenta di guadagnare l’altro lato. Al soldato manca però una metà di immagine (tipico, questo, di Kim: mostrare immagine parziali che si contraddicono, o immagini che si riflettono moltiplicandosi o provoca buchi, piccole faglie sulle superfici soggettive dell’immagine perché il soggetto-voyeur possa guardare e tacitare così la sua insaziabile pulsione scopica), che gli mostrerebbe una ragazza, distesa sotto l’uomo che cammina carponi: la spia non è una spia, è un pescatore che sta facendo l’amore nella “wild side”.

Entrambi, il soldato assassino e la ragazza. inizieranno il più doloroso viaggio dentro sé stessi assimilando quello spazio di mezzo di disconnessione territoriale che li ha visti vicini in un frammento di tempo. Nessuno dei due scappa dalla macchina narrativa: né la ragazza psicotica, che registra un frammento del discorso della macchina e lo ripete all’infinito pensando sia la verità (nello stesso tempo potrebbe essere un frammento dell’unica frase veritiera: solo che questa frase sempre “manca” e tendere ad essa infinitamente è la trappola del desiderio): né l’ex soldato, per il quale, perverso, l’unico oggetto del desiderio è, come direbbero Deleuze e Guattari, la stessa Legge, e solo vuole installarsi dentro di essa, integrandosi nel meccanismo automatico della macchina.

La macchina narrativa condanna ad una perpetua messa in scena. Come i nordcoreani che si fingono sudcoreani perché si sanno osservati, come i sudcoreani che fingono di vedere il nord mentre non fanno altro che vedere il loro riflesso, vivere è sempre fingere almeno due volte.    

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