moloch-1999-01-gQuarta e ultima puntata dello studio che UZAK ha deciso di dedicare alla Tetralogia del potere di Sokurov riletta nei termini della fiaba. Dopo il Faust (2011), Il Sole (2005) e Toro (2001), il riavvolgimento del nastro si ferma dinanzi a Moloch (1999).





«Dall'alto del suo “castellaccio”,

come l’aquila dal suo nido insanguinato,
il selvaggio signore dominava all'intorno
tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi,
e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto».
(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XX)


Sommersa in una nebbia opalescente una giovane donna si sporge, a mo' di polena, nuda dai bastioni d'una fortezza arroccata su un'aspra vetta montana. Titaniche atmosfere avvolgono il Berchtesgaden (Nido dell’aquila), rifugio prediletto di Hitler e dei suoi più intimi collaboratori: Goebbels, lo storpio scrittore fallito e genio della propaganda, inseparabile da Magda, la moglie più fedele del Terzo Reich, e Bormann, grasso e rozzo factotum, punzecchiatore del primo per invidia del genio e disprezzo della bruttezza. Fidatissime le SS al seguito. La donna è Eva Braun, segregata nell'attesa dell'arrivo del suo “Adi”, il Führer, e della ristretta schiera di accoliti, soliti trascorrere i fine settimana nell'isolamento di questo remoto ricovero bavarese trincerato da una foschia densa e insuperabile, impegnando il loro tempo in conciliaboli esoterici e passeggiate alpestri.
Ma dietro la calma apparente di questi soggiorni montani arrivano echi d'un assordante frastuono; il sonoro è rielaborato e riverberato in modo tale da assumere echi e rimbombi cavernosi, così da suggerire una sorta di sospensione, una "distanza" indefinibile. La macchina da presa di Sokurov è penetrata nell'antro del mostro; «lo spettatore sa di aver aperto la porticina di Barbablù, sa di stare spiando qualcosa di orrendo, proprio il Moloch, perché la strega interiore, il Mostro budellare si fanno vivi e dicono che non ci sono piovre, né draghi, né serpenti, ma solo i conti da fare con quanto noi non sappiamo» (Faeti in Cambi, Landi, Rossi 2010, p. 23).

I personaggi di Moloch sembrano quasi marionette del potere mosse dai fili della banalità più atroce perché intrisa di morte e ottusità. I cortigiani remissivi e genuflettenti si dimostrano indifferenti alla meccanica del potere del Sovrano; vere e proprie maschere salmodianti organizzanti quadri dove "vero/falso", "giusto/ingiusto", "corretto/improprio" sono qualifiche fluide e manipolabili. Vogliono che ogni figura logica svanisca nella nebbia. Perfino "Auschwitz" resta solo una parola, un suono fra tanti, gettato sfrontatamente in scena da Eva e subito reso innocuo dal premuroso Boorman, che per tranquillizzare il suo Fürher si affretta a dire: «È un luogo che non esiste». Questi modificano il segno dei fatti accertati. Abitano lo stesso Palazzo lontano dal cuore del Paese. Sono feroci nella difesa dello status quo, ordinato intorno al Sovrano istupidito, ipocondriaco, ossessionato dall'idea della malattia e della corruzione (il suo salutismo estremo è solo l'espressione di una paura ancestrale), un essere dispotico, ma incapace di dominare appieno il corso degli eventi. Hitler appare come moderno Nerone, Eliogabalo, maiestas indegna nel suo modo di essere, ridicola nelle sue fantasticherie, nei suoi gesti, nel suo corpo, grottesca nelle sue idiosincrasie. Diverte i suoi ospiti con battute tipo: «Chi vuole una tisana di cadavere?», e sulle note di Richard Strauss, avvolto in fantasmatiche evocazioni del cinema di Leni Riefenstahl, commenta: «La peste è stata sconfitta. Noi vinceremo la morte». S'atteggia a padrone dei destini, ma, nei fatti, è un semplice "strumento" di morte, un fantoccio nelle mani di un'entità più grande.

La divinità fenicio-cananea assetata di sangue non è da leggersi come riferimento ad Hitler, ma piuttosto a quella costruzione che lui e la sua claque si sono fabbricati attorno e li fagocita, riducendoli a ominidi ridicoli, ulteriormente dileggiati dagli effetti adottati direttamente in ripresa: lenti cosparse di vaselina, effetti di mascherino, sovraesposizioni al limite dell'astrattismo, forti contrasti di luce improvvisi che ritagliando i personaggi come figurine prive di spessore. Sanguinari pifferai di Hamelin trascinanti le masse verso la pancia della caverna. Come nella più classica delle fiabe è il desiderio di potere, inteso come dominio sull’esistenza altrui, l’origine del male, il seme della corruzione destinata a trascinare il mondo alla rovina. Del resto, come efficacemente sintetizzato dallo stesso Sokurov: «qualsiasi potere è, in questo senso, un Moloch in potenza».
Unica antagonista al Führer, è Eva Braun, la sola capace di prenderlo a calci quando esagera in un suo sproloquio, farlo scendere dallo scranno per buttarlo su un letto disfatto o nella vasca da bagno e metterlo di fronte alla propria piccolezza di omuncolo ipocondriaco, piagnucoloso, infantile. Lei è la bella fatina della reggia che lo accudisce e invano cerca di salvarlo con il suo amore, perché ai suoi occhi Hitler non è altro che di un uomo indifeso, un vecchio in canottiera che non ha nulla d'eccezionale: una superba nullità. Solo Eva sembra emergere come vero e proprio "controcanto", non a caso Sokurov ce la presenta come presenza fisica, corpo sano, istintivo e vitale, che si oppone alla lugubre e flaccida pesantezza del Führer, all'incorporeità fantasmatica dei soldati.

Hitler è il padrone di un mondo in sfacelo segnato da un sentimento di imminente catastrofe e di progressivo deterioramento, simbolo della decadenza di un’epoca e di una cultura, espressione di una tragica concezione dell'esistenza. E lo spazio attorno riflette questo senso di rovina. Sulle cime del Berchtesgaden invece che balsamica aria di montagna c’è odore di ferro e di nebbia infetta mentre, dentro e fuori la fortezza, aleggia un incombente sentore di morte. Il regista elabora le immagini seguendo una cifra caliginosa e riesce a suggerire un'intima sintonia tra l'imponenza di cartapesta della fortificazione e la vacuità dei personaggi che la popolano. Un'enorme prigione triste, abitata da mostri che incorporano nella loro descrizione grottesca anche la macchietta di sé stessi. E l'uso del grandangolo aggiunge goffaggine a queste figure che Sokurov si diverte ad allargare a dismisura e a far muovere come freaks, esaltando una fisicità già predisposta al fenomeno, schiacciata dall'inquadratura, costretta in ambienti soffocanti. Tutti fattori che contribuiscono a creare un senso di fine incombente: dalla fotografia fredda e glaciale alle plumbee cromie che dominano in ogni immagine, dalla nebbia mortifera che avvolge ogni cosa alle spettrali deformazioni degli spazi, dall'imponenza paralizzante delle architetture alla stanca e marionettistica mobilità dei personaggi.

A Sokurov non interessa scoprire l’uomo dietro il tiranno sanguinario, quanto mettere in scena una cerimonia macabra, un teatro delle ombre dall’estetica livida e funeraria. Quel che gli interessa è la folle vanità del potere; come per l'imprescindibile Tolstoj, anche per lui, la questione principe della Storia è la questione del potere. Per i due autori russi non esistono individui storico-universali in grado di leggere le trame del tempo e di agire guidando gli eventi. Il regista prende le distanze (e in questa logica va letto l’uso di dispositivi che agiscono direttamente sull’immagine, obiettivi deformanti, filtri cromatici, lenti anamorfiche che trasformano la realtà rappresentata in un panorama antinaturalistico) dai personaggi senza mai lasciarsi andare alla tentazione di umanizzarli. Il regista ammanta la sua creazione di un alone mitico-favolistico, la cui visione evoca mistero, attesa, senso di arida grandezza, fascino cupo, sintomi di una bellezza alienata. Un'opera cangiante, non d'immediata decifrabilità, al cospetto della quale sappiamo solo, fin da subito, che siamo in uno strano teatro fuori dal tempo e dallo spazio, fuori dagli schemi obbligati dello sguardo realista. In virtù di quanto fin qui messo in evidenza è possibile rintracciare una continuità con il registro fiabesco.

Proprio come una fiaba Moloch non rimanda ad un mondo esterno, non predica uno stato di cose, così come non comunica precise situazioni psichiche interiori. Come messo in evidenza dai formalisti russi, e più nello specifico da Vladimir Propp, lo stile della fiaba impedisce l’approfondimento psicologico dei personaggi, ai quali manca ogni spessore interiore, questi è come se fossero delle figure di carta. Secondo i formalisti russi la parola fiabesca (a differenza di quella comune) manifesta se stessa, si mette in mostra come tale in tutti i suoi aspetti (fonico, semantico, grammaticale etc.), rivelandosi come segno atipico, al contempo autoriflessivo e polisemico. Allo stesso modo Sokurov elabora soluzioni stilistiche che fanno del potere immaginifico dell'audiovisione un puro valore assoluto. Il suo compiacimento formale non è qualcosa di stantio; riesce a non anchilosarsi in uno sterile estetismo. La sua spregiudicatezza registica è il risultato di una solida estetica, sorretta da un altrettanto granitica etica della visione. Come scrive Morandini, Sokurov è un cineasta per il quale il cinema non è il riflesso della realtà: la reinventa al di là dello specchio.
Come in una fiaba la realtà ricreata in Moloch provoca una de-automatizzazione dell’abituale percezione che si ha del mondo. Generalmente, sostiene uno dei più acuti tra i formalisti, Victor Sklovskij, percepiamo il mondo in maniera abitudinaria, al punto che la maggior parte dei suoi elementi o eventi ci appare come normale, ovvia, naturale. L’arte, invece, e Sokurov dimostra d'esserne ben consapevole, «elimina ogni automatismo e permette di cogliere aspetti altrimenti nascosti: di fronte alla trasgressione dei codici stilistici consueti, l’interprete si trova “spaesato”, è costretto a soffermarsi maggiormente sulla materialità concreta dell’espressione, cioè sulla sua forma» (Volli 2005, p.94). L'operazione compiuta dal regista russo è quella di dar lustro ad un segno cinematografico potenziato a dismisura, semanticamente ambiguo perché ha come proprio referente “un altro mondo”, al contempo più ricco e meno evidente, più preciso e più vario. Proprio come in un racconto fiabesco, anche Moloch si colloca «in una scenografia ‘costruita’ che ha forti analogie con la scena del teatro» (Rak 2005, p.6). Questo processo di de-automatizzazione permette dunque di guardare le cose come se non avessero senso alcuno: come se fossero un indovinello. Un procedimento questo che Sokurov, sull’esempio di Tolstoj, non utilizza come una mera tecnica stilistica. Per lui si tratta di «un modo di raggiungere, come aveva scritto Marco Aurelio, “le cose stesse e penetrarle totalmente, fino a scorgere quale sia la loro vera natura”, fino a “denudarle e osservare a fondo la loro pochezza e sopprimere la ricerca per la quale acquistano tanta importanza”» (Ginzburg 1998, pp. 28-29).

Altro aspetto di contiguità con la fiaba è la trattazione dell'elemento spazio-temporale in chiave extra-ordinaria. Moloch si svolge in un’atmosfera ipnotica, i suoi personaggi si muovono come in un plasma dai riflessi lividi e la nebbia che avvolge il luogo colloca il tutto in una dimensione di “extra-temporalità” e “extra-spazialità”. Proprio come accade nella fiaba, il film si caratterizza fin dal suo esordio per un’indeterminatezza del tempo e del luogo dell’azione: la fortezza sembra sfuggire a qualsiasi tipo di coordinata, è un regno visibile soltanto oltre il margine delle certezze. L'opera del regista russo perde le sue tracce spazio-temporali (un week-end sulle Alpi bavaresi, nella fortezza di Berchtesgaden, durante la primavera del 1942) per portarsi indietro fino a raggiungere un Medioevo di tenebre e abbagliamenti, un mondo mitico, perso in un passato lontano, indeterminato. «In questo senso le immagini di Sokurov sono come i sogni, appaiono imporre il loro concetto di tempo su di noi e arricchire, come icone, la nostra coscienza» (Botz-Bornstein 2007, p.34). Sokurov reinventa luoghi, spazi, e tempi; partendo da elementi reali, alterati attraverso l'utilizzo di vecchi trucchi artigianali (filtri, vetri, lenti, specchi, illuminazioni forzate, procedimenti anamorfici), produce effetti onirici ai confini con l’incubo: le parole sembrano dettate dalle illogiche distorsioni del sogno, come i contrasti cromatici e i bruschi cambi di scena. Di colpo la frontiera tra sonno e veglia, percezione e ricordo, presente e passato, reale ed immaginario evaporano per lasciare posto a un convegno di spettri che non si accorgono di essere trapassati, intenti come sono a lambiccarsi il cervello per trovare la formula del potere assoluto e della vita eterna. Il loro fine è quello di superare la paura della morte con la morte stessa.
Come un racconto fiabesco, Moloch serve per teatrare un’altra storia rispetto a quella a tutti quanti nota; Sokurov evita ogni facile e ovvia dichiarazione antinazista, preferendo mettere in scena tutto il ridicolo quotidiano del “male”, facendolo semplicemente esibire su un palcoscenico alla mercé del pubblico. Il regista non ci mostra, a rigore, nemmeno eventi: Moloch è un film in tralice, che si muove nelle pause della Storia, tra le sue pieghe.


Bibliografia

Faeti A. in Cambi F., Landi S., Rossi G. (a cura di) (2010): La magia nella fiaba. Itinerari e riflessioni, Armando, Roma.

Volli U. (2005): Manuale di semiotica, Laterza, Bari.

Ginzburg C. (1998): Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano.

Botz-Bornstein T. (2007): Films and Dreams, Tarkovsky, Bergman, Sokurov, Kubrick, and Wong Kar-wai, Lexington Books, Lanham.


Filmografia

Moloch (Aleksandr Sokurov 1999)

(Fine)