Il caso e altre novelle di Krzysztof Kieslowski, a cura di Marina Fabbri (La nave di Teseo, 2017), raccoglie i materiali narrativi per i documentari e per i soggetti dei primi lungometraggi del grande regista polacco: quindi per il passaggio dall’attività di documentarista a quella di autore di film a soggetto, e di autentici capolavori come Decalogo, La doppia vita di Veronica, Tre colori (Film Blu-Film Bianco-Film Rosso). Il film-chiave, da una produzione ancora acerba e quasi sperimentale a una piena maturità e originalità artistica, è allora Destino cieco (1981) (ma il titolo originale del racconto-soggetto che porta alla sceneggiatura è appunto Il caso).


Il racconto del Caso è costituito intanto da un’introduzione che segue la nascita (nel ’56, in un ospedale di Poznan, nei giorni dei drammatici tumulti antisovietici) e la crescita senza madre del protagonista, Witek Dlugosz (ma, nella novella, ambedue i momenti che nel film saranno appena accennati vanno da p. 247 a p. 264), e, alla stazione di Lodz, da una scena nel corso della quale il giovane, perduto da poco anche il padre e interrotti gli studi di medicina, “più libero” e “più sperduto”, sta per partire per Varsavia. A questo punto il narratore apre il contenuto del soggetto a tre possibilità di sviluppo della vicenda «come tre varianti dipendenti dall’evolversi casuale di questa situazione di partenza» (p. 266): 1) Witek riesce a prendere il treno che sta già muovendosi e, da quel momento, sin dagli incontri che fa nel convoglio, la sua vita diverrà quella di un attivista del Partito comunista; 2) sul marciapiede della stazione il protagonista si scontra in corsa con una guardia, viene arrestato e resta a Lodz, e, attraverso varie, successive vicissitudini finisce per aderire, passato anche per la religione, a gruppi giovanili di opposizione; 3) ancora Witek perde il treno che non riesce a raggiungere, ma trova l’amore e riprende gli studi diventando un medico-scienziato lontano dalla politica, sebbene la casualità del destino (diversamente poi che nel film) gli prepari, nel suo primo viaggio in aereo, un tragico esito (la sceneggiatura tuttavia prevede due frame finali che fissano la scena misteriosamente: «Witek, all’assemblea dell’organizzazione giovanile, si stava versando acqua frizzante da una bottiglia, quando all’improvviso restò immobile a mezz’aria. // Witek, mentre regolava la coda per Harris davanti alla chiesa, interruppe anche lui il lavoro e fissò qualcosa davanti a sé», p. 305).
L’ampia varietà e il cieco intrecciarsi dei casi che si producono nelle tre storie non sembrano pertanto disponibili, come corpi tra sé ottusi, ad alcuna volontà d’intervento del soggetto e restano tra di loro sempre sostanzialmente estranei: forma di una tortuosità si direbbe barocca di un angosciato immaginario. Tuttavia il determinismo del peso tutto esterno della casualità resta solo apparente. L’alienazione che ne deriva (agisce infatti l’influenza reciproca e ad un tempo opposta, di religione e politica, d’ideologia e scienza, di affetti e di inattesi stravolgimenti psicologici) in realtà mette la dinamica del destino alla mercé di incontrollabili forze interiori («forze che si immischiano nel nostro destino, che ci spingono in una direzione piuttosto che in un’altra», dice Kieslowski nella scheda firmata a p. 367). Ne consegue la necessità di passare dal racconto oggettivo e straniante di ciò che sta fuori (nei documentari: l’ospedale, il teatro, il treno, la chiesa, d’una società comunista alienata) alla soggettivizzazione interiore del racconto e messa in scena (i lungometraggi). Del resto, già nell’approntamento della scrittura del Caso, si palesano talora spie significative di una quasi involontaria, ma sintomatica intrusione dell’io narrante rispetto all’oggettività della trama (il narratore s’intromette infatti con espressioni come: “Dovremmo sapere” p. 247, “Immaginiamo che” p. 248, “Credo che” p. 258, “Ho l’impressione” p. 260, “Occupiamoci per un attimo” p. 274).
Allora, l’introduzione della curatrice del volume non per nulla mette in sequenza, si direbbe critica, i temi dei documentari (in cui tuttavia spiccano già fattori figurativi esemplari dello stile reale e metafisico ad un tempo del regista: per esempio, lo stilema della luce delle finestre che si aprono all’improvviso sul fondo in penombra della scena, oppure le metafore metafisiche dei cavalli al galoppo) e gli argomenti dei lungometraggi, nell’ambito dei quali, prima di Destino cieco, un ruolo essenziale ha comunque, dopo Il personale (1975) e La tranquillità (1976), il precedente del Cineamatore (1978): in cui colui che sarà sempre di più poi impegnato a catturare la realtà assai complessa che lo circonda (Jerzy Sthur, attore sempre più presente a livello francamente eccellente in  questo cinema) rivolge la macchina da presa verso se stesso, teso a cogliere l’impenetrabilità del proprio io. Infine nel Kieslowski narratore, e poi straordinario regista, la morte, come rileva la Fabbri con felice forzatura heideggeriana, sta al posto di Dio, mentre, a ragione, il poeta polacco Adam Zagajewski sottolinea, in un complessivo giudizio finale su questo eccezionale neo-umanista e nichilista ad un tempo: «Il valore inestimabile della vita umana, il fatto che ogni vita sia una domanda, che ognuna sia incommensurabilmente importante: questa è l’intuizione con cui si usciva dai film di Kieslowski».

 

Filmografia

Il personale (1975)

La tranquillità (1976)

Il cineamatore (1978)

Destino cieco (1981)

Il decalogo (1988)

La doppia vita di Veronica (1991)

Tre colori - Film blu (1993)

Tre colori - Film bianco (1994)

Tre colori - Film rosso (1994)