Im_Still_HereFacciamocene una ragione: la metà degli italiani non va MAI al cinema. Questo il dato che emerge da una ricerca condotta da Anica lo scorso anno. Nel 2010 (l’anno di Avatar!) si sono staccati poco più di 210 milioni di biglietti, ovvero un “reddito pro capite” di due visioni, neonati compresi, in un anno. È ormai troppo tardi per piangere sul latte versato: in passato si sono commessi molti errori, soprattutto sul fronte della chiusura delle sale di prossimità che hanno impoverito il tessuto urbano, culturale ed economico, oltre ad aver impedito di “coltivare” il pubblico (vedi alla voce Francia). Ma che senso ha oggi guardare al passato, quando nel presente nemmeno l’arcinemica tv riesce a mantenere il primato sulle giovani generazioni (nonostante la resistenza dello status quo) e il mercato home video sta morendo?


È la rivoluzione digitale, bellezza, e i suoi effetti sono ormai evidenti. Della “metà buona” che va al cinema solo il 3% dichiara di andarci sempre (Anica li chiama i “cinema-mad). Un pubblico troppo limitato per giustificare i costi di distribuzione di “certi” film e infatti, nel corso degli Anni Zero l’offerta in sala è profondamente cambiata. Se prima molti titoli interessanti, ma di scarso appeal commerciale, erano semplicemente Dispersi (non distribuiti) o Invisibili (passaggi in sala in poche copie e per pochi giorni), oggi anche opere più commerciali si diluiscono nei meandri delle distribuzioni alternative: reti satellitari e digitali, piattaforme ondemand e multicast, streaming e download, collane home video, per non parlare (e non lo faremo qui, se non di sfuggita) della pirateria.

Non si tratta di uno scenario futuro, ma di un presente con cui fare i conti che in realtà, sebbene ai puristi faccia orrore, nasconde grandi possibilità. Per quanto ci possa dispiacere, la pellicola è ormai al capolinea: la kodak ha smesso di produrla, i proiettori tradizionali spariranno a breve. Paradossalmente, visti i costi ordinari inferiori della distribuzione digitale, questo penalizza soprattutto il cinema d’essai in quanto le sale italiane dotate di attrezzatura specifica sono più che altro quelle dei multiplex (almeno per ora). Se da una parte le major si evolvono tiepidamente per mantenere il loro primato sui canali tradizionali, risulta incredibile come i distributori indipendenti non stiano cercando di cavalcare le nuove possibilità offerte dal digitale, sia per quanto riguarda gli inferiori costi di distribuzione, ma soprattutto sul fronte della comunicazione/promozione. Social network e web 2.0 permettono di parlare direttamente con il proprio pubblico e quindi raggiungere facilmente e senza grossi sforzi economici e pubblicitari una buona fetta di quel 3% di “cinema-mad”, che per inciso è anche generalmente “technofan”.

Proprio secondo la ricerca Anica, i “cinema-mad” sono anche più propensi ad abbonarsi a canali ondemand e all’uso della tecnologia. Quindi sarebbe auspicabile che con queste possibilità i distributori indipendenti, e non solo, trattino con la dovuta cura i “propri prodotti”. E invece cosa succede? Che sempre più spesso anche film fortemente di nicchia vengono buttati nel calderone, senza nessun tipo di valorizzazione. Facciamo due esempi. Proprio nel 2010, sono stati visti al Festival di Berlino e alla Mostra di Venezia due documentari insoliti e dal linguaggio fortemente innovativo: Exit Through the Gift Shop di e su Bansky e I’m Still Here di Casey Affleck su Joaquin Phoenix. Spiazzanti nel loro rimescolamento del vero/falso, innovativi nell’uso e nel ribaltamento del punto di vista, illuminanti sul tema della celebrità. Due opere uniche, sorprendenti ed entrambe rivolte a un pubblico particolare e definibile (in senso di targetizzazione). Normale quindi (per l’Italia) che non abbiamo raggiunto la sala, e lode a Feltrinelli Real Cinema (Exit Through the Gift Shop) e CGHV (I’m Still Here) che hanno deciso di distribuirli in dvd.

Ma - perché in questi casi c’è sempre un ma - entrambi sono stati (giustamente) doppiati. Giustamente perché da un punto di vista commerciale un film in lingua originale ha un mercato limitato, che non coprirebbe i costi. Ma perché farlo male? Il problema è che si tratta di un doppiaggio assassino, con la traccia sovrapposta all’originale, come si trattasse di uno scadente reality su case da ristrutturare o fashionisti disperati. Poco male su dvd, dove si può effettuare una scelta, ma il vero punto focale è la tv. Il doppiaggio infatti viene fatto soprattutto per vendere i diritti televisivi. E così capita di fare zapping e scoprire Exit Through the Gift Shop in prima serata su Rai 5… e non riconoscerlo. La traccia italiana appiccicata sopra lo ha completamente snaturato, rendendolo insopportabile al SUO pubblico e indigesto agli altri,  trasformandolo in un film “per nessuno”. Stessa sorte anche per I’m Stll Here, passato due volte su Raimovie a orari impervi, irrintracciabili anche per il Moige («shit in the face»), ma sempre con la traccia italiana sovrapposta, aggravata anche da errori madornali di traduzione e adattamento («the nominations for best cinematografy are» è diventato «i nominati per la miglior cinematografia sono»).

Le esigenze di mercato sono comprensibili, ma lo sono meno le scelte artistiche di chi dovrebbe conoscere il proprio pubblico e andargli incontro. Film come quelli sono indirizzati a spettatori consapevoli, cinefili e preparati, sicuramente ben disposti ai sottotitoli. Una distribuzione tradizionale e quel tipo di doppiaggio diventano controproducenti: invece di conquistare nuovi spettatori, si rischia di perdere quelli naturalmente già propensi alla visione di questi film, che potrebbero optare (anche per il ritardo con il quale opere come queste raggiungono il mercato italiano) per l’acquisto su siti stranieri o, ben più probabile, per la pirateria.
Facciamo un paragone azzardato: cinefili e appassionati di cinema sono come la fauna di una riserva forestale dove i ranger, al posto che tutelarla, la sfamano con cibo scadente, nascondendo pure le ciotole. Un comportamento alquanto irrazionale, visto che si tratta di una specie ben disposta a riprodursi e volenterosa ad essere d’aiuto.

E allora perché non sfruttare i social media per l’aggregazione di un vero pubblico per proiezioni ad hoc; i siti internet per farsi pubblicità mirata; i nuovi canali digitali on demand di streaming legale per distribuire a costi ridotti opere richieste e molto piratate?
L’istinto provoca immediate risposte: Impreparazione? Paura delle novità? Salvaguardia della classe dirigente esistente? Mercato troppo nuovo? Studi di settore ancora tiepidi sulle possibilità economiche? Non lo sappiamo, a parole sembrano tutti ben disposti, per poi scoprire che molti distributori non hanno nemmeno un canale YouTube per i propri trailer (sempre che li abbiano quei trailer) o, ancora meglio, li pubblicano solo in bassa risoluzione e magari ci mettono sopra pure la pubblicità (!). I dati a disposizione per fornire delle risposte appropriate e sensate, senza abbandonarsi alle ragioni del cuore cinefilo, non ci sono. Forse potremmo anche dire che le resistenze a lasciare andare la pellicola e i canali tradizionali sono giustificate: al di là delle ragioni produttive di costi e qualità dell’immagine, resta sempre il supporto più sicuro per la conservazione.

Ma qui non discutiamo sul giusto o sbagliato. Ormai la rivoluzione digitale è un dato di fatto con cui fare i conti e che cambierà (ha già cambiato) la fruizione del cinema. Nonostante quanto sostenuto da Filippo Mazzarella su Film Tv n. 11/2012, un film è sempre un film, su pellicola o su file. Continuando a resistere al cambiamento, o ad arginarlo, o a renderlo peggiore (come nel caso del doppiaggio di cui sopra), faremo del male al nostro amato cinema, restringendo ulteriormente la riserva naturale a cui apparteniamo. «Il presente è solo dei brutti film» diceva Godard: perché non cambiare il futuro?