altIl primo consiglio di Martin Scorsese a Willem Dafoe ai tempi de L’ultima tentazione di Cristo – “Vedi Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini” – non anteponeva alla recitazione questioni stilistiche, ma probabilmente cercava di saltare a piè pari il rischio dell’illustrazione, e si sforzava di concentrare la Storia nell’intensità irraccontabile di una sbavatura minima dello sguardo, una distrazione infinitesimale che però diventasse testimonianza del rimosso universale (spesso, nel racconto della vita di un poeta, si crede di dover fare il resoconto di un mistero, scambiando appunto la didattica con l’illustrazione, e ci si dimentica di filmare proprio questo impercettibile spostamento dell’occhio, cioè si rinuncia a illuminare tutte le successive incarnazioni del mistero stesso, troppo complesse e fulminee, e davvero circolanti a una profondità inaccessibile dell’inconscio, che riguardano il rapporto fra il corpo del poeta e il corpo della parola). Scorsese indirizzava dunque Dafoe verso la possibile incarnazione di uno spazio fisico puro, cioè verso il luogo misteriosamente fragile e pericolante (dove spesso fragilità si maschera di potenza) che siamo soliti chiamare cinema.


Abel Ferrara, per il suo Pasolini, riparte da qui (oltre che da Dafoe). Riportando fedelmente (ma l’accanito rispetto filologico è fondante nel film) l’ultima intervista con Furio Colombo, lo dice subito con chiarezza: siamo tutti in pericolo e quindi non si può smettere di filmare. Fa subito a meno dunque della retorica (anche pasoliniana) della situazione umana: certamente critica e nefanda (soprattutto se pettegolmente biografica), ma appassionante se ci si concentra su quello che il poeta stesso sapeva sfuggirgli - benchè lottasse a fondo, virando alla fine epocalmente su nuovi approdi la propria poesia (Salò, Petrolio, Porno-Teo-Kolossal) e praticando ulteriori notturni misteri della carne: la soglia in cui il disumano definisce l’umanità stessa.

Disinteressato al chi è stato a uccidere, Ferrara cerca intensità filmica nello spazio abitato dal corpo per il breve tempo di una vita (e le ultime settantadue ore possono essere una vita intera): la notte cupa e tesa di una Nazione, il desiderio sessuale, l’esattezza del lavoro quotidiano (mangiare, scrivere, parlare, giocare, filmare), lo sfinimento di una città cupolare, Roma (secondo un metodo di spettrale assedio urbano già sperimentato da Ferrara a New York e Napoli), finalmente restituitaci in tutto il suo splendore fatto di scorci improvvisi e di impatti accecanti e non certo, con falsa e ipocrita ironia, di grande bellezza (e, sia detto per inciso, Ferrara, al contrario di Sorrentino, dimostra anche di aver compreso chi era Fellini, riscoprendone nella sequenza magistrale dell’orgia – per la verità lampeggiante pure Kubrick Eyes Wide Shut e Argento La terza madre – la stralunata e astratta fantascienza, la capacità di estrarre realtà cinematografica dalle pratiche basse della realtà stessa, e non certo il contenutismo della più grassa e volgare spicciola sociologia).

Il metodo è lo stesso usato per Strauss-Khan/Depardieu in Welcome to New York, dove cosa è davvero successo nella camera d’hotel fra il Governatore e la cameriera, oltre che ininfluente, è del tutto in-interessante, al confronto della bolla flaccida e livida come un veleno che è il potere finanziario, così bene incarnata dall’obesità ambigua di ogni moralismo oppure, all’opposto, dal gusto perverso della coazione a ripetere, sadomasochismo perpetrato sul corpo malato della società e rivolto subito, con infine forse uno slancio di maggiore verità, verso se stesso (qui due o tre immagini sfocate di Depardieu nudo nella dacia di Putin sono più che lecite: ma anche questo lato cinico dell’ironia di Ferrara è stato equivocato o volutamente inosservato). L’allargarsi, il gonfiarsi di Welcome to New York, diventa in Pasolini compatto disseccamento, nel tentativo sublime di filmare il punto focale del lutto, che già allora avvolgeva l’Italia e che oggi – monolitico e auto-riproducentesi (vedi anche Belluscone di Franco Maresco, dove si assiste al più bell’attacco di montaggio degli ultimi venticinque anni di cinema italiano: Renzi da Maria De Filippi) – è parodia di se stesso. Ed è solo per questo, per avere compiuto anzitutto una scelta esclusivamente filmica, ulteriormente accesa dal colore della notte, tutta primi piani e fuori fuoco (l’Italia in tensione e confusa e già ribollente di segreti di Stato alla metà degli anni Settanta) nella fotografia nera e densa di Stefano Falivene (già con Ferrara - verrebbe da dire non a caso, a proposito di abissi biografici - in Mary, e con Gitai per Carmel), ebbene è solo per questo che Ferrara può rischiare tutto e arrivare per primo e unico a filmare testi postumi come Petrolio e Porno-Teo-Kolossal, bruciando erotismo e politica nel primo (il pratone dei pompini, la morte di Mattei, il party dei poteri forti) e risarcendo nel secondo anche Sergio Citti, da sempre più cineasta di Pasolini, che in qualche modo con I magi randagi già dava la sua versione dell’ultima sceneggiatura scritta in vita dal poeta.

D’altra parte Pasolini è anche il film che più trasparentemente mostra la verità del cinema di Ferrara, che è l’esatto contrario di chi ha sempre creduto più facile, per convenienza critica, equivocarne l’assoluta solidità teorica e conoscenza dell’immagine con certa liquida e nerissima vena lisergica (anche qui soggiacente alla regola del pettegolezzo: è così visionario per colpa della sua vita condotta al limite: e da qui semmai l’immedesimazione dichiarata più volte da Ferrara con Pasolini), la quale invece non è altro che la superficie visiva a cui un grande cineasta affida sempre il compito di cancellare le tracce più accademiche dello stile, in modo che sullo schermo scorra solo la filigrana invisibile – la carne – dell’immagine. Difficilmente dunque verrà compreso questo incredibile testo opaco, che quanto più affonda nel fuori fuoco tanto più illumina nuclei insondabili del reale e della storia di un Paese, che non occhieggia a nulla e nessuno, tanto meno al suo famoso protagonista, ma si impone di guardare alla giusta distanza, anche e soprattutto se questo significa avvicinarsi per allontanamento. L’immagine, ancora e sempre sottoposta al conflitto buio-luce, si ostina a porsi in termini sacrificali (esemplare in questo senso un altro capitolo italiano dimenticato di Ferrara: la pièce Tiny Alice) e apocrifi, letteralmente rivelando la rivelazione. Da Mary a 4:44 a Pasolini l’immagine ripete e insiste: questo è il mio sangue.


Filmografia

4:44 (Abel Ferrara 2011)

Belluscone (Franco Maresco 2014)

Carmel (Amos Gitai 2009)

Eyes wide shut (Stanley Kubrick 1999)

I magi randagi (Sergio Citti 1996)

Il vangelo secondo Matteo (Pier Paolo Pasolini 1964)

L'ultima tentazione di Cristo (Martin Scorzese 1988)

La terza madre (Dario Argento 2007)

Mary (Abel Ferrara 2005)

Pasolini (Abel Ferrara 2014)

Salò (Pier Paolo Pasolini 1976)

Welcome to New York (Abel Ferrara 2014)


Bibliografia

Pasolini P.P. (2005): Petrolio, Mondadori, Milano.