Il_primo_uomo-44491084La sesta edizione nei Tascabili Bompiani dell’ampio frammento del romanzo postumo di Albert Camus Il primo uomo (aprile 2012, a cura di Catherine Camus, trad. di Ettore Capriolo) è uscita quasi contemporaneamente col film che Gianni Amelio ne ha tratto ispirandovisi. Amelio ha trovato nell’opera di Camus l’occasione per trasferirvi il tema centrale della sua vicenda artistica ed esistenziale: la ricerca del padre e, in assenza di lui, delle sue radici nel profondo nostro Sud (la metafora del viaggio è particolarmente significativa nel cinema più maturo di Amelio, da Il ladro di bambini a Lamerica, da Le chiavi di casa a La stella che non c’è).


Per Camus cercare il padre (per lui, sin da neonato, uno «sconosciuto»), caduto casualmente sul campo nei primi mesi della Grande Guerra ‒ e uno tra le migliaia di morti che incominciavano a concimare abbondantemente la terra dello scontro immane nel cuore d’Europa ‒, ha lo stesso valore, nel manoscritto emerso a fatica dall’incidente mortale di cui lo scrittore fu inaspettatamente vittima nel 1957, della ricerca del senso della sua stessa vita e della sua formazione (diventare anche lui un uomo), segnata da un’infanzia di orfano e di povero, tra i francesi d’Algeria, negli anni ’20 del Novecento: andare oltre il «muro che lo separava dal segreto di ogni vita... sapere prima di morire, sapere finalmente per essere, una sola volta, un solo secondo, ma per sempre» (p. 31). E quasi altrettanto per Amelio la ricerca del padre è equivalsa al tentativo di ritrovarlo dopo che questi aveva abbandonato la famiglia e a lungo aveva vissuto un’esistenza di emigrante, lontano dai suoi e invano desiderato soprattutto dal figlio.

Le radici di Camus erano inscritte peraltro anch’esse nell’acceso contesto del Sud (uno straordinario, misterioso ‒ per storia e per natura ‒ nord Africa colonizzato); e l’adolescenza, la famiglia residua (la madre, la nonna, lo zio Ernest/ Etienne ‒ nel libro), la condizione sociale pressoché miserevole (gente felicemente rozza e inerzialmente priva di memoria), travalicano le domande che egli ‒ nei panni del personaggio d’invenzione Jacques Cormery ‒ si pone inizialmente sul perché della fortuita scomparsa del padre (la «patria» per lui, divenuto un Nobel della letteratura, è quella famiglia, gli amici, il loro quartiere ad Algeri, piuttosto che, retoricamente, un’idealizzata nazione o, peggio, uno Stato per cui morire). Il personaggio di Amelio, come quello dello scrittore, va dunque alla riscoperta, dopo venticinque anni, di quel mondo (un malinconico «regno di miseria»), al tempo della sanguinosa rivoluzione araba vissuto in un territorio indimenticabile dell’Atlante. E torna, con i ricordi, la vecchia, dolcissima madre analfabeta ancora viva, ma minacciata, come tutti gli altri francesi d’oltremare, dal conflitto (l’emblematica esplosione di un attentato nella città in stato d’assedio, la costante e paurosa eco di attacchi di «banditi» nelle campagne dell’altopiano interno, la presenza di camionette di soldati che sbucano, come da un incubo improvviso, da una tensione che si fa a tratti pesante e sempre più angosciosa).

Il film di Amelio, perfetto nella malinconica, rugginosa rappresentazione del passato, a questo punto svolta nobilmente nella direzione della problematica civile della inquieta tolleranza di fronte alle ragioni sensate della tragica «battaglia di Algeri» e della documentata posizione assunta da Camus a favore di esse (nelle interviste alla radio e sulla stampa metropolitana, e poi nel vivo di quella che fu allora la terra delle stragi e della disumana repressione), ma anche, in apparente contraddizione, dalla parte delle vittime innocenti e inermi ‒ alla pari della madre, tuttavia, sempre, «dai bei sorrisi coraggiosi» ‒ esposte all’attacco di un cieco, ancorché necessitato terrorismo. Il romanzo di Camus invece sfiora soltanto questi temi, è straordinario nella rievocazione di una determinata condizione storico-antropologica, ed è intensissimo ‒ quasi un incompiuto capolavoro ‒ nel rammemorare la parabola della densa maturazione che si strinse, un tempo, in particolare intorno all’infinito sentimento d’amore di Jacques per la madre.

Il riscatto, tramite la scuola e un indimenticabile maestro (da cui riceve, tra l’altro, l’«unico gesto paterno» della sua vita), che seppe indicargli un esaltante percorso culturale al di là di un’esistenza bloccata da «una povertà nuda come la morte», trova un punto di focalizzazione proprio nella figura della madre (ecco il suo ritratto da giovane, amorevolissimo, già nelle prime pagine del libro: «La donna aveva un viso dolce e regolare, capelli da spagnola neri e ondulati, un nasino diritto e occhi marrone, belli e limpidi... Alla bontà così singolare dello sguardo si mescolava a volte un lampo di paura immotivata che subito si spegneva», p. 11), Catherine, domestica senza cultura per la quale la vita era una sciagura e, che, solo una volta tornata ad essere toccata fugacemente da un sogno d’amore (anche Amelio ne accenna con rara delicatezza), con il fratello semimuto tira avanti a fatica la famiglia tenuta troppo saldamente in pugno da una dispotica nonna.

In questo eccezionale scritto, in parte sommario, Camus mostrava di passare dai temi dell’assurdo e dell’indifferenza (accennati qui nel capitoletto su Malan, pp. 35-42) a quello della speranza umanistica; vissuto nella «terra dell’oblio dove ognuno era il primo uomo», egli «aveva cercato di sfuggire all’anonimato, alla vita povera, ignorante, testarda, non se l’era sentita di vivere a livello di quella pazienza cieca, senza parole, senza altro progetto che l’immediato» (p. 202). Quasi geneticamente laico (per sua madre, «la dolcezza era di fatto la sua sola fede», p. 170), se, da adolescente, nella vuota ritualità della prima comunione aveva toccato il mistero («un sogno ancor più ricco e profondo, un sogno popolato di riflessi dorati nella penombra degli oggetti e dei paramenti sacerdotali... un mistero senza nome con il quale le persone divine nominate e rigorosamente definite dal catechismo non avevano nulla a che fare e a che vedere», p. 175), poi, col sesso, aveva scoperto che «qualcosa di oscuro, di cieco, si agitava in lui, a livello del sangue e della specie», cosicché questa volta «gli si rivelava un mistero che, malgrado le sue incessanti esperienze, non sarebbe mai riuscito a esplorare fino in fondo» (p. 274): «Quella notte che era in lui, sì, quelle radici oscure e confuse che lo collegavano a questa terra splendida e terrificante, ai suoi giorni infocati come alle sue sere improvvise che ti stringono il cuore e che era stata come una seconda vita, forse la più vera sotto le apparenze quotidiane della prima, con una storia fatta di un susseguirsi di desideri oscuri e di sensazioni potenti e indescrivibili» e, dentro di sé un imperioso «desiderio, sì, di vivere, di vivere ancora, di mescolarsi a ciò a che la terra aveva di più caldo, ed era questo che senza saperlo si aspettava da sua madre, e che non otteneva e forse non osava ottenere» (pp. 287-288).

Insomma, una sostanza densa ‒ anche edipica ‒ di quell’esperienza ‒ della sua scrittura ‒, di cui solo qualche traccia si trova nel film di Amelio: poiché altri, come s’è visto, in qualche modo meno tragici se non meno accorati (ad esempio la sofferenza per la condanna a morte di un terrorista), sono i suoi obiettivi, altri i suoi motivi dominanti e la sua cultura antropologica.